PARTE I
PRECEDENTI STORICO GIURIDICI
La nobiltà nel diritto romano
Prima di passare all’esame del nuovo ordinamento e per poter valutare
con esattezza la sua portata e la sua grande importanza legislativa unificatrice,
si rende necessario conoscere quali erano gli ordinamenti e le consuetudini
abrogate che regolavano la materia nobiliare.
In diritto romano antico erano chiamati patres o anche patricii i signori
o capi che stavano a rappresentare nel Senato le antiche gentes ed essi
formavano una nobiltà ereditaria. Successivamente quando la scelta
dei senatori venne fatta anche tra persone che avevano ricoperto cariche
pubbliche, questi senatori, che potevano essere indifferentemente patrizi
o plebei, erano chiamati conscripti. Ma poiché col tempo si era
indebolita l’organizzazione gentilizia, e siccome solo i patrizi
potevano essere patres, mentre i plebei non potevano essere che conscripti,
col termine patres venivano designati i senatori patrizi, e con quello
di conscripti i senatori plebei. Donde la espressione patres conscripti
serviva ad indicare l’insieme dell’assemblea senatoria1
.
Ma rallentatisi i primitivi rigidi costumi romani, venne a costituirsi
una nobiltà plutocratica, accanto agli antichi patrizi, formata
da quei magistrati che nel governo delle province avevano accumulato ricchezze
enormi. Fu questa nobiltà che introdusse l’uso di tener esposte
nell’atrio delle case le figure di cera degli antenati che avevano
rivestito cariche curuli, ed essa sola aveva lo ius imaginum.
Una specie di nobiltà inferiore era costituita dai cavalieri, i
quali avevano aumentato le loro ricchezze facendo gli appaltatori delle
imposte ed i commercianti. Essi risorsero sotto l’impero e furono
chiamati a coprire, insieme coi senatori, tutte le cariche dello Stato.
Di tal che la nobiltà ereditaria come era all’epoca regia
si trasforma in nobiltà burocratica nell’epoca repubblicana
e tale si conserva sotto l’Impero.
Il carattere fondamentale della nobiltà romana può così
considerarsi come una causa d’onore per le gesta degli antenati2
, e tale concetto ritorna nell’ordinamento nobiliare rimasto dopo
l’abolizione della feudalità, perché fa del titolo
soltanto una decorazione del nome di famiglia.
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1 - BONFANTE, Storia del Diritto Romano, 3a ediz., 1933,
pagina 81; DE FRANCISCI, Storia del dir. rom., vol. I, pag. 132, 265,
Roma 1926.
2 - FADDA e BENSA, Annotazioni alle Pandette del Windscheid, vol. IV,
pag. 172, Torino 1926. La descrizione dei privilegi dei senatori, dei
patrizi e dei cavalieri romani, nonché dei loro segni distintivi,
trovasi in MOMMSEN, Disegno di diritto pubblico romano, trad. Bonfante,
Milano, pag. 43.
La nobiltà al tempo
delle invasioni barbariche
L’intima connessione della nobiltà con le istituzioni politiche
impone la necessità di tracciare a grandi linee, e dal nostro punto
di vista, quale sia stato nel nostro paese lo svolgimento delle istituzioni
stesse dalla caduta dell’impero romano (anno 476 d. Cristo) alla
abolizione del feudalesimo. È da ricordare anzitutto che le invasioni
barbariche culminarono al V secolo.
Nell’ordinamento longobardico in Italia stava a base il principio
del diritto barbarico della inscindibilità perfetta fra l’amministrazione
civile e quella militare, per cui i capi dell’ordinamento militare
e gli ufficiali erano i reggitori e gli organi del potere civile.
A base del governo locale stavano i duchi (duces, ducones) che erano gli
antichi capi popolari, ed il territorio era ripartito in ducati che generalmente
prendevano il nome dalla città che ne era capoluogo. I duchi erano
sottoposti al potere prevalente del Re ed erano di nomina regia, ma, in
conseguenza della loro origine popolare avevano ufficio vitalizio nei
loro distretti ed assomma vano nelle loro mani ogni autorità militare,
giudiziaria e di polizia.
La restaurazione dell’impero romano d’occidente, rimasta nei
voti delle popolazioni italiche durante le invasioni barbariche, venne
realizzata da Carlo Magno a Roma la notte di Natale dell’800, ma
l’elemento barbarico predominante non fu in grado di comprendere
la necessità di un governo centrale che lo avesse guidato sulla
via del progresso, pur nominandolo con la forza. Di tal che, 29 anni dopo
la morte di Carlo Magno, il suo impero si divise in tre stati: Francia,
Germania e Italia; e, dopo Carlo il Calvo, ognuno di essi fu diviso in
una quantità di possessi grandi e piccoli, che iniziarono il periodo
storico del feudalesimo3
.
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3 -Immensa è la bibliografia sul feudalesimo, che
può rilevarsi dalle opere di storia del diritto italiano, ultime
fra l’altre quelle del SALVIOLI, 9a edizione, Torino 1930; SOLMI;
2a edizione, Milano 1918 - con la bibliografia citata.
Il feudalesimo in Italia
In Italia i diversi popoli germanici, che si erano succeduti: Eruli, Goti,
Longobardi, Franchi, vi avevano gettato il seme del feudalesimo germanico,
ma le impronte lasciate dalle istituzioni romane nelle province erano
rimaste così vive soprattutto nelle città, dimodoché
il regime feudale acquistò in Italia un carattere tutto speciale.
Gli Imperatori nell’Italia settentrionale e centrale, per tenerla
meglio assoggettata, accanto ai feudatari laici, dei quali poco si fidavano,
concessero amplissimi poteri ai Vescovi, e, non di rado, l’ufficio
del conte nelle città di loro residenza, con l’incarico di
organizzare una propria feudalità sulla quale gli Imperatori potessero
contare.
Dato che la feudalità aveva una base spiccatamente militare e gerarchica,
in Lombardia si distinsero 4 gradi di feudi e di nobiltà.
Al primo appartenevano i feudatari maggiori o principes, aventi feudi
col titolo di duchi, marchesi, conti, i vescovi, gli abati e le abadesse
possessori di feudi. Essi formavano la curia del principe ed eleggevano
gli imperatori ed i re.
Al secondo appartenevano i capitanei, detti poi generalmente conti.
Al terzo entravano i vassalli dei capitanei, o valvassori.
Al quarto i vassalli dei valvassori, chiamati valvassori minori o valvassini.
Con nomi e titoli diversi, le stesse classi appariscono nelle altre regioni
d’Italia: nella centrale e parte della meridionale abbiamo tre classi:
conti, baroni e militi, in Piemonte e Savoia: baroni, banderesi e vassalli.
Da questi rapporti feudali, era rimasta quasi immune parte dell’Italia
meridionale e la Sicilia, ma vi si svilupparono poscia, soprattutto con
le signorie normanne e con la formazione della monarchia in Sicilia. Quest’ultima
ridusse ad obbedienza i capi normanni, che avevano costituito signorie
autonome, e formò una vasta gerarchia feudale, che anche la monarchia
sveva succeduta, tenne a freno. Ma quest’opera di freno non fu seguita
né dagli Angioini in continente, né dagli Aragonesi in Sicilia.
Di fronte allo sviluppo delle signorie feudali sorge anche l’inizio
delle libertà comunali nelle città.
Per il fatto che l’obbligo del servizio militare era uno dei principali
doveri derivanti dalla tenuta del feudo, la milizia acquistò carattere
professionale e divenne l’occupazione favorita e quasi esclusiva
della nobiltà, ed i nobili furono chiamati con l’appellativo
di milites, cavalieri, titolo d’onore e dignità, ereditario
come il feudo, che li teneva segregati dalla plebe ed imponeva loro doveri
rigorosi e precisi.
Allora si stabilirono le condizioni richieste per l’ammissione al
cavalierato, il tirocinio, le prove preparatorie, i voti solenni con cui
avveniva la vestizione, condizioni e riti che miravano studiatamente a
conservare l’istituzione come patrimonio sacro nel seno della nobiltà,
a mantenere puro lo spirito di corpo, a preservare la nobiltà da
ogni corruzione.
La cavalleria si diffuse in Europa ed in Oriente, e rifulse al tempo delle
crociate, le quali furono incentivo alla creazione di nuovi ordini cavallereschi
con carattere misto di religione e di milizia.
Dopo il mille l’antica nobiltà militare fu combattuta dai
comuni e dal monarcato, e decadde sotto il potere delle repubbliche comunali
e dei principi, e cominciò il secondo periodo del feudalesimo,
quello che può dirsi curtense, nel quale l’elemento privato
del feudo, con tutto l’apparato economico e fiscale, prevale sull’elemento
pubblico, e questo apparato economico e fiscale persiste attraverso il
medio evo e l’epoca moderna fino al secolo XVIII.
In generale può dirsi che nell’alta Italia il feudalesimo
come istituzione politica cessò di avere importanza nel secolo
XIII, avendo i comuni di Toscana, Emilia e Lombardia abolito i vincoli
personali ed il servaggio della gleba.
Le antiche classi feudali formarono la nobiltà, i magnati dei comuni
e delle monarchie, con diritto speciale, privilegi, immunità ed
onori, ma senza esercizio di sovranità territoriale, cioè
senza diritto di tener tribunali, far leggi, tenere armati, ecc. Il feudalesimo
invece nell’Italia meridionale si mantenne potente fino al XVIII
secolo4
.
Carattere della feudalità italiana è che, anche dopo la
costituzione delle grandi e piccole monarchie nella penisola, la maggior
parte dei principi riconobbe gli stati come feudi avuti dall’imperatore,
al quale prestavano i doveri feudali. Ciò avvenne specialmente
per i principi dell’Italia settentrionale, i quali intervenivano
alle diete dell’impero e sottostavano alle decisioni dell’imperatore
per le questioni che sorgevano fra i principi stessi.
Ma allorquando gli eserciti sovrani non furono costituiti soltanto dalla
nobiltà, ed al servizio militare fu sostituita l’adoha o
adobha (contributo di denaro a vantaggio del signore, detta anche hostenditiae,
e nell’Italia meridionale bursale) che servì per assoldare
le compagnie di ventura, e furono formati dei veri e propri eserciti,
dei quali fu capo il sovrano, la nobiltà perdette l’importanza
politica che aveva prima, e si distinse dal popolo, sia per gli uffici
ad essa riservati, sia per i privilegi di cui godeva.
Nei Libri Feudorum, compilazione privata dei secoli XII e XIII, divenuti
il diritto comune intorno ai feudi, si trovano le fonti del diritto feudale,
sull’oggetto del feudo, sui diritti ed obblighi che ne derivano
pel Signore, per il vassallo, sui modi d’investitura, sulle regole
della successione feudale5
.
Dato che nel medio evo era nobile chi era possessore di feudi e quindi
feudatario e nobile erano sinonimi, occorre qui tracciare i principi del
diritto feudale per quanto si attiene ai titoli nobiliari. Sarà
detto in seguito dei titoli nobiliari di origine non feudale (vedi n.
18).
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4 - SALVIOLI, op. cit., pag. 213.
5 -Una sintetica ricostruzione storica della successione feudale trovasi
nella sentenza della Corte di Appello di Napoli in sede di rinvio, 13-1-1931,
Malagola Ubaldini - Presidenza del Consiglio dei Ministri, Foro It., 1931,
1, 1309.
Distinzione di feudi
I feudi venivano distinti in titolati o di dignità e in non titolati.
Nei titolati si riteneva che il titolo fosse loro inerente, e quindi passasse
col possesso. I non titolati si chiamavano anche ignobili o burgensi.
Il feudo titolato, anche se fosse passato ad un uomo rustico, rimaneva
nobile, e viceversa il feudo rustico rimaneva tale anche se fosse passato
ad un nobile. Inoltre un uomo rustico se avesse comprato un feudo nobile
non diventava nobile, essendo opinione comune che generositas et virtus
pecuniis comparari non possunt.
Se invece un nobile non titolato acquistava un feudo titolato, poteva
prenderne il titolo.
Altra distinzione era quella di feudi di forma larga, alla cui successione
erano chiamati tutti gli eredi, e feudi di forma stretta alla cui successione
avevano diritto i soli discendenti; e quella di feudi pazionati, ereditari
e misti. Si chiamavano pazionati, e in altre regioni retti e legali, o
ex pacto et providentia, quelli concessi con la formula: tibi
et filiis; tibi et successoribus; tibi et discendentibus ex legitimo
corpore, nei quali feudi succedevano solo gli eredi del sangue del
primo investito, ex pacto primi adquirentis et ex providentia dantis
(del signore) in favore cioè dei discendenti del primo investito.
Si chiamarono impropriamente feudi «ereditari», feuda
mere haereditaria, quelle terre che erano paragonate ad allodio,
che venivano concesse con la formula tibi et cui dederis; tibi et
haeredibus quibuscumque; tibi haeredibus tuis in perpetuum, nei quali
poteva succedere anche un estraneo, reputandosi trasmissibili a chiunque
piacesse al primo investito; ed essendo il successore chiamato non jure
proprio, ma ex persona defuncti, come erede dell’ultimo possessore.
Poiché in tal modo si addiveniva alla commerciabilità dei
feudi a danno del fisco, nelle investiture successive venne adoperata
la clausola di stile: natura feudi in aliquo non mutata, che
fu poi confermata da Carlo V, per cui la mutazione della natura del feudo
doveva risultare da dichiarazioni esplicite dell’atto di investitura.
Carlo I d’Angiò a Napoli adoperò un altro tipo di
feudo, che non danneggiava la regalia sovrana, ma l’avvicinava al
diritto comune, con la formula d’investitura tibi et haeredibus
ex corpore legitime discendentibus utriusque sexus. Questo feudo
fu chiamato misto ed anche ereditario, mentre mere haereditaria erano
detti i feudi impropri; ed avendo questa formula dato luogo a dubbi d’interpretazione
venne da Carlo II interpretata nel senso che, nella successione, il fratello
o la sorella succeda al fratello o alla sorella, servata la prerogativa
della primogenitura e del sesso maschile. Cosicché in questi feudi
poteva succedere un erede del sangue, e non un erede estraneo.
I feudi si distinguevano poi in maggiori, mediani, minori e minimi. I
maggiori detti in capite erano costituiti dai grandi benefici concessi
direttamente dal sovrano e per lo più annessi agli uffici civili
e militari, e comprendevano i comitati, i marchesati, le baronie, i grandi
feudi laici ed ecclesiastici.
I mediani, civili od ecclesiastici, erano formati dalle concessioni di
patrimoni fondiari di minore estensione, con esercizio di cariche pubbliche
di minore importanza.
I feudi minimi ed i minori comprendevano concessioni territoriali varie
dei patrimoni laici ed ecclesiastici, compiute spesso a titolo di livello
e gravate di oneri a carattere feudale.
Nell’antico diritto feudale era assoluto il principio della inalienabilità
dei feudi, e l’alienazione o aggiudicazione all’asta importava
la devoluzione del feudo alla corona. Successivamente, diffusosi l’uso,
fu dal diritto feudale più recente ammessa la vendita del feudo,
purché l’acquirente assumesse gli obblighi dell’alienante
e previo assenso della corona.
Il titolo feudale
Il titolo nella generalità delle leggi feudali era nei primi tempi
connesso al feudo titolato.
Siccome il feudo era indivisibile, e quindi non si divideva fra i figli
del feudatario, ma si devolveva al maschio primogenito, così anche
il titolo veniva attribuito al figlio che succedeva al feudo.
Allorquando venne ammessa l’alienazione del feudo, per la connessione
fra titolo e feudo, in caso di alienazione del feudo titolato, il titolo
veniva assunto dall’acquirente, e fu perfino di fatto, e non di
diritto, ammesso che il titolo venisse assunto dal venditore e dal compratore.
In diritto però venne sempre riconosciuta la indivisibilità
dei titoli, anche allorquando, per abuso gli ultrogeniti assumevano titoli
nobiliari spettanti al primogenito.
Ma cresciuta l’estimazione dei titoli, nei casi di vendita del feudo
titolato, veniva stabilito che il titolo non sarebbe stato trasferito,
usandosi la clausola retenti titulo. E per effetto di tale clausola, divenuta
di stile, si ritenne che il titolo, a meno che non vi fosse espressa indicazione,
non s’intendeva trasferito. Non mancarono però gli abusi
che i compratori assumessero un titolo non trasmesso.
Venne così affermato che il titolo fosse separato dal feudo, e
se ne aveva la prova nel fatto che, nel caso di confisca dei beni, i titoli
si perdevano dal reo e non da chi doveva succedergli nel titolo. Nel Napoletano
ed in Sicilia fu vietata la vendita, la donazione, il legato dei titoli,
perché non potevano formare oggetto di private contrattazioni.
In Piemonte fin dal 1475 fu consentita l’alienazione del feudo per
dotare le fanciulle e per necessità di famiglia, e dal 1729 fu
data facoltà agli acquirenti dei feudi dal Procuratore Generale
di disporne sì per contratto che per testamento a favore di chi
volessero, purché fossero persone capaci e gradite al Sovrano.
La successione nei feudi
Per quanto riguarda la successione nei feudi vi erano norme diverse. Per
il diritto dei Franchi, il feudo era indivisibile, ed al possessore succedevano
i figli e i discendenti fino all’infinito; ed i maschi erano preferiti
alle donne, ed il primogenito escludeva il fratello minore; se poi non
esistevano maschi, la prima figlia escludeva le altre, purché però
non fosse maritata e dotata, e purché nell’atto d’investitura
le donne non fossero state escluse.
Per il diritto longobardo i ducati e le contee soltanto erano indivisibili;
i feudi minori invece si dividevano fra i figli, escluse di regola le
femmine6
. Vi erano però feudi muliebri, nei quali le donne succedevano
insieme ai maschi. Di regola il feudo longobardo si svolse nell’Italia
settentrionale e centrale, quello franco nell’Italia meridionale,
in Sicilia ed in Sardegna, ma ciò non toglie che gli Aragonesi,
gli Svevi, Carlo V, gli altri Re spagnoli abbiano fatto in Italia concessioni
di feudi secondo il diritto longobardo. I figli per succedere dovevano
essere legittimi o legittimati per susseguente matrimonio, con esclusione
della legittimazione per oblationem o rescriptum principis. Erano esclusi
quindi dalla successione i figli naturali, riconosciuti o no, e i figli
adottivi. Inoltre erano esclusi dalla successione coloro che avevano contratto
voti solenni (frati e preti) o per difetto di corpo fossero stati inetti
alle armi.
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6 - La forma di successione franca richiama alla mente
la legge Salica, di cui parla l’art. 2 dello Statuto, quando dice
che lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo ed
il trono è ereditario secondo la legge Salica. Detta legge, secondo
il Racioppi e Brunelli (Commento allo Statuto, art. 2, Torino 1909), è
una compilazione di norme giuridiche redatta probabilmente fra il 453
e il 486 ad uso dei giudici di centèna (o cento famiglie rurali)
dei Franchi Salii, cioè dei popoli stanziati lungo il fiume Yssel
in Olanda. Una delle disposizioni di questa compilazione e la più
famosa, stabilisce che le donne nella proprietà fondiaria erano
escluse dalla successione, e questa devolvevasi ai maschi in parti eguali
fra loro. Durante una controversia sorta verso il 1216 fra Enrico III
d’lnghilterra e Filippo IV di Valois per la successione al trono
d’Inghilterra, questa disposizione generica della legge salica fu
richiamata dai giuristi per la prima volta in ordine alla successione
di diritto pubblico; alterandosene però il significato le si diede
il senso non solo della esclusione delle donne, ma anche il senso del
passaggio della corona secondo l’ordine della primogenitura. Da
allora in poi la frase «legge salica» diventò convenzionale,
e fu così usata dal nostro Statuto, essendosi dalla dinastia di
Savoia fin dal secolo XIII adoperato sempre il sistema della esclusione
delle donne dalla successione al trono.
La vita milizia e la dote di paraggio
Circa la sorte dei figli nati dopo il primogenito, e chiamati ultrogeniti,
provvedevano gli istituti della vita milizia per gli uomini, e della dote
di paraggio per le donne.
La vita milizia fu un istituto creato dall’imperatore Federico II
lo Svevo, e consistette, dapprima, in un vitalizio sui frutti del feudo
di cui godeva, vita natural durante, l’ultrogenito, e cessava alla
di lui morte, e, poscia, in beni o in contanti che si davano in piena
proprietà ai maschi ultrogeniti.
La dote di paraggio consistette, dapprima, in una rendita vitalizia sui
frutti del feudo ed ipotecata su di esso, poscia in denaro ed altri beni
che venivano dati in proprietà alla dotata, secondo le sostanze
della famiglia, il numero dei figli superstiti ed il matrimonio che la
donna contraeva, circostanze tutte che diedero luogo ad altre disposizioni
successive ed a litigi.
Nel diritto feudale longobardo, pel quale l’eredità feudale
si divideva fra tutti i figli maschi chiamati del medesimo grado; coloro
che venivano esclusi dalla chiamata per difetto fisico o morale, come
i muti o i furiosi, avevano diritto ad essere convenientemente alimentati
dagli eredi.
La réfuta
Nel diritto feudale era consentito che il possessore di un feudo, titolo,
fedecommesso, maggiorascato potesse trasferirlo al prossimo successibile,
a colui che avrebbe dovuto succedergli in virtù dell’atto
di concessione. Questo trasferimento a favore del prossimo agnato era
considerato non come donazione, ma come anticipata successione ammessa
per modum legum, e veniva chiamato réfuta. I feudalisti equiparavano
la refuta alla rinunzia del feudo, del titolo, in mano della corona.
Non occorreva per la refuta in mano del prossimo successibile alcun consenso
degli altri agnati, né il regio assenso. La refuta poteva farsi
anche del solo titolo, senza quella del feudo, specie quando il titolo
ed il feudo derivavano da concessioni diverse ed il titolo era stato concesso
intuitu personae. Quando la refuta era fatta a favore non del prossimo
agnato, ma di agnato più lontano, la refuta non era una rinuncia,né
un’anticipata successione, ma un vero e proprio atto di trasferimento,
di alienazione, ed allora occorreva l’assenso regio e di tutti coloro
ai quali sarebbe spettato il titolo o il feudo o la primogenitura secondo
l’atto di concessione.
Nel Napoletano con la prammatica 20 de feudis venne prescritto che coloro
avessero fatto refutazione dei feudi, e non dei titoli, ai loro figliuoli
o altri successori dovessero, entro quattro mesi dalla data della prammatica,
farla iscrivere nei quinternioni della R. Camera, e d’allora in
avanti tutte le refute che sarebbero state effettuate dovevano essere
fatte notare nei quinternioni predetti entro 15 giorni dalla refuta sotto
pena di rimanere inefficaci, e ciò al fine del pagamento del relevio
o laudemio al fisco.
Inoltre con rescritto regio 8 giugno 1842 fu stabilito essere necessario
per le refute a favore di agnati remoziori, il consenso di tutti gli agnati
che precedevano nel grado colui a favore del quale si effettuava la refuta.
Quando alcuno degli agnati era minore di età, con regio rescritto
5-8-1843 venne stabilito che non vi fosse modo legale al di lui consenso.
La giurisprudenza ha ritenuto variamente: che la refuta dovesse essere
fatta con atto pubblico, ed altre volte che bastasse qualunque scrittura,
specie per la refuta del solo titolo.
La perdita del feudo
Quando nel feudo si verificava la mancanza di successibili secondo l’atto
di concessione, il feudo ritornava alla corona.
Il feudo si perdeva anche per fellonia, cioè delitti del feudatario
verso il signore, o delitto comune, nel quale era compreso l’ingiusto
trattamento dei sudditi.
Nell’antico diritto feudale la nobiltà si perdeva qualora
il feudatario si fosse dedicato al commercio e non alle armi. Successivamente,
quando i traffici ed i commerci si svilupparono ed il mestiere delle armi
decadde, e i commercianti con le loro ricchezze poterono procurarsi un
titolo, l’alto commercio e la tenuta di un banco o del cambio non
furono più reputati causa di perdita della nobiltà7
. L’esercizio delle arti meccaniche era causa di perdita temporanea
della nobiltà per colui che le esercitava, ma non la perdevano
i successibili. Ma ciò non era uniforme per tutti gli stati. Anche
per alcune professioni liberali, quali la chirurgia, la farmacia, il notariato,
si discusse se l’esercizio di esse avesse fatto perdere la nobiltà,
ed alcune leggi napoletane stabilirono che esse fossero incompatibili
con la dignità di nobili.
Nella dottrina comune si ritenne che il feudo non potesse perdersi per
prescrizione, né acquistarsi per usucapione, per cui il lungo possesso
di un titolo o di un feudo costituiva soltanto una presunzione che ci
fosse stata la relativa concessione.
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7 - STOLFI, op. cit., pag. 348 e seg.; SALVIOLI, op. cit.,
pagina 314. - Il commerciante non poteva diventare nobile se non dopo
30 anni dacché aveva cessato dal commerciare. Solo nel XVIII secolo
(Lombardia 1760) si tolse questa eccezione pei commercianti all’ingrosso
in seta e lana ed a Napoli nel 1757 venne nobilitato chi aveva esercitato
da due generazioni siffatto commercio. Ad Ancona con bolla di Papa Urbano
VIII del 7 giugno 1644 venne consentito l’esercizio dell’arte
della lana e della seta ed il commercio di certe merci senza pregiudizio
della nobiltà. La bolla è pubblicata sul Boll. Uff. della
Consulta Araldica, 1933, n. 42, pag. 36-37. Colla costituzione 15-3-1671
di Papa Clemente X fu permesso ai nobili dello stato pontificio di esercitare
il commercio senza pregiudizio della nobiltà. Il regolamento della
nobiltà per le province toscane del 31 luglio 1750 decise che il
commercio all’ingrosso, le grandi industrie della seta, della lana
e della banca, la medicina, avvocatura, magistratura e le arti belle,
scultura, pittura, architettura, non toglievano la nobiltà, ma
che degradavano l’esercente e la discendenza sua il vendere al minuto,
la chirurgia, la farmacia, il notariato e le professioni meccaniche. A
Bologna in base al breve di Pio VII del 26 settembre 1820 qualunque esercizio
di arti liberali e di commercio, purché gli esercenti non vendessero
in nome proprio, non faceva perdere né acquistare la nobiltà.
Erano esclusi dalla nobiltà coloro che personalmente e i loro padri
avessero, almeno 30 anni addietro, esercitato un’arte meccanica.
Nel Ducato di Milano per parere della Consulta al Senato del 1662 la condotta
delle imposte camerali non pregiudicava la nobiltà; la prammatica
13 dicembre 1682 di Carlo II di Spagna stabiliva non essere contrario
a nobiltà tenere fabbriche di seta, panni, tela, ecc.; la prammatica
28 giugno 1713 dichiarava che la mercatura nobilmente esercitata non si
opponeva alla nobiltà richiesta per l’ammissione al Collegio
dei nobili giurisperiti; il dispaccio 29 maggio 1760 di Maria Teresa dichiarava
che l’esercizio di setifici e di lanifici non derogava a nobiltà.
Il matrimonio nel diritto feudale
Il matrimonio legittimo per eccellenza era quello di paraggio, cioè
fra sposi di eguale condizione, e, per l’istituto del baliato, nei
primi anni del feudalismo, i feudatari non erano liberi di sposare chi
avessero voluto, ma chi fosse riuscito gradito al sovrano. Si disputava
dai pratici se la donna non nobile che si maritasse ad un nobile diventasse
nobile e viceversa. Secondo Bartolo, Fulgosio, Cuiacio, Tiraquello venne
ritenuto che le donne non nobili, maritate ad un nobile, diventavano nobili
e partecipavano alla dignità del marito. Inoltre dal sec. XIII
si usò di dare alla donna il titolo ed il nome del marito, conservando
altresì il titolo durante lo stato vedovile, salvo a smetterlo
in caso di passaggio a seconde nozze, o a perderlo se le donne avessero
condotto durante la vedovanza vita non corretta.
Nel caso contrario, di una donna nobile che avesse sposato un uomo ignobile,
questo non acquistava la nobiltà della moglie, e la donna la perdeva.
Era fatta eccezione per la Regina o la titolare di un feudo di alta dignità,
poiché esse, se avessero sposato un uomo ignobile, non solo non
perdevano la nobiltà, ma facevano di lui un uomo nobile, specialmente
se quella alta nobiltà fosse stata data in dote.
Nel diritto vigente in Italia prima dell’unificazione legislativa
non si avevano disposizioni uniformi. Nel ducato di Lucca, ad esempio,
nel 1826, il matrimonio con i non nobili non faceva perdere, né
all’uomo, né alla donna, la nobiltà che rimaneva personalmente;
per il regolamento della nobiltà per le province toscane del 31
luglio 1750, qualunque donna patrizia o nobile, che si fosse maritata
con un uomo ignobile, non era scancellata dalla Sua classe, benché,
costante il matrimonio, si dovesse estimare della condizione del marito;
nel ducato di Aosta in base alle consuetudini del 1588 il matrimonio di
un uomo di media condizione con donne nobili non nobilitavano il marito,
e la donna nobile non perdeva la nobiltà; in Piemonte con le R.
Patenti 16-7-1782 furono comminate speciali pene contro i nobili che avessero
contratto matrimoni sconvenienti; in Lombardia per l’editto 20 novembre
1769 le mogli e le sorelle dei nobili, collocandosi in matrimonio, seguivano
la condizione dei mariti; per Bologna in base al breve del 26 settembre
1820 di Pio VII8
, il matrimonio era mezzo all’acquisto della nobiltà del
coniuge per la moglie non nobile solo per speciale concessione sovrana;
e per il marito non nobile di una moglie nobile purché egli avesse
giustificato di avere la di lui famiglia una rendita stabilita; perdeva
la nobiltà chi avesse preso una moglie che avesse portato pubblica
nota di infamia all’onor suo o per altra guisa fosse ignominiosa
ed abbietta; a Venezia con decisione 26 maggio 1422 venne stabilito dal
Maggior Consiglio che di esso non potessero far parte i nati da schiava,
serva, o donna di vile condizione, e con decisione 9 marzo 1533 venne
proibita la approvazione e la discussione della nobiltà dei figli
nati da matrimonio di un patrizio con una fantesca, villana o donna abbietta.
Nel Napoletano con Regale dispaccio 20 dicembre 1800, il matrimonio con
non nobili importava la cancellazione dal libro della nobiltà.
Ed essendosi venuta formando una consuetudine contro legge, per la quale
il marito ignobile portava il titolo della moglie nobile, con Reali Dispacci
del 4 marzo e 24 aprile 1828 fu ratificato questo uso, permettendosi che
il marito della titolata portasse personalmente il titolo della moglie
durante la costanza di matrimonio o la di lui vedovanza, purché
non fossero viventi i genitori di lei. In base al regolamento sulla Consulta
Araldica del 1896 doveva ritenersi che il marito non acquistasse il titolo
della moglie, e la Consulta fissò le massime che i figli non acquistano
la nobiltà pel solo fatto della nobiltà materna, e perché
il marito potesse portare, maritali nomine, cioè durante la costanza
di matrimonio o di vedovanza, i titoli nobiliari che erano in capo alla
moglie, occorreva si provvedesse di un decreto ministeriale, anche in
quei paesi ove tale assunzione si faceva per antica usanza (mass. 18).
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8 - Detto breve sul riaprimento del Libro d’Oro e
sull’ammissione al ceto nobile della città di Bologna è
pubblicato nel Boll. Uff. della Consulta Araldica, n. 41, del maggio 1931,
pag. 72-77.
La successione feudale napoletana
Altri due sistemi di successione in Italia erano il napoletano ed il siciliano,
il quale ultimo può considerarsi una sottospecie del primo, quantunque
sia da altri ritenuto che il diritto feudale siculo costituisca un sistema
a sé. Per il regno di Napoli e Sicilia, Federico II lo Svevo, al
quale il regno era pervenuto per via di donna, regolò con due costituzioni
«In aliquibus» e «Ut de successionibus», la successione.
Con la prima ammise alla successione, oltre che i figli maggiori o minori,
anche le figlie puberi. Con la seconda ammise alla successione la discendenza
maschile, e fra i maschi soltanto il maggiore di età, se il defunto
fosse vissuto secondo il diritto dei Franchi. Se fossero mancati i figli
maschi succedevano le figlie, con preferenza per quella di maggiore età.
Che, se la figlia maggiore di età fosse stata dotata coi beni paterni
o fosse maritata, essa veniva esclusa nella successione della sorella
minore nubile (in capillo), e ciò in conseguenza dell’istituto
del baliato che consentiva al re di dare in sposo alla zitella uno dei
suoi favoriti. In tal modo la successione collaterale in linea maschile
veniva abolita, e sostituita con la femminile in linea retta. Inoltre
era esclusa la successione retrograda o ascendentale.
Con la prammatica di Giovanna II, detta prammatica Filangeria, ed emanata
nel 1418 per favorire Giovanni, detto Sergianni, Caracciolo, nominato
poi gran siniscalco, che aveva sposato Caterina Filangieri, venne confermata
la successione per via femminile in mancanza di discendenti maschi, con
esclusione dello zio paterno, e venne stabilito che la sorella per essere
esclusa dalla successione fraterna doveva essere stata dotata nei feudi
ex jure francorum coi beni del fratello, e nei feudi ex jure longobardorum
bastava che fosse stata dotata coi beni del padre.
Carlo V nel 1532 ammise lo zio, fratello del padre, alla successione dell’ultimo
possessore morto senza legittimi e naturali figliuoli, nonostante le clausole
delle investiture (v. n. 70).
Successivamente i baroni del regno di Napoli ottennero dall’imperatore
Filippo II di Spagna nel 1595 con la prammatica 33 che si potesse disporre
di feudi e titoli in favore di quel maschio della loro famiglia il quale
nel tempo della disposizione sarebbe succeduto, nonostante che vi fossero
donne ugualmente successibili prossimiori. A modifica del precedente statuto
feudale venne anche consentita la facoltà di disporre dei feudi
e dei titoli sia per atti fra vivi, sia anche per atto di ultima volontà,
a favore del prossimo agnato, con esclusione delle figlie eredi del refutante
e loro discendenti. Detta prammatica per avere adoperato una formula imprecisa
«feuda quoad haereditaria», diede luogo a dispute
nella dottrina e giurisprudenza, nel senso se il nuovo principio si estendesse
ai feudi impropri detti mere haereditaria, o anche ai
feudi misti, e se la refuta e la disposizione mortis causa potessero avvenire
solo quando vi fossero le sorelle e non le figlie del feudatario. Filippo
IV con la prammatica 34 del 1655 estese la successione dei feudi fino
al 4° grado collaterale con la facoltà di vincolarli a maggiorasco
(v. n. 17).
Successivamente i baroni stessi nel 1720 si rivolsero all’imperatore
Carlo VI per ottenere la grazia che si potesse, per via di sostituzione
diretta o fedecommissaria, disporre dei feudi antichi e nuovi (erano nuovi
quelli nei quali l’acquisitore poteva imporre qualunque legge in
pregiudizio dei suoi successori, quelli che cominciavano in persona dell’acquirente
sia per munificenza del principe, sia per acquisto, sia per ogni altro
titolo) anche titolati e di gran momento, con esclusione non solo della
femmina immediata, o del maschio discendente dalla femmina, anche se questa
si fosse maritata nella famiglia (cioè ad uno quindi che aveva
lo stesso cognome, femmina che sarebbe stata immediata succeditrice),
ma anche con esclusione perpetua nelle femmine e loro discendenti, intendendosi
sempre la esclusione suddetta in benefizio del maschio agnato remoziore
alla elezione del disponente, anche in grado non successibile. In questo
caso le femmine avrebbero avuto la legittima sul prezzo o sui beni burgensatici
per la concorrente quantità della legittima, che loro spettava
sui beni feudali.
L’imperatore Carlo VI con la prammatica 38, consentì che
fosse chiamato nei feudi il maschio remoziore, purché si trovasse
in grado successibile, escludendo le femmine prossimiori.
Ma questa prammatica se tolse ogni dubbio che la refuta e la disposizione
mortis causa potessero avvenire anche per i feudi misti, non parlò
della femmina maritata in famiglia o dei discendenti delle femmine. Da
qui sono sorte varie dispute sulla validità delle refute e sulle
disposizioni mortis causa, ma fu ritenuto che dopo il 1720 si potessero
preferire il maschio alla femmina per conservare il feudo alla famiglia.
Passato il regno a Giuseppe Bonaparte, con legge 2 agosto 1806 venne abolita
la feudalità, ma fu conservata la nobiltà ereditaria e furono
mantenuti ai possessori i titoli di principe, di duca, di conte e di marchese
legittimamente concessi, con trasmissibilità in perpetuo con ordine
di primogenitura e nella linea collaterale fino al 4° grado. Succeduto
nella corona di Napoli nel 1808 Re Gioacchino Murat, questi con decreto
10 gennaio 1812 stabilì che i nuovi titoli da lui conferiti erano
personali pei titolari autorizzati a portarli, e potevano divenire ereditari
mediante la costituzione di maggioraschi, ai quali sarebbero stati annessi,
ed in questo caso la successione nei titoli sarebbe avvenuta da maschio
in maschio per ordine di primogenitura in favore degli eredi di coloro
che avevano fondato il maggiorasco, o in favore di quelli pei quali il
Sovrano fondava maggioraschi di motu proprio. Il titolo di cavaliere non
poteva trasmettersi ai propri discendenti senza conferma sovrana. Ritornati
sul trono i Borboni nel 1815, Francesco I, allo scopo di porre un freno
agli abusi formatisi, con R. rescritto 24 settembre 1827 stabilì
che, cumulandosi nel capo di qualche famiglia diversi titoli, questi non
potessero arbitrariamente intestarsi agli individui della famiglia stessa,
né in qualunque modo distrarsi, anche a favore dei collaterali,
senza espressa sovrana autorizzazione, e con eccezione dei casi in cui,
per consuetudine, il capo di qualche famiglia permettesse che, durante
la sua vita, uno dei suoi titoli fosse portato dal figlio primogenito,
o da chi ne tenesse luogo.
Ferdinando II ordinò con vari R. rescritti: 6 marzo 1841 doversi
esigere il consenso di tutti i successori per il passaggio di titoli agli
ultrogeniti; 8 giugno 1842 che nelle refute dei titoli, fra i compresi
nella investitura occorresse l’assenso di tutti gli agnati prossimiori
nella vocazione; 5 agosto 1843 che le refute a titoli fatte a nome di
minorenni fossero inaccettabili; 2 dicembre 1843 che nelle ricognizioni
di titoli nuovi la formula per sé e i suoi successori s’intendesse
comprendere la sola famiglia del concessionario e ne escludesse i collaterali,
massime quando discendevano da femmine; 28 giugno 1845 che un titolo conceduto
in considerazione della nobiltà della famiglia, di servigi, e per
avere il concessionario popolata la terra cui il titolo era annesso, fosse
trasmissibile ai successori del concessionario nel modo di legge, ancorché
non fosse detto nel diploma; 29 luglio 1853 che nella successione dei
titoli materni, in difetto di prole maschile, succedeva colei che godeva
la prerogativa dell’età, quantunque fosse congiunta pel solo
lato materno, e che, dopo l’abolizione della feudalità e
dei fedecommessi, i titoli spettavano sempre ai discendenti legittimi
e naturali di coloro che, a quell’epoca, li godevano; 11 ottobre
1855 che gli affini non potevano succedere nei titoli.
La successione feudale siciliana
Nel sistema siciliano le concessioni feudali, quando mancava l’espressa
menzione che fossero state fatte secondo il diritto longobardo, dovevano
ritenersi fatte secondo il diritto dei franchi, e per questo succedevano
dapprima i soli discendenti maschi, e dopo la costituzione «In aliquibus
» del 1221 di Federico II lo Svevo, anche le femmine.
Con l’altra costituzione «Ut de successionibus » del
1221 di Federico II venne introdotta in Sicilia la successione dei collaterali,
ma fino ai fratelli e ai figli di costoro (3° grado), con esclusione
dello zio paterno e dei parenti nella linea retta e collaterale retrograda.
Passata la Sicilia agli Aragonesi, dopo espulsi gli Angioini, Re Giacomo,
incoronato re di Sicilia nel 1286, col capitolo Si aliquem dispose che,
in mancanza di erede legittimo per linea discendentale, nei feudi e suffeudi
succedesse tanto il fratello del defunto, quando i di lui figliuoli fino
al trinepote, serbata la prerogativa del sesso e dell’età,
e suo fratello Re Federico col capitolo Volentes del 1296 ammise a succedere
i collaterali tanto nei feudi nuovi quanto nei vecchi.
Con le prammatiche di Ferdinando I di Borbone 3 ottobre 1786 e 14 novembre
1788 venne dichiarato che il capitolo Si aliquem estende la successione
al 6° grado, e che erano da considerare come legittimi successori,
nella linea collaterale, solo quelle persone che erano come tali indicate
dal capitolo Si aliquem.
Come eccezione al principio di diritto normanno e svevo dell’inalienabilità
dei feudi pazionati, principio successivamente attenuato, ma non distrutto,
dal detto capitolo Volentes di Federico d’Aragona, era massima generale
ed assoluta per antica consuetudine che il primo quesitore del feudo,
sotto qualunque forma l’avesse ricevuto, e quindi anche ex pacto et providentia, aveva, senza essere legato alla forma stessa, una illimitata
facoltà di disporre e poteva quindi istituire un fedecommesso agnatizio
mascolino.
Con il capitolo Volentes anzidetto, venne ammessa la facoltà, senza
bisogno del preventivo assenso regio, di permutare, pignorare, donare
e disporre per testamento del feudo, anche col titolo, quando la trasmissione
fra vivi o per causa di morte avesse luogo in favore di determinata persona,
più degna o della stessa dignità dell’alienante, con
esclusione però in favore delle chiese o persone ecclesiastiche,
e col diritto, in certi casi, di prelazione per la regia corte.
Per detto capitolo la trasmissione poteva essere regolata dal primo investito,
restringendo e non allargando l’ordine di successione. Questo capitolo
fu interpretato dalla citata prammatica 14 novembre 1788, la quale lo
intese nel senso che il feudatario, trovandosi disperato di prole e privo
di legittimi successori in grado, non potesse neanche per atto fra vivi
alienare il feudo; inoltre vietò l’abuso invalso di porre
in vendita i titoli, perché se ne faceva dipendere l’acquisto
dal denaro e dalle ricchezze, anziché dalle nobili e virtuose azioni.
Era sorta questione fra i feudisti sulla specificazione del grado cui
corrispondeva il trinepote, sostenendosi da alcuni che esso costituisse
il grado 6° e da altri il 7°; ma è ormai da tutti ammesso,
in base anche al capitolo 258 del 1555 di Carlo V ed alla interpretazione
di Ferdinando I, che trattavasi del grado 6°.
Ciò era anche conforme al capitolo di Papa Onorio IV, che, per
il regno di Napoli, feudatario della Chiesa, aveva esteso la successione
della linea collaterale fino al grado 6°.
Sorse discordia e si sostenne che, avendo il capitolo Volentes consentita
non solo la vendita del feudo, ma anche la successione testata a favore
di persona non parente, i feudatari fossero rimasti liberi di disporre
del feudo a loro piacimento, e che, tanto la costituzione di Re Giacomo
del 1221 « Si aliquem » e tanto la prammatica del 1788 di
Re Ferdinando I, regolassero solo la successione legittima e non quella
testata; ma è stato inteso e deciso dalla autorità giudiziaria
nel senso che i feudatari potevano disporre del feudo a favore dei loro
successibili compresi nei gradi stabiliti dalla legge, ma non potevano
eccedere tali gradi e chiamare alla successione parenti più lontani
od estranei, appunto perché avrebbero leso il diritto della corona.
Da re Alfonso d’Aragona col capitolo 454 venne accordata la remissione
delle caducità incorse dai feudatari, per inadempimento di obblighi,
purché i titoli feudali fossero rimasti nella forma antica, e,
qualora non apparisse questa forma, s’intendessero conceduti colla
clausola del diritto dei franchi, e col capitolo 456 venne confermato
ai feudatari il possesso dei loro feudi secondo il diritto proprio di
ciascuno, eccettuati coloro che avessero perduto i loro titoli, ai quali
fu imposta la trasmissione secondo il diritto dei Franchi.
L’imperatore Carlo V, col capitolo 146 ordinò a quei feudatari
che non avessero forma certa dei loro feudi di possederli colle clausole
del diritto dei Franchi, col capitolo 118 dichiarò che il figlio
del primogenito premorto doveva essere preferito al secondogenito vivente,
col capitolo 204 prescrisse che la figlia femmina del maschio premorto
dovesse essere preferita alla zia sopravvivente, non però allo
zio pure sopravvivente, col capitolo 258 del 1555, per eliminare ogni
falsa interpretazione del capitolo Si aliquem di Re Giacomo circa la successione
dei fratelli uterini, nel quale si trovano le parole «et fratri communibus vel non communibus », stabilì che i fratelli uterini
non fossero ammessi alla successione se non in mancanza di discendenti
della linea del primo acquisitore, ad esclusione del fisco.
Re Filippo II col capitolo 18 stabilì che il figlio del secondogenito
premorto dovesse essere preferito al terzogenito vivente, e la figlia
del secondogenito alla terzogenita, non però al terzogenito. Con
lo statuto costituzionale di Sicilia del 25 marzo 1812, venne disposto
che non vi sarebbero stati più feudi, conservandosi però
i titoli e gli onori annessi ai feudi nelle rispettive famiglie con l’ordine
di successione che allora si godeva. E con la legge 10 agosto 1812 venne
abolita la feudalità, conservando ognun0 i titoli e gli onori che
fino allora erano annessi ai feudi, e dei quali aveva goduto, trasferibili
questi ai suoi successori.
Dopo la restaurazione di Ferdinando I di Borbone nel regno di Napoli,
con la legge 11 dicembre 1816 di unione dei due regni, all’art.
9 venne dichiarata conservata l’abolizione della feudalità
anche in Sicilia. Con dispaccio sovrano 17 settembre 1917 fu dichiarato
che la feudalità in Sicilia non fosse cessata prima del 2 giugno
1813. La legge abolitiva dei fedecommessi 2 agosto 1818 si mantenne estranea
ai titoli di nobiltà, e quindi il fedecommesso, non più
applicabile alla trasmissione di proprietà dei feudi, rimase in
pieno vigore per regolare la successione nei titoli9
. Col dispaccio reale 22 settembre 1852 fu vietato il passaggio dei titoli
siciliani ai collaterali, ma questo rescritto va posto in relazione alle
disposizioni del capitolo Si aliquem di Re Giacomo.
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9 - Nei feudi vincolati a fedecommesso, esistendo un successore
legittimo dell’ultimo investito e non potendosi perciò far
luogo alla riversione al fisco, la successione si apriva a favore del
chiamato dal fedecommesso, nonostante che egli si trovasse fuori del grado
di legge in rapporto all’ultimo possessore. Anche dopo l’abolizione
della feudalità conservarono vigore in Sicilia agli effetti della
semplice trasmissione dei titoli di nobiltà le regole della successione
fedecommissaria. C. App. Catania, 5-12-1932, Paternò-Impellizzeri,
Rass. Giud., 1933, 1, 38.
Il fedecommesso
Un istituto di diritto romano, che trovò nella decadenza del feudo
il suo svilluppo, è il fedecommesso. Con esso il testatore imponeva
ad una persona di sua fiducia l’obbligo di trasmettere la eredità
alla sua morte, o dopo un tempo determinato, secondo l’ordine di
successione legittima, fissato da Giustiniano non oltre la 4a generazione.
L’istituto mirò a conservare il patrimonio domestico, e a
trasmetterlo integro nel fedecommesso di famiglia, dato che colui che
otteneva il fedecommesso non poteva diminuire, né alienare il patrimonio,
di cui aveva soltanto l’usufrutto, né confonderlo coi propri
beni.
Sotto l’influenza delle istituzioni feudali si manifestarono due
tendenze allo sviluppo del fedecommesso: da un lato il sistema della inalienabilità
del patrimonio derivante dal feudo longobardo, dall’altro la tendenza
alla indivisibilità del patrimonio col cercare di ridurre i diritti
dei successori delle donne e di accentrare il patrimonio nelle mani di
un solo, tendenza derivante dal feudo franco. Di tal che dal secolo XIV
il fedecommesso servì ad assicurare il decoro e la potenza del
casato, mediante l’inalienabilità del patrimonio e la conservazione
e la trasmissione dei beni attraverso la linea agnatizia maschile. Il
massimo sviluppo dell’istituto fu raggiunto in Italia nei secoli
XVI e XVII, diventando il mezzo normale di trasmissione del patrimonio
domestico, divenuto indivisibile e inalienabile mediante la volontà
del disponente. La trasmissione era fissata preventivamente sia per contratto
che per atto di ultima volontà, senza limiti di generazione, a
favore generalmente della parentela maschile; ma poteva anche stabilirsi
la chiamata dei collaterali, delle donne e dei loro discendenti, qualora
fossero mancati gli agnati. Colui che otteneva il fedecommesso derivava
il suo diritto, come nel feudo, non dall’ultimo possessore morto,
ma dalla volontà del fondatore, senza che avesse rilievo il fatto
che egli fosse discendente o collaterale dell’ultimo possessore,
poiché sia l’uno che l’altro erano successori ex pacto et providentia maiorum.
Sotto l’influenza spagnuola, il fedecommesso si diffuse in Italia
ai beni più svariati, passando dagli immobili compresi i feudi,
alle industrie, ai prodotti del commercio, alle rendite, ai beni mobili,
e consentendosi puro o condizionale, con trasmissione semplicemente familiare
se i beni dovevano restare nella famiglia designata, o con trasmissione
familiare lineare, se i beni, in caso di mancanza di una linea, dovevano
passare in altra. La trasmissione fedecommissaria poteva aver luogo in
5 forme: per maggiorasco, per seniorato, per primogenitura, per juniorato,
per ultimogenitura. Nel maggiorasco, i beni passavano al più prossimo
parente dell’ultimo possessore; il maggiorasco poteva essere regolare
o irregolare: nel regolare era chiamato il più prossimo parente
secondo l’ordine di successione legittima; nell’irregolare
era chiamato il primogenito, anche se non era il più prossimo parente
dell’ultimo possessore. Se più persone erano dello stesso
grado si preferiva il più anziano. Nel seniorato succedeva sempre
il più vecchio fra i discendenti del primo istituito, senza riguardo
alla linea ed al grado di parentela coll’ultimo possessore. Nella
primogenitura, che era la forma ordinaria di successione del fedecommesso,
succedevano i primogeniti successivamente generati nella famiglia, e senza
riguardo alla strettezza di grado della parentela. In mancanza di primogenitura
succedeva il più prossimo parente dell’ultimo possessore,
o la sua discendenza. Il juniorato era l’opposto del seniorato,
e succedeva il più giovane della famiglia. Nell’ultimogenitura
succedeva la linea più giovane e l’ultimo nato di essa.
Il fedecommesso durava finché esisteva la famiglia, a meno che
non fosse stato stabilito diversamente nell’atto di fondazione,
come avveniva nello stato pontificio con l’istituto della surrogazione
(v. n. 91). A causa dei vincoli che col fedecommesso si ponevano alla
libera circolazione dei beni, gli stati cercarono di limitarne la fondazione.
Solo l’ordinamento nobiliare napoleonico e muratiano favorirono
lo sviluppo del maggiorasco.
La nobiltà dall’epoca
dei Comuni alla abolizione del feudalesimo (nobiltà per diplomi,
per cariche, derivante dagli ordini cavallereschi esistenti in Italia
[di S. Maurizio e Lazzaro di Piemonte, di Leopoldo di Austria, di S. Ludovico
di Parma, di S. Giuseppe di Toscana, Pontifici: della Milizia Aurata,
Piano], di distinta civiltà). (In nota: gli Ordini Pontifici della
Milizia Aurata o dello Speron d’Oro, di S. Silvestro, Piano, di
San Gregorio Magno, del S. Sepolcro di Gerusalemme).
Nell’epoca dei comuni la nobiltà maggiore feudale fu sopraffatta
dai popolani e dai borghesi e cacciata dalle città, ove fu costretta
a ritornare, come ostaggio, dalle milizie comunali. Essa non rappresentò
nell’Italia settentrionale e centrale un ceto potente, a causa del
suo impoverimento, sia perché i feudi, regolati jure longobardorum,
venivano frazionandosi, sia per esser costretta, per trovar partigiani
nelle lotte politiche, a distribuire le terre a titolo di enfiteusi, i
cui censi vennero a ridursi di valore per effetto dello svilimento della
moneta.
Nei comuni la piccola nobiltà partecipò alla loro formazione,
per la pratica nei maneggi politici e nelle armi, acquistando autorità
e conservando qualche distinzione.
In generale però i nobili, nelle lotte di classe dei ceti mercantili
e artigianeschi contro di essi, con gli ordinamenti di giustizia (di Firenze,
di Bologna, di Modena, di Pisa, di Parma) detti sacratissimi, perché
mai abrogabili, furono privati dei loro privilegi, del diritto di portar
armi, esclusi dagli uffici pubblici, sottoposti a confische.
Mentre in tal modo declinava la grande e piccola nobiltà gentilizia,
nelle città veniva sorgendo una nobiltà nuova, costituita
da quelle famiglie che si erano arricchite coi commerci e che avevano
acquistato beni feudali con giurisdizione, o che avevano ottenuto il privilegio
delle armi dall’Imperatore, dal Papa o dal comune.
L’uso di concedere la nobiltà per diplomi si dice introdotto
nel 1271 da Filippo l’Ardito di Francia, ma se ne hanno esempi fin
dai tempi di Federico II e di Carlo d’Angiò. Più tardi,
di questo uso si avvalsero non solo i Papi, gli Imperatori, i Re indipendenti,
ma i principi soggetti all’impero come Amedeo VIII, i conti palatini,
la repubblica di Venezia e perfino città minori. Questo uso però
svalutava la nobiltà perché i diplomi e i titoli erano frequentemente
concessi per denaro, anziché per premiare la virtù e il
merito10
.
Nell’Italia settentrionale e centrale, succedute ai comuni le signorie,
queste abbassarono la nobiltà vecchia e nuova e la spogliarono
dei privilegi, riducendola al loro seguito, e le repubbliche di Venezia
e di Genova trasformarono i loro reggimenti in governo aristocratico.
La nobiltà nelle città rette a repubblica assunse il nome
di patriziato. Dopo il primo trentennio del quattrocento, delle altre
città, pur conservandosi gli statuti e i consigli propri, alcune
eleggevano le magistrature sotto la presidenza del capo che vi mandava
il sovrano, altre eleggevano esse stesse il proprio capo. I consiglieri
non erano presi da tutta la cittadinanza, ma dalle classi più elevate,
con esclusione degli esercenti arti meccaniche o piccolo commercio e delle
condizioni ancor più basse, ed in qualche luogo erano prescelti
fra determinate famiglie, le quali formavano un corpo chiuso, che talvolta
erano nobili e popolane, ma comunemente soltanto nobili, sia perché
da esse originariamente veniva tratto il consiglio, sia perché
si considerava fondamento e causa della nobiltà l’appartenenza
al consiglio. Il consiglio prendeva allora il nome di Consiglio dei nobili,
e quelle famiglie non nobili che vi venivano iscritte, in mancanza delle
antiche o per concessione fatta al popolo, conseguivano la nobiltà.
Nel mezzogiorno nelle città regie, cioè non feudali, le
famiglie erano divise in ceti o ordini, e la classe più cospicua
costituiva il patriziato o la nobiltà civica o decurionale, la
quale amministrava il comune o università col concorso, a volte,
del rappresentante del ceto borghese.
Dai documenti esistenti risulta l’uso del titolo di patrizio in
Napoli fin dal 1420. Le città si distinguevano in città
di piazza chiusa e città di semplice ma vera separazione11
.
Come i principî germanici, dice il Pertile, avevano fatto attribuire
la nobiltà all’uso delle armi, così il risorgere del
diritto romano fece valutare i meriti dell’ingegno ed altri servizi,
e unì la idea della nobiltà con certe cariche, oltre che
militari, anche civili, che il diritto romano aveva chiamato milizia,
e con la laurea dottorale nelle leggi, prendendo alla lettera i passi
delle costituzioni imperiali che eguagliavano gli avvocati ai combattenti.
Da qui la nobiltà venne poi estesa agli altri dottori in medicina,
ma con limitazione. Si parlava così di cavalieri o conti delle
leggi, o cavalieri di toga. In Piemonte fin dal 1584 erano considerati
nobili alcuni ufficiali stipendiati e i giudici maggiori della Savoia;
la riforma della repubblica genovese del 1576 mette insieme nella nobiltà
e nei privilegi i doctores legum, artium et medicinae; Papa Gregorio
XIII creò milites et equites auratos tutti i dottori del
collegio dei medici e dei filosofi di Bologna.
Intanto lo sviluppo dei traffici aveva fatto sorgere il concetto che l’esercizio
del commercio di mare, quello dell’arte del cambio, della lana e
della seta all’ingrosso non costituiva ostacolo all’acquisto
della nobiltà. Durante il dominio spagnuolo in Italia si verificò
una mania per i titoli, e le città furono popolate di nobili sia
per effetto di concessioni di titoli, sia mediante la vendita di carte
di nobiltà. Dopo il secolo XVI può dirsi che la vendita
dei titoli sia divenuto un mezzo ordinario di entrate pubbliche; dato
che in generale ogni concessione di nobiltà importava nell’insignito
il pagamento di tasse e di entrate straordinarie per far fronte ai bisogni
delle guerre, come avvenne a Venezia e nel Piemonte, nel cui ultimo stato
in 70 anni circa furono vendute 819 patenti di nobiltà per 11 milioni
di lire, che costituirono la nobiltà del 1722 svalutata in confronto
della antica. Nel 1700 si riconobbe anche una nuova classe di nobili di
secondo grado o di civiltà, appartenente alle famiglie ammesse
ai minori uffici, o a quelli che potevano provare di aver vissuto per
tre generazioni comodamente senza esercitare impieghi bassi e popolari.
Con Napoleone agli insigniti di certe cariche vennero accordati titoli
di duca, conte e barone (v. n. 19 D).
Allargatosi d’altro lato sempre più il concetto della nobiltà,
essa fu estesa agli ordini cavallereschi che venivano istituendosi12
. Così, prima dello Statuto, in Piemonte l’ordine (una volta
Religiosa Milizia, Ordine Religioso e Militare) dei Santi Maurizio e Lazzaro,
conferito in via di grazia, attribuiva la nobiltà personale13
; l’ordine imperiale austriaco di Leopoldo, fondato da Francesco
I nel 1808, conferiva ai commendatori e ai cavalieri il grado ereditario
di barone o di cavaliere dell’impero, però con separato provvedimento
ed a loro richiesta; la Milizia Aurata, detta volgarmente ordine pontificio
dello Speron d’Oro o di S. Silvestro, conferiva14
fra gli altri privilegi concessi da Papa Paolo III, la qualità
personale di conte palatino lateranense e la nobiltà ereditaria
per i discendenti; l’ordine Piano, così chiamato dal suo
fondatore Pio IV nel 1559 e rinnovato da Pio IX nel 1847, attribuiva ai
cavalieri di 1a classe la nobiltà trasmissibile ai loro figli,
e a quelli della 2a classe la nobiltà personale15
.
Vari altri ordini cavallereschi degli ex stati italiani (v. n. 115), oramai
estinti, conferivano la nobiltà. Così l’ordine del
merito di S. Ludovico di Parma, ricostituito nel 1849, conferiva ai decorati
della gran croce o della commenda, che prima non l’avessero, la
nobiltà, mediante la concessione, su richiesta, di speciale diploma;
l’ordine di S. Giuseppe di Toscana, istituito nel 1807, conferiva
col grado di cavaliere la nobiltà personale, e con quello di commendatore
la nobiltà ereditaria16
.
Nel medio evo e fino alle leggi abolitive dei fedecommessi, le famiglie
nobili per conservare più integri i loro privilegi e per difendersi
dalle violenze e dagli arbitri popolari si strinsero in consorzi o consorterie
di casati, detti Alberghi17
a Genova, Ospizi in Piemonte, e si organizzarono in Sedili o Seggi a Napoli18
e in Tocchi in Sicilia.
Le famiglie nobili usarono anche di starsene unite sotto un capo comune,
che dapprima fu probabilmente il più vecchio, o colui che succedeva
nella dignità, più tardi venne scelto per elezione a tempo,
e finalmente si smise l’elezione del capo.
La nobiltà generosa e magnatizia, cioè quella feudale e
dei nobili delle città regie o derivante dalla concessione di titoli
fatta dal sovrano agli arricchiti, e quella acquistata per alte cariche
ricoperte a corte o in curia o nella milizia formavano un ordine o corpo,
con distintivi, regolamenti e privilegi, come l’esenzione da molti
pubblici tributi, il foro particolare, il giudizio dei pari, l’avere
riservati quasi tutti gli impieghi nello stato, i gradi di ufficiale nella
milizia, il potere erigere fedecommessi e acquistar feudi, lo star seduti
avanti i magistrati, e perfino alla presenza del principe, il non potere
essere incarcerati per debiti civili, l’avere assegnate stanze separate
nel caso di incarcerazione per delitto, la eclusione da pene infamanti,
la tenuta di posti a parte in chiesa, a teatro, la istituzione di appositi
collegi in cui educare i loro figli19
.
Ogni ordine, ogni città aveva i suoi libri d’oro in cui si
scriveva il nome delle famiglie nobili, e di quelle che venivano aggregate,
e per mantenere pura la nobilta si istituirono speciali tribunali araldici.
La legislazione nobiliare è così varia e vasta nei diversi
stati d’Italia, da renderne necessaria l’esposizione almeno
sommaria, come qui di seguito vien fatto. Essa però si presenta
talvolta frammentaria per la dispersione delle fonti, tanto che ne riesce
difficile l’organico svolgimento20
.
Oltre che delle leggi, delle prammatiche, degli statuti, delle patenti,
degli editti, dei rescritti e dispacci sovrani, bisogna tener conto dei
pareri dei corpi consultivi del tempo, che, se approvati dal capo dello
stato, allora assoluto, hanno la stessa forza di legge.
La Consulta Araldica su questa complessa materia è venuta formulando
una raccolta di massime che costituisce il suo massimario21
.
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10 - PERTILE, Storia del diritto italiano, TORINO 1894,
2a ediz., III vol., pag. 147 e seg.
11 - La differenza fra le città di piazza
chiusa e quelle di semplice ma vera separazione nel napoletano è
così indicata dalla massima 85 della Consulta Araldica: «All’effetto
dell’attribuzione dei titoli di patrizio e di nobile, sono, nella
regione napolitana, considerate di Piazza Chiusa, le città nelle
quali, per titolo implicito di antichissima consuetudine, o per titolo
esplicito di sovrana concessione, la nobiltà composta
di determinate famiglie, costituenti un corpo o collegio affatto separato
dalla rimanente parte della cittadinanza e dallo stesso governo municipale,
e con diritto di discretiva in alcuni offici del governo medesimo, godeva
eziandio delle prerogative di procedere liberamente e privatamente alle
novelle aggregazioni, senza che altri, in suo dissenso, avesse potuto
ciò ottenere per giustizia; di vedere roborato da regio assenso
le novelle aggregazioni e le reintegrazioni; di potersi radunare senza
intervento di regio ministro. E sono considerate di semplice, ma vera
separazione, le città che, avendo tutti gli altri innanzi indicati
requisiti, mancavano di alcune delle tre ultime prerogative». Per
la legge sulla istituzione nel napoletano del Tribunale della Nobiltà
del 1800 (v. n. 21 M) il patriziato spettava solo a coloro che appartenevano
a città di piazza chiusa.
12 - Il SANSOVINO nell’opera: Della origine
de’ Cavalieri, Venezia 1583, pag. 15 e seg., distingue 3 ordini
di cavalieri: di collana (della Giarrettiera di Inghilterra, dell’Annunziata
di Savoia, del Toson d’Oro di Borgogna, di S. Michele di Francia);
di croce derivanti dalle Crociate (Cavalieri gerosolimitani di S. Giovanni
e del S. Sepolcro di Gerusalemme); di sprone (creati in ogni tempo e da
ogni principe). Questa tripartizione è ancora oggi accettata dagli
storici del diritto. Vedi bibliografia citata dal GORINO, Titoli nobiliari
ed Ordini Equestri pontifici, Torino, Bocca, 1933, pag. 18 nota 36. É
da ricordare che gli ordini di cavalleria posteriori alla Rivoluzione
Francese, creati sul modello della francese Legion d’Onore, conferiscono
il semplice titolo, indipendentemente da qualsiasi qualità nobiliare
del decorato e da ogni privilegio ereditario. Per gli ordini equestri
pontifici vedi appresso.
13 - C0n lo Statuto Albertino questo privilegio
rimase abrogato, e l’ordine divenne una semplice decorazione cavalleresca.
Vedi pareri approvati 28 novembre 1832, 24 aprile 1834, 28 gennaio 1840
dal Procuratore Generale di S. M. presso la Camera dei Conti di Torino.
Per entrare invece nell’ordine come cavaliere di giustizia era necessario
provare quattro gradi di nobiltà.
14 - GORINO, op. cit., pag. 22. - L’ordine
della Milizia Aurata, la cui istituzione era stata anche attribuita a
S. Silvestro Papa, venne restaurato e riformato nel 1841 da Gregorio XVI
sotto il titolo di S. Silvestro. Comprendeva due classi: di commendatore
e di cavaliere. Gregorio XVI e Pio X revocarono ogni privilegio nobiliare
annesso all’ordine per rialzarne il prestigio, scosso dallo stragrande
numero di diplomi concessi dai delegati del Papa, senza alcun controllo,
dato che la collazione dell’ordine era delegata ad alcuni alti dignitari
della corte papale e ad alcune famiglie principesche romane, fra le altre
alla Sforza Cesarini. Pio X nel 1905 separò l’ordine della
Milizia Aurata da quello di S. Silvestro. Quello dello Speron d’oro
(ex Milizia Aurata) ha attualmente una sola classe di cavalieri; quello
di S. Silvestro consta di 3 classi: 1a cavaliere di gran croce; 2a commendatore
con placca e commendatore; 3a cavaliere. Vedi CUOMO, Ordini cavallereschi
antichi e moderni, Napoli 1894, pag. 746; PIETRAMELLARA, Elenco degli
ordini equestri, loro origine e storia, Roma 1901, pag. 54. Un tempo anche
il pontificio ordine equestre del S. Sepolcro di Gerusalemme conferiva
privilegi di nobiltà identici a quelli della Milizia Aurata. Attualmente
si discute se il titolo di conte palatino che vi era annesso, si debba
ritenere decaduto per effetto della generica abolizione del titolo stesso
fatta da Pio VII, nonostante che una revoca nominativa per l’Ordine
del S. Sepolcro non esista. Sull’antichissimo ordine del S. Sepolcro
si disputa sulla data di istituzione e sul nome del fondatore. Anticamente
era condizione per la ammissione all’unica classe di cavalieri dell’ordine
l’appartenere a nobiltà di razza. Per delegazione pontificia,
rettore e amministratore perpetuo dell’ordine è il Patriarca
Latino di Gerusalemme, che rilascia agli ascritti i diplomi, i quali dal
1931 devono essere vistati e muniti del sigillo della Cancelleria dei
brevi presso la S. Sede, ai fini del loro riconoscimento ufficiale. L’ordine
attualmente comprende 3 classi: cavaliere di gran croce, commendatore,
cavaliere. Ad esso possono essere ascritte anche le Dame. Vedi CUOMO,
op. cit., pag. 735. Secondo il PASINI FRASSONI (Considerazioni sui titoli
nobiliari e sugli ordini equestri pontifici, in «Rivista Araldica»,
1914, pag. 354) gli ordini di S. Gregorio Magno, istituito nel 1831 da
Gregorio XVI e di S. Silvestro predetto, attribuirebbero, seguendo una
pratica ritenuta comune a tutti gli ordini pontifici, la nobiltà
generica e personale per i gran croce, GORINO, op. cit., pag. 20.
15 - Vedi CUOMO, Ordini cit., pag. 751, PIETRAMELLERA,
op. cit., pag. 52. L’ordine attualmente è diviso in 3 classi:
1a cavaliere di gran croce: 2a commendatore con placca e commendatore:
3a cavaliere. Il titolo di nobile annesso alla onorificenza di cavaliere
di gran croce dell’Ordine Piano è stato riconosciuto all’uso
nel regno per la prima volta nel 1932, con provvedimento distinto da quello
di riconoscimento del titolo equestre. Bollettino Ufficiale della C0nsulta
Araldica, n. 42, 1933, pag. 65.
16 - CUOMO, Ordini Cavallereschi cit., pag. 905,
908. Per detti ordini la Consulta Araldica ha adottato le massime 35 e
50.
17 - PANDIANI, Albergo di Nobili, in «Enciclopedia
Italiana Treccani », vol. II, 1929.
18 - Il nome di sedili derivava dal luogo ove i
nobili si riunivano. Essi in origine erano 29, e per la estinzione delle
famiglie si ridussero a 5, pur conservandosi i rappresentanti dei primitivi
seggi, chiamati capitani della nobiltà. I capi dei seggi rimasti
si chiamavano eletti, ed avevano, insieme coll’«eletto del
popolo », il governo municipale della città.
19 -PERTILE, op. cit., vol. III, pag. 152.
20 -Una raccolta di legislazione nobiliare con testi
integrali o riassunti è contenuta nel Memoriale per la Consulta
Araldica pubblicato nel 1888, e ristampato in Roma dalla Libreria dello
Stato nel 1924.
21 - Un Massimario per servire alla Consulta Araldica
fu pubblicato in Roma, Stab. Tip. Civelli, nel 1905. Un nuovo Massimario
contenente massime di legislazione nobiliare approvate dalla Consulta
Araldica e dal Real governo e nuovamente ordinate è stato pubblicato
a Roma, Tip. delle Mantellate, nel 1915. Le massime successive sono pubblicate
nel «Bollettino ufficiale della Consulta Araldica », e riportate
dalla PIANO MARTINUZZI, op. cit.
LA LEGISLAZIONE NOBILIARE DEI VARI STATI PRECEDENTI
L’UNITÀ ITALIANA
Piemonte
Negli Statuti di Amedeo VIII del 1430 si contenevano norme sui figli legittimi
dei bastardi dei nobili e sulle insegne e le armi. La duchessa Iolanda
e Bianca, rispettivamente nel 1475 e 1491, emisero norme sopra l’alienazione
dei feudi per dotare le fanciulle e sovvenir necessità familiari.
Nel 1503 Filiberto II riformò gli Statuti sopra la natura retta
e propria dei feudi e sull’alienazione dei medesimi per cause dotali.
Carlo Emanuele I nel 1588 emise le costumanze generali del ducato di Aosta.
Per esse, nella gente nobile il figlio seguiva la condizione del padre,
bastando che fosse nobile il padre affinché i figli nati da legittimo
matrimonio fossero considerati tali e godessero dei privilegi della nobiltà.
Se il padre fosse nato da nobile lignaggio e nondimeno si fosse sposato
ad una donna plebea, i figli nati sarebbero stati considerati nobili,
ancorché la madre non lo fosse. Se il padre fosse stato plebeo
e la madre nobile, i figli sarebbero stati plebei. Erano nobili coloro
che avessero ottenuto rescritti e privilegi di nobiltà dal sovrano.
La donna plebea maritata ad un nobile godeva dei privilegi e prerogative
dei nobili, quale li godeva il marito, sia durante la di lui vita che
nello stato di vedovanza. Ma se rimaritata con un plebeo, ancorché
rimanesse vedova di lui, riprendeva la sua condizione di plebea, perché
essa conservava la condizione del tempo del suo ultimo matrimonio. Se
la donna nobile si maritava ad un uomo di medio stato, ancorché
non
fosse nobile, non perdeva il privilegio di nobiltà, ma di esso
godeva tanto in costanza di matrimonio che dopo. I suoi figli avrebbero
goduto di detto privilegio per acquistare eredità nobili lasciate
da essa, purché la natura del feudo lo avesse comportato. Quelli
che avevano lo stato di nobiltà e si mantenevano come nobili, erano
ritenuti per presunzione nobili, fino a che non si fosse verificato il
contrario. La persona nobile, che avesse fatto o esercitato atti in deroga
alla nobiltà, era sottoposta a tutte le tasse, concorsi, sussidi
e altre imposte.
Per porre un freno alla passione sorta per gli stemmi, nel 1597 e 1598
vennero emessi due editti di proibizione di valersi di armi nobili senza
privilegio imperiale o ducale, e di divieto dell’uso di armi gentilizie
a coloro che, non essendo né ecclesiastici, né nobili, non
avessero ottenuto un privilegio sovrano. Nel 1613 Carlo Emanuele I ordinò
la formazione dei registri delle armi, e diede ordine di consegna, entro
due mesi, a tutti i capi famiglia, proibì a tutti i naturali l’uso
delle armi dei loro progenitori, salvo col segno, filo o barra e purché
vi fosse stato il consenso scritto della maggior parte degli appartenenti
alla medesima famiglia, stirpe, e la conferma ducale; confermò
l’us0 per quelle armi di semplice possesso almeno settantenario.
Nel 1618 fu dato ordine perché quest’ultimo editto fosse
eseguito nel Monferrato. Nel 1627 Carlo Emanuele I prescrisse che la nobiltà
non sarebbe stata pregiudicata ai negozianti nel porto franco in Nizza,
Villafranca e Sant’Ospizio, e nel 1633 Vittorio Amedeo I, per assicurare
l’abbondanza delle derrate e la prosperità del commercio,
stabilì un ufficio di abbondanza, consentendo che alla costituzione
del fondo dell’ufficio stesso potesse concorrere la nobiltà
senza esserne degradata. Carlo Emanuele I con ordine 16 luglio 1648, considerato
che la divisione dei feudi aveva non poco scemato lo splendore nelle principali
e più nobili famiglie e provocato discordie fra i consortili, permise
ai possessori di giurisdizione e beni feudali, ancorché di natura
di feudo retto e proprio, «il poter detti feudi, in tutto o in parte
erigere in primogenitura, ed in essi e fra i chiamati alla successione
di essi, in virtù delle antecedenti investiture stabilire una o
più primogeniture con ordine di perpetua lineale successione primogeniale,
ovvero di maggiorato, o sia seniorato, e in questo modo pregiudicare temporalmente
alla simultanea vocazione degli altri agnati e discendenti, o altri che
in qualsivoglia modo fossero, dalle antecedenti investiture, chiamati
alla successione». Per favorire la nobiltà e porgerle la
comodità di fare decentemente qualche profitto, col quale sostenere
i pesi del decoro che le conveniva, sull’esempio di quanto si praticava
in altre città, M. R. Giovanna Battista con l’editto 3 aprile
1680 stabilì di non considerare come repugnante alla nobiltà
e non pregiudizievole alla sua riputazione e prerogative, il tenere fondaci
o magazzini di mercanzie, vendendole all’ingrosso, purché
ciò fosse fatto a mezzo di altri, il tenere banco aperto di cambio
o collocar il proprio e l’altrui denaro in mani di mercanti perché
trafficassero per mare o per terra, il far lavorare altri nelle arti della
seta, della lana e simili.
Vittorio Amedeo II, divenuto poi nel 1713 re di Sicilia, e poscia di Sardegna
nel 1720 per permuta della Sicilia, con due editti del 1687 diede disposizioni
sulla registrazione e concessione delle armi gentilizie e con editto 26
marzo 1700 prescrisse le regole da osservarsi sull’uso dei titoli
di marchese, di conte e di barone. Con editto 7 gennaio 1720 stabilì
la inalienabilità del demanio della corona, revocò tutte
le concessioni di feudi a titolo grazioso fatte anche dai predecessori,
nel 1722, per far fronte alle spese del regno, fece una larga vendita
di feudi, e, a complemento delle costituzioni 11 luglio 1729, nelle quali
si trattava della natura e successione nei feudi, della erezione di essi
in primogenitura, della alienazione dei feudi e dei beni feudali, con
RR. Patenti 5 ottobre 1729 stabilì che coloro che avevano acquistato
feudi dal procuratore generale di S. M. avessero, oltre la facoltà
di disporre come primi acquisitori sì per contratto che per ultima
volontà a favore di chi avessero voluto, purché fossero
persone capaci e gradite al Sovrano, quella ancora di chiamare alla successione
del feudo, dopo la linea mascolina dei loro discendenti maschi, o una
delle femmine da essi discendenti, purché nel primo maschio da
essa discendente il feudo riassumesse la natura di retto e proprio, o
un agnato trasversale, purché questo fosse nel tempo in cui si
sarebbe aperta la successione nel settimo grado di parentela civile. Con
l’editto di Carlo Emanuele III del 16 aprile 1734 sulla impropriazione
dei feudi22
veniva accordato ai primi acquisitori non solo l’impropriazione
per le femmine da essi discendenti, ma anche la facoltà ai discendenti
loro dell’uno e dell’altro sesso di poterne disporre sì
per contratto fra vivi che per ultima volontà. Ai possessori di
feudi che fossero loro pervenuti dagli antenati, se non avevano agnati
trasversali, si consentiva l’impropriazione per le femmine da essi
discendenti in mancanza di maschi, ed avendo agnati trasversali si concedeva
l’impropriazione in modo che la vocazione delle femmine avesse solamente
luogo in mancanza dei maschi sì di essi che dei loro agnati.
Si accordava a qualunque vassallo che l’ultimo chiamato alla successione
del feudo, che altrimenti sarebbe tornato alla di lui morte al regio patrimonio,
potesse disporne tanto per contratto tra vivi che per ultima volontà.
I feudi posti in vendita con l’editto dell’ottobre 1733 avrebbero
potuto alienarsi anche per femmine, e sarebbero stati disponibili per
contratto e per atto di ultima volontà.
Dal parere, in data 20 luglio 1738, di un Congresso formato dai primi
presidenti del senato di Piemonte e della camera dei conti e dell’avvocato
generale del senato di Piemonte, e diretto a Carlo Emanuele III, si rileva
che erano distinti tre generi di nobiltà:
1) per privilegio del principe: era quella che dal principe si concedeva
a chiunque gli piaceva e voleva far nobile e questa si tramandava senz’altro
alla discendenza;
2) di sangue: questa non aveva norme certe per misurarla. Per la legge
dei romani, adottata universalmente ed osservata da quegli ordini di cavalleria
i quali esigevano la nobiltà senza prefiggerne i gradi, erano considerati
nobili quelli che erano nati da padre e da avo nobili. Erano poi considerati
nobili quelli che erano nati e vivevano nobilmente, e non solamente vivendo
delle proprie rendite, senza esercitare arte meccanica o vile, ma quando
fossero altresì riputati nobili per stima e concetto pubblico,
od ammessi negli ordini, assemblee ed impieghi civili, i quali si suolevano
conferire se non a persone nobili, maggiormente se avessero contratto
per matrimonio alleanze illustri. La prova di questa nobiltà era
della natura di quelle cose che dipendendo da puro fatto ricevono dalle
circostanze maggiore o minor peso. Per comporre questa nobiltà
si richiedeva il concorso di tre generazioni vissute nobilmente;
3) per uffici di dignità coperti da persone, che si rendevano meritevoli
di essere considerate per nobili. Già Carlo Emanuele I nell’editto
del 27 marzo 1584, dichiarando quelli che, come nobili, andavano esenti
dai tributi, aveva annoverato gli ufficiali stipendiati ed esercitanti
l’ufficio col titolo di consiglieri del principe, di controllori
di guerra, i segretari del Sovrano servienti presso la sua persona. Successivamente
furono compresi i giudici maggiori della Savoia, quantunque il senato
avesse dichiarato che questa nobiltà non sarebbe discesa ai loro
figli.
Ora volendo fissare dei criteri per stabilire la nobiltà degli
uffici, il congresso propose che fosse adottata la regola seguente. Se
si trattava di persone discendenti dagli ufficiali dei tempi passati,
avrebbero potuto considerarsi pur nobili quelli che discendevano da ufficiali
che gli editti dichiararono nobili, o da altri i quali avessero posseduto
impieghi che nel tempo degli editti non erano dichiarati nobili, ma vi
erano e vi ebbero altresì annesso il titolo di consigliere del
principe, per essere questo un titolo nobile da sé; se si trattava
di ufficiali presenti conveniva distinguere le classi degli ufficiali
per adattarvi le regole convenienti.
Cominciando dalla magistratura, i supremi tribunali erano stati sempre
considerati come una specie di milizia e di sacerdozio, composti di persone
distinte o per nascita o per altri meriti, e quelli che non erano nobili
per sangue si facevano cavalieri nelle leggi, simili a quelli di spada.
Per l’ufficio ricoperto, e per il fine di poter acquistare feudi
di giurisdizione avrebbero dovuto annoverarsi fra i nobili, fra i magistrati,
i presidenti, i senatori, i referendari, quelli che godevano un impiego
simile, come i collaterali di camera, gli avvocati e procuratori generali,
gli avvocati dei poveri, i mastri auditori che godevano la sedia e le
insegne dei senatori e collaterali rispettivamente. Riguardo alle segreterie
avrebbero potuto essere compresi fra i nobili coloro che avevano il titolo
di segretario di stato e di guerra e di gabinetto e della M. S. e d’archivista
di corte; inoltre i primi ufficiali del controllore generale, delle finanze
e delle gabelle, e maggiormente il controllore generale, l’auditore
generale di guerra, l’intendente generale della casa di S. M., dell’artiglieria,
delle fabbriche e delle fortificazioni, gli intendenti generali delle
province. Degli impieghi militari avrebbero potuto comprendersi nella
nobiltà i governatori e comandanti di piazza, i maggiori, i colonnelli,
i luogotenenti, i maggiori dei reggimenti, i capitani con 10 anni di servizio.
Venivano anche proposti per la concessione della nobiltà i prefetti,
gli intendenti delle province ed i sostituti degli avvocato, procuratore
ed avvocato fiscale generale con 10 anni di servizio. Inoltre i posseditori
di un feudo nobile avrebbero dovuto esser considerati nobili, operando
in loro il feudo ciò che faceva l’ufficio nobile negli altri.
Circa la nobiltà così attribuita, se fosse solo temporanea
finché si possedesse il feudo o si esercitasse l’ufficio,
venne proposto che, rispetto al feudo acquistato, la prerogativa durasse
in colui che lo aveva acquistato finché vi fosse stato il possesso;
se il feudo fosse venduto o ritolto, più non avrebbe giovato, ma
avrebbero conservato la nobiltà avuta col feudo i di lui figliuoli,
ancorché avessero perduto il feudo, se però ciò non
fosse avvenuto per atto volontario o per delitto. Negli altri casi avrebbero
conservato la nobiltà acquistata dal padre e con la morte di lui
consumata. Per la nobiltà per ufficio, essa si sarebbe perduta
da colui che aveva abbandonato l’ufficio, e si sarebbe conservata
nel caso di collocamento a riposo onorevole impetrato. Inoltre essa, per
quegli uffici che erano nobili da sé, e nei quali il padre fosse
morto, esercitandoli finché visse o fin quando fosse stato collocato
a riposo, si sarebbe trasmessa nei posteri, purché questi la conservassero
vivendo nobilmente, ma si sarebbe perduta in caso di esercizio di arte
meccanica. Per quegli uffici, nei quali fossero richiesti dieci anni di
servizio per far nobile il soggetto, la nobiltà non sarebbe passata
ai figliuoli, ma ai figli dei figli, purché gli uni e gli altri
fossero vissuti nobilmente, considerando simili impieghi, esercitati sempre
dall’avo o lasciati per onorevole giubilazione, come un principio
di nobiltà, la quale, coltivata nelle tre generazioni ed accresciuta,
facesse nobile chi ne discendeva.
La nobiltà acquistata per lettere del principe, siccome si perdeva
per l’esercizio di qualche arte meccanica, avrebbe potuto riacquistarsi
quando si fosse ricorso al Sovrano, o si fossero da lui ottenute lettere
di riabilitazione. Gli altri generi di nobiltà, una volta perduti,
non si sarebbero più riacquistati. Per la patente sovrana del 25
febbraio 1735 furono anche dichiarati capaci di acquistar feudi i capitani
dei reggimenti e i semplici laureati.
Carlo Emanuele III con editto 5 agosto 1752 dispose sulla natura ed alienabilità
dei feudi del ducato di Savoia. Per esso, i feudi, conformemente al costume
di quella regione, erano alienabili sia per contratto che per disposizione
di ultima volontà, e trasmissibili a maschi e femmine. Facevano
eccezione quei feudi ai quali fosse stata data una natura particolare
e stretta. I feudi erano divisibili tanto in caso di successione che di
alienazione, era però riservato il diritto di riscatto alla corona.
I feudi di natura stretta non erano suscettibili di riscatto, e per la
alienazione bisognava ottenere il consenso sovrano.
Lo stesso Carlo Emanuele III con le costituzioni del 7 aprile 1770 riordinò
la materia dei feudi. Essi, salvo che nella prima investitura non fossero
stati concessi con altra forma, erano retti e propri, e, nonostante la
clausola adoperata nelle investiture dei feudi del Piemonte: « per
sé e suoi eredi e qualsivoglia successori », erano ritenuti
concessi per retti e propri. La clausola eredi e successori adoperata
nelle investiture comprendeva soltanto i figli e i discendenti, rimanendo
abolita ogni forma di feudo misto. Nei feudi concessi per maschio e femmina,
le femmine succedevano solo in mancanza di maschi, di modo che il maschio
più remoto, ancorché d’altra linea, escludeva la femmina
più prossima in grado di succedere.
La clausola in antico, avito e paterno, apposta alle concessioni dei feudi,
non comprendeva i fratelli o altri agnati, e quando gli agnati trasversali
al primo acquisitore erano espressamente chiamati, non succedevano oltre
il 7° grado. Ogni figlia nubile, o donna, che possedesse qualche giurisdizione
o diritti feudali, venendo a maritarsi con uno straniero non abitante
negli stati del regno, decadeva dal dominio e possesso di essi, e era
incapace di acquistarne altri, tanto per atto tra vivi che di ultima volontà.
La giurisdizione e i diritti feudali si devolvevano a coloro che erano
in grado di succedere, esclusi i discendenti dal matrimonio con lo straniero.
l feudi in avvenire sarebbero stati concessi per retti e propri, ritenendosi
nulla ogni altra forma, escluse le concessioni che anche, con qualche
impropriazione della loro natura, sarebbero fatte in virtù di pubblici
editti per urgente necessità o per evidente utilità della
corona. Ogni feudo di giurisdizione, tanto retto e proprio, per maschi
e femmine, che meramente ereditario, non poteva mai dividersi fra più
possessori, benché fossero di ugual grado, ma si sarebbe conservato
sempre indiviso, ammessa la divisibilità solo dei beni feudali
rustici separati dalla giurisdizione. Coloro che avevano la facoltà
di disporre di detti feudi potevano sottoporli a primogenitura fra i chiamati
in quell’ordine che avessero creduto, tanto per contratto che per
disposizione di ultima volontà, e, quando non li avessero sottoposti
a primogenitura, sarebbe succeduto il primogenito fra i chiamati, ad esclusione
degli altri, e fra primogeniti, concorrendo alla successione il patruo
(zio paterno) e in virtù di rappresentazione il nipote, questo
avrebbe escluso sempre il patruo. Le primogeniture istituite sui feudi
ereditari e disponibili erano limitate fino al 4° grado. L’investitura
dei feudi doveva esser chiesta dai vassalli alla camera dei conti, sotto
pena di decadenza entro l’anno e un giorno, sia nel caso di successione
che di acquisto, sia in caso di cambiamento di Sovrano. Le investiture
concesse immediatamente dal Sovrano dovevano esser presentate entro un
mese alla camera dei conti per la interinazione. In caso di decadenza
del feudo, per non chiesta investitura, o per inadempimento delle altre
obbligazioni di vassallaggio, se antico, retto e proprio, o per maschi
e femmine, o ereditario vincolato, la sua devoluzione al r. patrimonio
aveva luogo solamente a danno del contumace e durante la di lui vita,
e dopo la morte del medesimo il feudo ritornava a coloro che erano in
grado di succedergli. La stessa regola si osservava in caso di confisca
del feudo per delitto comune. Nel caso di fellonia del vassallo o di reato
di lesa maestà, decadeva dal feudo il vassallo e qualunque discendente,
agnato, trasversale, o altro chiamato per disposizione di legge o per
patto e provvidenza dell’uomo.
Nessuno avrebbe potuto usare il titolo di duca, principe, marchese, conte
o barone o qualsivoglia altro, se non avesse avuto la patente del Sovrano
o suoi predecessori interinata alla camera dei conti, e ottenuta la investitura
dei feudi e delle giurisdizioni che avessero annesso un titolo. I possessori
di piccole giurisdizioni feudali non avrebbero potuto fare uso del titolo,
se non avessero avuto la metà intera del feudo nei luoghi di cento
fuochi, o un terzo negli altri di maggior numero; se però anche
per più piccole porzioni di feudo fosse stato accordato dal Sovrano
qualche titolo, avrebbero potuto farne uso.
Coloro che avessero alienato i feudi, ai quali erano ammessi i titoli,
non avrebbero potuto più goderne, anche se nel contratto se ne
fossero riservata la facoltà. Era consentito ai possessori di quei
feudi che erano alienabili di venderli ed ipotecarli col consenso sovrano,
ma solamente per le doti delle loro figlie o di altre femmine discendenti
dal primo acquisitore, o per i puri e meri alimenti del vassallo, o per
i miglioramenti indispensabili del feudo. La vendita o la ipoteca doveva
esser preceduta dall’interpellazione dei consorti ed agnati del
feudo, i quali avevano la prelazione. Non erano capaci di acquistar feudi
aventi l’esercizio di qualche giurisdizione se non le persone nobili,
o quelle che, non essendo nobili, avessero prima ottenuto le patenti di
nobiltà o abilitazione. Lo stesso limite si applicava per la successione
nei feudi ereditari quando non si fosse trattato di successori ab intestato,
ma di un estraneo in virtù di disposizione di ultima volontà.
Vittorio Amedeo III nel 1782 sancì speciali pene contro i nobili
che avessero contratto matrimoni sconvenienti, e nel 1797, sotto l’influenza
delle idee della rivoluzione francese, dichiarò allodiali i beni
feudali e sciolti da ogni vincolo feudale, eccetto le terre costituenti
appannaggi dei principi reali, abolì i diritti e prerogative feudali
e proibì la istituzione di primogeniture e fedecommessi. Occupato
il Piemonte dai Francesi, il governo provvisorio nel 1793 abolì
tutti i titoli, le divise e distinzioni di nobiltà, l’uso
delle livree, trine, armi e stemmi gentilizi, e prescrisse che sarebbe
stato usato solo il titolo di cittadino; nel 1798 dispose che sarebbero
stati bruciati solennemente i diplomi, gli stemmi, le investiture e le
altre carte di aristocrazia, ai piedi dell’albero della libertà.
Il 9 dicembre 1799 Carlo Emanuele IV abdicava al regno, protestando contro
l’occupazione francese, e nel 1802 il Piemonte veniva unito alla
Francia, divenendone provincia, e seguendone la legislazione, per cui
occorre occuparsi anche di essa.
Napoleone, proclamato l’impero nel 1804, pensò di accrescere
lo splendore del suo trono con l’istituzione di una nuova nobiltà
e di ordini cavallereschi. Così nel 1806 costituì la Legione
d’Onore, e con decreto del marzo 1808 creò la nuova nobiltà,
la quale derivava unicamente dall’imperatore, e non dal possesso
di un feudo, non godeva di privilegi onorifici, né era esonerata
dagli oneri pubblici. Con lo stesso decreto abolì esplicitamente
la vecchia nobiltà, i cui titoli tornarono all’imperatore,
il quale fu favorevole a concederli a quei nobili, che li avevano prima
posseduti, e che si erano resi benemeriti del nuovo governo. Per collegare
la vecchia alla nuova nobiltà, Napoleone creò nei territori
italiani acquistati, dodici ducati negli Stati veneti, e sei nel Regno
di Napoli, che furono poi concessi ai generali dell’esercito. Fece
inoltre rivivere i titoli di principe e di altezza serenissima, per i
grandi dignitari dello stato, e diede ai primogeniti di essi il diritto
di chiamarsi duca dell’impero, qualora il padre avesse costituito
loro un maggiorasco che producesse 20 mila franchi all’anno. Pose
il titolo di principe sopra quello di duca, abolì il titolo di
marchese e di visconte, stabilì che la nobiltà era personale,
col diritto di renderla ereditaria quando si fosse costituito un maggiorasco,
la cui rendita variava a secondo dei titoli. Nello stesso anno 1808, nella
sua qualità anche di Re del Regno Italico, emanò il 7°
statuto costituzionale sui titoli di nobiltà del quale sarà
detto parlando della Lombardia. Caduto nel 1814 Napoleone, Vittorio Emanuele
I ripristinò le costituzioni di Carlo Emanuele III del 1770 e gli
altri provvedimenti emanati dai suoi predecessori fino al 23 giugno 1800.
Nella trasformazione, che subirono dopo la restaurazione del 1815 gli
stati da regime assoluto a quello costituzionale, sorse il problema sulla
conservazione o meno della nobiltà, e, nell’affermativa,
delle garanzie a tutela del principio fondamentale della eguaglianza giuridica
e sociale dei cittadini, e questo problema si presentò nel 1848
a Carlo Alberto al momento della concessione dello Statuto, ispirato alle
costituzioni francese e belga.
Ed assicurato il principio dell’eguaglianza civile e politica dei
cittadini con l’art. 24 dello Statuto, Carlo Alberto non ebbe difficoltà
a mantenere, con l’art. 79, la nobiltà come affermazione
storica.
Ciò risulta chiaramente dallo schema dello Statuto, nel quale era
detto: «I titoli di nobiltà sono garantiti », mentre
nel testo definitivo venne detto: I titoli di nobiltà sono mantenuti.
In tal modo la formula Albertina risultò più precisa di
quella usata nelle costituzioni francese e belga, volendo intendere che
i titoli nobiliari erano mantenuti, senza distinzione d’origine
e di epoca, generalmente a tutti coloro che potessero vantare per essi
un vero e proprio diritto. A fianco di questo riconoscimento del passato
non si dichiarò porta chiusa alla nobiltà, bensì
si riconobbe al Re il potere di conferire titoli nuovi.
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22 - Ossia trasmissione od acquisto, devianti dalla natura
retta e propria dei feudi. Una circostanza alterativa della natura del
feudo, che diveniva improprio e corrotto, era l’abilitazione delle
femmine a possederlo. V. Card. DE LUCA G. B., Il dottor volgare, Libro
I, capo IV, parag. 3, Roma, Corvo 1673.
Genova
Nella repubblica di Genova la nobiltà era formata da quelle famiglie
che dai tempi più antichi avevano dato al governo podestà
e consiglieri del podestà. Le famiglie nobili erano coalizzate
così potentemente nei 28 Alberghi (v. n. 18) da allontanare dal
governo e da tutte le cariche pubbliche coloro che non erano nobili. Le
prime disposizioni sulla nobiltà sono contenute nel regolamento
del 1528, che prevede la formazione di un Liber nobilitatis da custodirsi
presso la Signoria, in cui si sarebbero dovuti annotare tutti i cittadini
nobili, raggruppati negli Alberghi, libro volgarmente detto «Libro
d’oro» (v. n. 106). Varie disposizioni furono emanate successivamente
per la iscrizione in detto libro, che fu bruciato il 1797. Genova nel
1805 fu aggregata alla Francia, e nel 1815 fu unita al Piemonte. Dai seguenti
pareri del Procuratore Generale presso la Camera dei Conti di Torino si
rileva che: il governo succeduto alla repubblica di Genova non riconobbe
altra nobiltà fuor di quella che la repubblica riconosceva: cioé:
quella derivante dalla ascrizione al libro d’oro (parere 16 febbraio
1838); il titolo marchionale assunto da alcune Famiglie ducali di Genova
fu tacitamente dal governo del Re tollerato, ma non serve ad esse di titolo
legale, molto meno può implorarsi quale diritto da altri discendenti
da famiglie ascritte al libro d’oro aperto nel 1528 (pareri 23-12-1834
e 23-6-1845)23
.
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23 - Con R. D. 18 dicembre 1889 venne autorizzato il riconoscimento
per decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del titolo di marchese
ai discendenti in linea primogenita, mascolina, legittima e naturale degli
individui iscritti al corpo della nobiltà genovese nel 1797. Con
deliberazione 30-1-1890 la Consulta propose il riconoscimento del titolo
marchionale ad personam a quei patrizi genovesi ultrogeniti di famiglie
alle quali secondo il decreto del 1889 spettava il titolo marchionale,
e che essendo in elevata posizione sociale già godessero tale titolo
per enunciazioni fatte in antecedenti provvisioni regie. Questa deliberazione,
sancita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, venne revocata a
decorrere dal l° giugno 1908.
Sardegna
Fin dal Re Alfonso d’Aragona nel 1481 venne consentita la successione
nel feudo anche alla figlia vivente. Con successivo capitolo del 1511
venne stabilito che la successione fosse sempre del figlio maggiore, e
del maschio di esso, e se egli fosse premorto al padre, subentrassero
a lui altri fratelli. Con capitoli del 1560, 1575 e 1586 venne ampliata
la successione nei feudi nelle figlie, preferendo la maggiore alla minore.
Nel 1623 venne stabilito che nella successione dei feudi si avesse riguardo
alla primogenitura fra i fratelli chiamati alla investitura, e che nella
successione delle donne e loro figli si osservassero le clausole della
investitura e le disposizioni del diritto. Sotto Casa Savoia venne disposto
che nessuno avrebbe potuto usare il titolo di cavaliere o di nobile, se
non avesse avuto sovrane patenti, o non fosse stato per tale riconosciuto
in due corti successive.
I fedecommessi e le primogeniture erano ristretti a 4 gradi e si insinuava
la compra, la vendita e la concessione dei beni feudali. Nelle leggi civili
e criminali di Carlo Felice del 16 gennaio 1827 venne stabilito che nella
successione ai feudi, essendo stata questa sempre nel regno individua,
sia in forza dei capitoli di corte, sia per immemorabile consuetudine,
si sarebbe osservato sempre l’ordine di primogenitura. La successione
sarebbe stata sempre regolare in concorso di donne, se esse vi fossero
state, benché in difetto di maschi, eccetto che non si fosse provveduto
diversamente, o nella stessa concessione, o per disposizione dell’investito
del feudo, il quale avesse, o dalla stessa concessione o a termini della
legge, la facoltà di disporre e prescrivere l’ordine di successione
tra le persone chiamate e comprese nell’investitura. Era vietato
di alterare i patti e le condizioni contenute nelle infeudazioni e concessioni,
e di alienare in tutto o in parte terre feudali a persone in esse non
comprese, o di passarle per alcun titolo a mano di università,
chiese, monasteri, collegi o altre manimorte, senza speciale permesso
ed autorizzazione del Sovrano. Carlo Alberto nel 1835 prescrisse la consegna
generale dei feudi, giurisdizioni e diritti feudali, e nel 1836 soppresse
la giurisdizione feudale. Nel 1842 lo stesso Carlo Alberto stabilì
che, ove una famiglia si fosse dedicata all’insegnamento universitario,
il terzo professore di una stessa linea avrebbe goduto la nobiltà
personale ed il diritto di chiedere la nobiltà progressiva nel
caso che i suoi successori della stessa linea avessero servito per almeno
10 anni ciascuno. La stessa onorificenza e diritto avrebbe avuto quel
professore il quale contava nella linea dei suoi ascendenti due persone
fregiate della qualità di giudice della Reale Udienza, o del grado
di luogotenente colonnello nelle R. Armate o del distintivo di cavaliere
dell’ordine militare dei SS. Maurizio e Lazzaro.
La Consulta Araldica ha adottato per la Sardegna le seguenti massime:
la nobiltà sarda acquistavasi mediante espresso speciale diploma
(art. 108). Fanno parte della nobiltà sarda quelle famiglie che
hanno ottenuto speciali diplomi dai Re di Aragona, di Spagna e di Sardegna
(articolo 119). I titoli di principe, duca, marchese, conte, barone, visconte,
provenienti dai cessati possessori di feudi per maschi e femmine, spettano
ai maschi primogeniti, ma possono trasmettersi, in mancanza di loro, e
dei loro diretti successori, ai fratelli, ed in mancanza di questi, alle
sorelle. In parità però di grado e di linea, il maschio
è sempre preferito alla femmina (art. 117). Poteva usare del titolo
di nobile e cavaliere chi era stato riconosciuto per tale in due Corti
Successive (art. 109). Nell’isola di Sardegna e per i feudi impropri
il diritto di primogenitura si trasfondeva nella linea dell’investito;
cosicché deve prima esaurirsi interamente la linea investita, anche
con la vocazione delle femmine, in precedenza di maschi delle linee più
remote (articolo 105). Alle famiglie decorate del cavalierato e della
nobiltà e ai vescovi, spetta il trattamento di don, che non si
può pretendere né dai sacerdoti, né dai semplici
cavalieri ereditari, né dai titolati od antichi feudatari, che
non furono decorati del cavalierato e nobiltà (art. 104). In Sardegna
non esiste alcuna vera nobiltà civica o decurionale (art. 118).
Lombardia
Passato il Ducato di Milano sotto il dominio spagnuolo, Filippo III nel
1609 stabilì che per le concessioni dei titoli di marchese e di
conte da lui fatte dal 1601 ad allora nello Stato di Milano, e in quelle
future, i titoli stessi avrebbero dovuto passare soltanto ai primogeniti,
nonostante vivessero altri discendenti ai quali appartenesse porzione
del feudo sopra cui fossero collocati e posti tali titoli, data la svalutazione
subita dai titoli stessi in conseguenza del fatto che in quello Stato
i feudi erano divisibili, e quindi succedendo tutti i discendenti, una
terra veniva ad avere molti signori, con danno dei sudditi. In caso poi
di reversione alla Corona di feudi, questi non avrebbero dovuto esser
venduti coi titoli di marchese e di conte.
Per rimediare agli abusi il Viceré duca di Feria in data 29 maggio
1631 dispose che fossero notificati i titoli di marchese o di conte, e
il Viceré Contestabile di Sicilia in data 1° febbraio 1647
ordinò di notificare i titoli di marchese, conte, barone ed altri.
Con editto governativo 29 marzo 1718 venne rivolto invito ai titolati
da principi stranieri di godere la prerogativa nobiliare nello Stato,
purché pagassero cento doppie per una sola volta, e venne concessa
dispensa ai titolati di S. M. dall’obbligo di acquistare un feudo
capace, mediante il pagamento di cento doppie per i marchesi e 50 per
i conti; fu fatto obbligo ai titolati di presentare i loro privilegi e
documenti per formare un catalogo dei titolati. Fu fatto invito ai feudatari
per l’acquisto dell’jus proclamandi nei loro feudi, e per
ottenere la facoltà della successione nel feudo per una femmina
in caso di estinzione della linea mascolina.
Passato il Ducato di Milano all’Austria nel 1714, l’Imperatrice
Maria Teresa con dispaccio sovrano 31 agosto 1750 approvò il regolamento
sulle armi gentilizie, titoli e predicati e stabilì la formazione
di un tribunale araldico; il 14 settembre successivo emise un editto sul
regolamento della nobiltà, e il 7 gennaio 1768 una prammatica di
erezione del tribunale araldico.
La stessa Maria Teresa emise il 20 novembre 1769 un editto per tutta la
Lombardia austriaca sulla nobiltà. Per tale editto erano considerati
nobili: coloro che erano ammessi agli ordini e ai ranghi che richiedevano
prove di nobiltà generosa, come i ciamberlani o simili, o che dalle
proprie città e corpi pubblici della Lombardia austriaca, che erano
in possesso di tale prerogativa, fossero stati riconosciuti e dichiarati
dal tribunale araldico essere di una famiglia antica e veramente nobile,
perché i loro ascendenti paterni si erano trovati ad avere acquistata
una vera e positiva nobiltà, senza che a tal fine potesse esser
tenuto conto di armi gentilizie e di predicati nobili, posti in qualunque
atto pubblico o privato dopo l’anno 1640; i titolati da S. M. o
dai suoi predecessori, quando avessero provato di avere adempiuto le condizioni
apposte agli stessi titoli nella concessione; gli investiti di feudo con
giurisdizione che fossero almeno di cinquanta focolari, anche quando essi
non fossero già ammessi agli ordini nobili, purché tale
feudo fosse stato conferito per meriti personali o dei loro maggiori,
e con l’espresso fine di nobilitarli; gli altri mancanti di detto
requisito non avrebbero potuto acquistare un feudo nobile o con giurisdizione,
se prima non fossero ammessi agli ordini nobili o abilitati, con la nobilitazione
da concedersi dal Principe, all’acquisto di tale feudo; coloro che
avessero riportato da S. M. privilegio di essere annoverati fra nobili,
con speciale dichiarazione che essi dovessero godere delle prerogative
degli ordini nobili.
Erano reputati nobili i Regi Ministri che siedevano nei tribunali, i quali
erano in Milano: il Senato, il Consiglio d’Economia pubblica e il
Magistrato Camerale; in Mantova: la Giunta del Vice Governo, il Consiglio
di Giustizia, il Magistrato Camerale. La nobiltà di questi funzionari
sarebbe divenuta ereditaria nella famiglia, e trasmessa a tutta la posterità,
solo nel caso che una delle suddette dignità o cariche si fosse
trovata anche nella persona del figlio o di altri dei discendenti dal
primo investito di tale carica.
Godevano pure delle distinzioni di nobili gli Avvocati e i Sindaci Fiscali,
i Capitani di Giustizia di Milano e Mantova, i Segretari del Governo e
dei Tribunali Supremi, i Vicari Generali dello Stato di Milano, il Vicario
di Giustizia di Milano, l’Ispettore Generale delle Caccie, i Delegati
e i Podestà Regi; però la nobiltà loro, meramente
personale ed annessa all’esercizio dell’ufficio, non era trasmissibile
ai discendenti, quando una delle dette cariche non fosse continuata nella
stessa famiglia per tre generazioni, cioè nelle persone del padre,
del figlio e del nipote.
Le mogli e le vedove delle persone dei nobili e dei Regi Ministri anzidetti
godevano anch’esse delle distinzioni dei nobili, purché fossero
o di nascita nobile, o distinta fra cittadini, ed avessero ristorato con
le proprie sostanze la nobile famiglia del marito, a condizione però
che esse non fossero del tutto plebee. Le mogli e le sorelle dei nobili,
collocandosi in matrimonio, seguivano la condizione dei mariti.
Erano considerati anche nobili i discendenti legittimi dai figli naturali,
nati da padre nobile e libero e da madre libera, qualora i detti figli
naturali fossero stati legittimati o per susseguente matrimonio, o almeno
per rescritto del proprio Sovrano, e che fossero stati allevati dai loro
padri nobilmente, e che né essi, né i loro discendenti avessero
degenerato.
I sudditi di Sua Maestà nella Lombardia austriaca che si fossero
fatti dichiarare nobili, o avessero riportato da qualunque principe, sia
ecclesiastico che secolare, titolo di onore, non sarebbero considerati
per tali, quando non avessero provato una antica nobiltà, o di
esserne in possesso prima del 1640, o non ne avessero da S. M. riportato
la conferma, e questa non fosse stata fatta insinuare negli atti del Tribunale
Araldico.
I figli e discendenti dei nobili, se avessero degenerato dalla nobiltà
dei loro maggiori, non avrebbero potuto essere considerati nobili e capaci
delle distinzioni permesse con l’editto stesso; che, se il difetto
fosse sopra dell’avo e non oltrepassasse due generazioni, oppure
se questi figli e discendenti di nobili avessero riportato da S. M. il
privilegio di ripristinazione, anche questi sarebbero stati considerati
capaci delle distinzioni.
Erano comminate sanzioni per coloro che si fossero fatti trattare o considerare
come nobili a voce o per iscritto.
Ai fini delle prove di nobiltà non avrebbe fatto ostacolo l’aver
commerciato all’ingrosso in lana o in seta, entro gli Stati della
Lombardia dopo le disposizioni del 29 maggio 1760, e di altri precedenti
diplomi.
Nei capitoli secondo e quarto si contenevano, rispettivamente, le disposizioni
circa le armi gentilizie e loro ornati, e la pompa esterna onorifica.
Circa i titoli e predicati di onore, il capitolo terzo stabiliva che nessuna
persona, che non fosse compresa nell’elenco dei titolati, poteva
farsi nominare a voce o per iscritto duca, principe, marchese, conte,
barone, né usare di questi titoli o attribuirsi qualunque altra
distinzione e grado.
I soli primogeniti di coloro che avevano riportato privilegi e titoli
dopo la prammatica del 1601, confermata dall’altra 2 giugno 1609
avrebbero potuto usare dei suddetti titoli di onore, e i secondogeniti
avrebbero dovuto astenersene, qualora i titoli non fossero estesi anche
ad essi, e si fosse in ispecie derogato agli ordini suddetti.
Qualunque suddito, che avesse ottenuto titoli o qualsivoglia altra prerogativa
di onore o di nobiltà da qualche Principe estero, secolare od ecclesiastico,
non avrebbe potuto usare di tali titoli e prerogative, se non avesse riportato
dal Sovrano o dai predecessori la dovuta conferma.
I sudditi di S. M. che accidentalmente si fossero trovati nella Lombardia
austriaca, avrebbero potuto usare dei titoli ai medesimi conferiti dai
loro Principi naturali. Nessuno avrebbe potuto nominarsi col titolo di
qualunque feudo o signoria, se non ne fosse nel possesso attuale.
Nessun discendente da femmine avrebbe potuto far uso del titolo della
signoria o del feudo che possedevasi dai loro ascendenti, qualora i discendenti
stessi non fossero stati compresi nelle prime concessioni, o nn avessero
ottenuto la grazia della ampliazione. Nessuna persona di un sesso o dell’altro
avrebbe potuto attribuirsi il predicato di nobile, cavaliere, dama, né
quello dell’illustrissimo, don, donna, se non fosse dell’ordine
nobile, e sarebbe stato molto più vietato l’usare del predicato
di altezza o di eccellenza, qualora non si fosse stati elevati a grado
che lo portasse.
Alle persone impiegate in abbietti esercizi non avrebbe potuto darsi neanche
del semplice predicato di signore, il quale sarebbe stato permesso unicamente
a chi viveva civilmente, oppure esercitava qualche arte o impiego civile.
Con successivo editto di Maria Teresa del 29 aprile 1771 furono chiarite
ed interpretate le anzidette disposizioni, stabilendosi, fra l’altro,
che per dichiarare una famiglia di vera e generosa nobiltà si sarebbero
dovute presentare al Tribunale araldico le prove di essersi essa, almeno
per 200 anni, trattata in figura di nobile, ciò che si sarebbe
dedotto dai predicati di onore, secondo l’età, da matrimoni
qualificati, da cariche e impieghi, che ordinariamente non si affidavano
se non a persone nobili, da patronati, da dovizie, da titoli, feudi cospicui,
fabbriche magnifiche ed antiche, state però sempre possedute dai
maggiori della medesima famiglia, ed altre simili decorazioni, che inoltre
gli ascendenti del richiedente non avessero esercitato arti meccaniche,
ad eccezione della grande mercatura. Fra dette decorazioni si sarebbe
contato anche il decurionato, purché continuato nei maggiori del
richiedente per 150 anni, e che per almeno 200 anni concorressero alle
qualificazioni suindicate. Tra le qualificazioni da provarsi pel corso
di 200 anni si sarebbero valutati, uniti però ad altri, i predicati
di onore continuati per 100 anni, quantunque dopo il 1640.
Riguardo a quelle città della Lombardia che anticamente si erano
rette a forma di repubblica ed alcune delle quali costituivano parte dello
Stato di Milano, le persone aggregate al ceto patrizio o al collegio dei
nobili dottori di antica istituzione delle medesime, sarebbero state reputate
nobili anche allora, purché l’ordine patrizio o il collegio
dei dottori di simili città avesse osservato o osservasse uno statuto
particolare, che nella persona del richiedente prescrivesse per la sua
aggregazione prove di genuina nobiltà corrispondenti alle regole
prescritte dallo statuto del Collegio di Milano.
I titoli concessi con diplomi imperiali avrebbero abbracciato bensì
tutti i discendenti maschi senza ordine di stretta primogenitura, non
però le femmine maritate in altre famiglie, e molto meno i loro
discendenti. Gli onorati con simili titoli dalla Cancelleria dell’Impero
non sarebbero stati tenuti ad appoggiare i titoli a feudi.
In Mantova sotto i Gonzaga non esistette una legislazione nobiliare. Passato
il Ducato nel 1707 sotto l’Austria, nel 1709 e nel 1739 il patriziato
mantovano venne obbligato a giustificare i propri titoli, e nel 1770 venne
istituita una speciale Deputazione Araldica, dipendente in parte dal Tribunale
di Milano. Nel 1786 venne soppresso il Tribunale Araldico e le sue attribuzioni
furono affidate al Consiglio di Governo. Nel 1793 fu approvato dal Consiglio
Generale di Milano il regolamento per la ammissione al nobile patriziato
milanese.
La Lombardia, costituitasi in Repubblica Transpadana nel 1796, dopo essersi
unita alla Repubblica Cispadana, della quale facevano parte Modena, Reggio,
Ferrara e Bologna, formando una repubblica Cisalpina, che nel 1802 prese
il nome di Italiana, si trasformò nel 1805 in Regno d’Italia.
Nella Repubblica Cisalpina con legge 22 pratile anno IV (10 giugno 1796)
fu abolita la nobiltà e dichiarata estinta ogni autorità
feudale. Detta legge fu poi estesa al Regno d’Italia.
Con il 7° Statuto Costituzionale 21 settembre 1808 sopra i titoli
di nobiltà e sui maggioraschi, di Napoleone I, Imperatore dei Francesi
e Re d’Italia, venne stabilito che quegli elettori che fossero stati
per tre volte presidenti dei collegi elettorali generali avrebbero portato
il titolo di duca, e l’avrebbero potuto trasmettere a quello dei
loro figli, in favore del quale avessero istituito un maggiorasco di un
reddito annuo di L. 200.000.
I grandi ufficiali della Corona avrebbero portato il titolo di conte,
e i loro figli primogeniti avrebbero avuto il titolo di conte, se il loro
padre avesse istituito a loro favore un maggiorasco della rendita di L.
30.000. Detto maggiorasco e titolo sarebbero stati trasmissibili alla
loro discendenza diretta e legittima, naturale o adottiva, di maschio
in maschio, e per ordine di primogenitura.
I grandi ufficiali del regno avrebbero potuto istituire per il loro figlio
primogenito o cadetto dei maggioraschi, ai quali sarebbero stati attaccati
i titoli di conte o barone, secondo le condizioni appresso indicate.
I ministri, i senatori, i consiglieri di stato incaricati di qualche parte
della pubblica amministrazione e gli arcivescovi, avrebbero portato, durante
la loro vita, il titolo di conte. Questo titolo sarebbe stato trasmissibile
alla discendenza diretta, legittima, naturale o adottiva, di maschio in
maschio, per ordine di primogenitura, di quello che ne era rivestito,
e per gli arcivescovi a quello dei loro nipoti che avrebbero scelto, previa
richiesta delle lettere patenti. Il titolare avrebbe dovuto giustificare
una rendita netta di L. 30.000 che dovevano entrare nella formazione del
maggiorasco. I grandi ufficiali del regno avrebbero potuto istituire a
favore del loro figlio primogenito o cadetto, e quanto agli arcivescovi
a favore del loro nipote primogenito o cadetto, un maggiorasco, al quale
sarebbe stato attaccato il titolo di barone. Occorreva però una
rendita annua di L. 15.000 per la istituzione del maggiorasco.
I presidenti dei collegi elettorali di dipartimento, che avrebbero presieduto
il collegio per tre sezioni, il primo presidente, il procuratore generale
della corte di cassazione, i primi presidenti e procuratori generali delle
corti di appello, i vescovi, i podestà delle città di Milano,
Venezia, Bologna, Verona, Brescia, Modena, Reggio, Mantova, Ferrara, Padova,
Udine, Ancona, Macerata, Ravenna, Rimini, Cesena, Cremona, Novara, Vicenza,
Bergamo, Faenza, Forlì, avrebbero portato, durante la loro vita,
il titolo di barone. I primi presidenti, procuratori generali e podestà
avrebbero dovuto avere 10 anni di esercizio ed adempiuto le funzioni con
sovrana soddisfazione. I membri dei collegi elettorali avrebbero potuto
prendere il titolo di barone sopra loro domanda al Sovrano, e trasmetterlo
a quello dei loro figli in favore del quale avessero istituito un maggiorasco
di L. 15.000 di annuo reddito.
I dignitari, i commendatori, i cavalieri dell’ordine della Corona
di ferro avrebbero potuto trasmettere il titolo di cavaliere alla loro
discendenza diretta legittima, naturale o adottiva, di maschio in maschio,
per ordine di primogenitura, giustificando una rendita netta di lire tremila.
Il Sovrano si riservava d’accordare i titoli che avrebbe giudicato
convenienti ai generali, prefetti, ufficiali civili e militari, e ad altri
sudditi che si fossero distinti per servigi resi allo Stato.
Coloro, che avessero avuto conferiti titoli, non avrebbero potuto portare
altri stemmi, né avere altre livree, se non quelle enunciate nelle
lettere patenti di istituzione.
Il titolo conferito a ciascun maggiorasco era affetto esclusivamente a
quello, in favore del quale era fatta la creazione, e sarebbe passato
alla discendenza legittima, naturale od adottiva, di maschio in maschio,
per ordine di primogenitura.
Nessuno, investito di un titolo, avrebbe potuto adottare un figlio maschio
o trasmettere il titolo, accordatogli o pervenutogli, ad un figlio adottivo
prima che egli fosse investito del titolo, se ciò non fosse stato
autorizzato nelle lettere patenti rilasciate a questo effetto.
Quelli, ai quali sarebbero stati conferiti di pieno diritto i titoli di
duca, conte, barone, cavaliere, e coloro che avrebbero ottenuto in loro
favore la creazione di un maggiorasco, o sarebbero chiamati a riceverlo,
avrebbero dovuto prestare giuramento con apposita formula. Disposizioni
speciali regolavano il maggiorascato e il rilascio delle lettere patenti,
che erano trascritte in apposito registro, ed erano pubblicate e registrate
alla corte di appello ed al tribunale di prima istanza del domicilio dell’impetrante
e del luogo ove erano situati i beni del maggiorasco.
Nel 1814, in seguito alla caduta di Napoleone, il Regno Italico si sciolse,
e la Lombardia ritornò col Veneto sotto l’Austria. Con Decreto
del 14 dicembre 1814, il governatore generale della Lombardia emanò
le norme per il riconoscimento della nobiltà.
In base ad esse erano conservate l’antica nobiltà concessa
o riconosciuta dal governo austriaco in Lombardia, e così pure
la nuova istituita dal cessato governo italiano. La nobiltà nuova
era ritenuta nei termini più rigorosi della sua concessione, ed
in caso di adozione avrebbe dovuto essere richiesta la speciale sovrana
approvazione. Nondimeno, nei casi di meriti particolari verso il Sovrano
o verso lo stato per parte dei membri della nobiltà nuova, il Sovrano
sarebbe stato propenso ad accordare, in via di grazia speciale, la successione
in linea legittima mascolina e femminina. Per la validità così
dell’antica che della nuova nobiltà era necessario nei singoli
casi l’intervento della approvazione sovrana. Gli individui dell’antica
nobiltà, che dal governo italico non erano stati rivestiti della
nobiltà nuova, potevano far valere i loro precedenti diritti di
nobiltà; quelli che si trovavano nel caso opposto, potevano, in
via di massima, soltanto chiedere la conferma della loro nobiltà
nuova, restando ad essi nondimeno concesso di implorare la grazia sovrana
speciale di far rivivere l’antica loro nobiltà. I maggioraschi
della nuova nobiltà già esistenti avrebbero temporaneamente
conservato la forma che ad essi era stata attribuita dal Regno Italico,
salvo le disposizioni della nuova legislazione civile e giudiziaria da
emanarsi. Le prerogative e i privilegi e i diritti sì dell’antica
che della nuova nobiltà sarebbero stati quelli generalmente accordati
ai nobili negli stati tedeschi.
Veniva istituita in Milano una Commissione Araldica alla quale dovevano
rivolgersi coloro che ritenevano di aver diritto alla nobiltà.
Con determinazione 15 agosto 1815 della Reggenza di governo della Lombardia
venne chiarito che gli individui che riunivano in loro gli estremi delle
due distinte nobiltà, antica e nuova, non potevano essere ammessi,
in via di massima, a partecipare alla facoltà generalmente accordata
di far valere i precedenti diritti di antica nobiltà; nondimeno
non era preclusa la possibilità di conseguire la grazia sovrana
speciale di far rivivere anche l’antica loro nobiltà, dato
che non era incompatibile la riunione nello stesso individuo delle prerogative,
dei titoli della nobiltà antica e nuova.
In conseguenza dell’estensione al Lombardo-Veneto del codice civile
austriaco, che consentiva ai genitori adottivi di chiedere il consenso
sovrano per la trasmissione della loro nobiltà ed armi gentilizie
alla prole adottata, con circolare 2 gennaio 1826 della cancelleria aulica
venne fatto noto che tale consenso sarebbe stato concesso solo nel caso
che i genitori adottivi, e secondo i casi, anche i figli adottivi, fossero
in stato di vantare quei meriti personali che si richiedevano per ottenere
la nobiltà austriaca.
Lo stesso codice civile austriaco prescriveva (art. 620) che nei fedecommessi,
in dubbio, si presumeva piuttosto la primogenitura che il maggiorasco
o seniorato; e fra questi, piuttosto il maggiorasco che il seniorato.
Nella primogenitura la linea più giovane non perveniva al fedecommesso
se non estinta la linea più vecchia, cosicché il fratello
dell’ultimo possessore era posposto ai figli, nipoti, pronipoti
ed ulteriori discendenti del possessore medesimo (art. 621). La discendenza
femminina non poteva di regola succedere nei fedecommessi. Se poi il fondatore
aveva disposto espressamente che, estinta la stirpe mascolina, dovesse
il fede commesso passare nelle linee femminine, ciò avrebbe dovuto
seguirsi secondo l’ordine di successione del sesso mascolino; ma
gli eredi maschi della linea pervenuta al possedimento del fedecommesso
erano preferiti agli eredi di sesso femminino (art. 626).
Nel 1828 furono sciolte le commissioni araldiche di Milano e di Venezia,
passando le attribuzioni agli uffici di governo.
Veneto
Nel Veneto la nobiltà ebbe due diverse origini, quella derivante
dalle alte cariche Pubbliche (patriziato), e quella proveniente dall’ordinamento
feudale del territorio che formò lo stato di terraferma, dopo il
suo acquisto avvenuto nel 142024
. Le lagune venete nel secolo V formavano una provincia dell’impero
bizantino retta localmente da alcuni tribuni marittimi, eletti fra l’aristocrazia
locale e obbedienti all’esarca di Ravenna. Nel VII secolo ai vari
tribuni fu sostituito con un accentramento politico un Dux (doge), dapprima
di nomina imperiale bizantina divenuto nel 726 elettivo, che così
rimase fino alla caduta della repubblica veneziana (1799), nonostante
i tentativi fatti da alcune famiglie eminenti di rendere ereditaria nella
loro discendenza la carica dogale. La repubblica veneta non subì
l’ordinamento feudale, e di conseguenza non passò nelle fasi
successive del comune e della signoria. Il maggior consiglio, istituito
nel 1172 constava di ricchi commercianti nobili eletti, accentrava ogni
potere della repubblica, eleggeva ad ogni carica e si rinnovava per forza
propria nominando a tale scopo degli elettori. Nel 1276 stabilì
quali rettori al loro ritorno appartenevano temporaneamente di diritto
ad esso, e nel 1277 deliberò la esclusione dal medesimo degli illegittimi.
Per mantenersi la purezza della nobiltà, successivamente nel 1376
venne tolto il diritto di appartenere al gran consiglio ai nati da genitori
nobili, ma prima del matrimonio, nel 1422 venne stabilita la esclusione
da esso ai nati da schiava, serva o donna di vile condizione, ed imposto
l’obbligo di dar notizia del matrimonio contratto all’avogaria,
e nel 1533 fu proibita la approvazione e discussione della nobiltà
dei figli nati da matrimonio di un patrizio con una fantesca, villana,
o donna abbietta.
Nel 1297 venne decretata la serrata del maggior consiglio, prorogata nel
1299, stabilendosi che venissero ammessi al ballottaggio per farne parte
quelli che vi avessero appartenuto per 4 anni, e decretandosi norme per
l’ammissione di quelli che non vi avevano mai appartenuto. Con questa
serrata la nobiltà dei ricchi commercianti si trasformò
in vera aristocrazia e chiuse il proprio ordine.
Nel 1308 il maggior consiglio dichiarò che l’esercizio di
una carica, alla quale era inerente l’appartenenza al maggior consiglio,
non conferisse, in via assoluta il diritto di esservi eletto. Nel 1379
il Senato stabilì alcune norme per la aggregazione di nuovi membri
al maggior consiglio. Dal decreto 22 agosto 1410 si rileva che vi erano
diverse specie e gradi di nobili e cittadini veneziani. I nobili erano
ricevuti nel maggior consiglio, secondo i meriti, per grazia, per onore,
per cittadinanza veneziana. I cittadini erano ricevuti per abitazione
o per deliberazione25
. Non potevano essere accolti come ambasciatori di altri principi o comunità
che i soli nobili e i cittadini per privilegio, che avevano domicilio
ed abitavano fuori di Venezia. Nel 1414 furono stabilite le norme per
l’ammissione dei giovani patrizi ad estrarre la balla d’oro
per entrare nel maggior consigliò, e nel 1421 furono emanate le
norme per la formazione del collegio delle prove degli aspiranti ad entrare
nel consiglio stesso. Nell’agosto 1506 e aprile 1526 il consiglio
dei dieci impose l’obbligo di dar notizia all’avogaria delle
nascite e dei matrimoni dei patrizi. Questi registri, che tuttora si conservano
nell’Archivio Veneto e giungono fino al 1801, costituiscono il cosidetto
libro d’oro (v. n. 106). Durante il secolo XVI si susseguono svariate
norme sulle prove di nobiltà, sui matrimoni, e accanto al patriziato
veneziano venne a porsi la nobiltà feudale per effetto della conquista
da parte della repubblica del territorio che formò lo stato di
terraferma. Detto territorio, come ha dimostrato il conte Baldino Compostella26
risultava costituito dal comitato vescovile imperiale che era convissuto
giuridicamente coi comuni e colle signorie, e dalla cospicua eredità
del patriarcato di Aquileia, stato dell’impero, ambidue organizzati
feudalmente. Il comitato, che era stato attribuito ai vescovi verso il
mille, era stato dapprima investito feudalmente a persone singole, poi
in forma ereditaria a famiglie determinate. Il godimento del feudo era
regolato dalle investiture del conte vescovo, e i signori delle città
dovevano sottostare alle investiture per i feudi familiari di origine
vescovile. I vicecomites esercitavano il loro potere feudale con la attribuzione
pubblica e pacifica di conti. La repubblica veneta che soppiantò
le signorie, non credette per varie ragioni di sopprimere il comitato
come organizzazione feudale, per cui questo fu rispettato e regolato con
leggi che cercavano di coordinare i diritti del comes con quelli della
repubblica. Solo le ducali 7 ottobre 1634 e 23 novembre 1775 prescrissero
che le investiture vescovili fatte alle famiglie fossero integrate con
la formula: «Salva fidelitate Reipublicae Serenissimae». Subito
dopo la regolazione di questi feudi, dei quali in seguito alcuni furono
ceduti dai vescovi al fisco, le famiglie più importanti cercarono
di ottenere il titolo di conte, che il senato veneziano accordò
con formula che voleva ignorare lo stato di fatto, ma che per la qualità
del feudo comprendeva l’estensione del titolo a tutti i membri della
casa feudale. La successione in questi feudi era di forma mista, per cui
i maschi erano preferiti alle femmine in parità di grado.
Coll’occupazione del patriarcato di Aquileia, la repubblica acquistò
un patrimonio feudale cospicuo, che fu in seguito aumentato dalle nuove
infeudazioni, per cui il senato con decreto 25 luglio 1587 istituì
il magistrato dei provveditori sopra feudi, che dovevano curare le investiture,
regolare le riforme di titoli esteri, dare nobiltà ai feudatari
di feudi giurisdizionali, decidere le controversie in materia di feudi,
col parere dei consultori in iure. Dopo l’istituzione di questo
magistrato fu regolata anche la questione del titolo di conte dei feudi
vescovili, e, mentre durante il 1500 tali titoli venivano ammessi per
tutti i maschi e femmine della famiglia, il magistrato ammise i titoli
per i soli maschi. Il magistrato, per ragione evidentemente politica,
curò sempre che il titolo concesso alle famiglie in possesso di
feudi vescovili, andasse disgiunto dal feudo. I feudi friulani aventi
marca di contea, che derivavano la loro origine dalla organizzazione carolingia
e patriarcale del Friuli, furono riconfermati in genere nelle famiglie
primitive a titolo di signoria, e il titolo di conte fu riconosciuto alle
famiglie nell’esercizio delle funzioni feudali, pur andando disgiunto
dal predicato feudale. La ricognizione di questi titoli spettava al magistrato
ai feudi con atto di investitura. Il senato concedeva altresì titoli
per speciali benemerenze con o senza terre annesse, e in alcuni casi concesse
titoli annessi a terre con giurisdizione, trasmissibili ai maschi e alle
femmine, e con eventuale successione femminile, privi di vincolo feudale.
Tali donazioni con le leggi 11 marzo 1623 e 7 ottobre 1661 furono gravate
da vincolo feudale. In conseguenza delle gravi condizioni in cui versava
il pubblico erario, il senato stabilì di erigere in contea o marchesato
alcuni feudi ricaduti al fisco, e di metterli all’incanto (decreto
del senato 31 ottobre 1645, 10 settembre 1647) e nel 1685, 1686, 1716
il maggior consiglio conferì il patriziato dietro offerta di denaro.
Essendo invalso l’abuso di arrogarsi titoli di marchese, conte e
cavaliere e di altre simili qualità, in conformità dei proclami
del 1674 e 1686, il senato veneziano con decreto 20 gennaio 1729 approvò
un proclama dei provveditori sopra i feudi circa l’uso dei titoli.
In base ad esso era proibito a qualsiasi persona di usare qualsiasi titolo
onorifico, senza precedente notizia al magistrato sopra i feudi e susseguente
descrizione nel libro dei titolati, istituito dal senato con decreto 4
febbraio 1661. Negli atti, contratti, testamenti, sentenze pubbliche e
private scritture, non si sarebbe potuto fare il nome di una persona con
alcuno dei detti titoli che non fosse contenuta al ruolo allegato al proclama,
o che la persona non fosse discendente da legittimo matrimonio di alcuna
di quelle registrate nel ruolo, ma compresa nella concessione del titolo.
Uguale divieto era fatto per gli atti compiuti da curati, parroci, arcipreti,
e da pubblici consigli, collegi e da altre pubbliche radunanze di città,
territorio, monti, ospedali, congregazioni, accademie o di altro luogo
pio o secolare.
Coloro che avessero ritenuto di aver diritto a portare detti titoli ma
che non si trovassero iscritti nel libro del magistrato sopra i feudi
erano obbligati a notificare e presentare gli atti legali su cui fondavano
la loro pretesa.
Altri proclami dei provveditori sopra i feudi contro l’abuso dei
titoli furono emanati il 31 luglio 1780 e 28 settembre 1795.
Il senato con deliberazione 11 marzo 1747 autorizzò i provveditori
sopra i feudi a conferire il titolo di nobile ai feudatari, le cui investiture
lo portassero ed agli investiti di feudi giurisdizionali.
Il consiglio dei dieci, con decisione 27 febbraio 1760 stabilì
che i titoli non avessero alcun valore, se non fossero riconosciuti e
registrati dai provveditori sopra i feudi.
Nel 1780 fu approvato dal senato il codice feudale della serenissima repubblica,
ordinato da Angelo Memmo.
Il senato veneto concesse in qualche caso il cavalierato ereditario, ma
più che di vera nuova concessione, in moltissimi casi, si trattò
di conversione di cavalierati ereditari concessi da altri principi, e
confermò il titolo di conte palatino, sia imperiale che palatino,
senza distinguerne la differenza, tanto che in alcuni casi convertì
nell’atto di conferma il palatinato in comitato, senza specificazione
che si fosse trattato di provvedimento di grazia.
Nel 1797 cessò la repubblica veneta, e il Veneto fu assegnato all’Austria,
dalla quale passò nel 1805, con Napoleone, al Regno d’Italia,
la cui legislazione nobiliare della Lombardia fu applicata al Veneto.
Caduto Napoleone, il Veneto tornò il 7 aprile 1815 all’Austria.
Con notificazione 28-12-1815 di Francesco I, circa la conservazione della
antica nobiltà veneta e la conferma di quella napoleonica, venne
stabilito che per la nobiltà nuova creata dal governo italico si
sarebbero osservate tutte le misure adottate per la Lombardia, e quindi
se la nobiltà era personale non poteva divenire ereditaria; se
la patente di istituzione ne limitava la successione in ordine di primogenitura,
avrebbe continuato la medesima in quest’ordine stesso, e nei casi
di adozione avrebbe potuto esser prorogata soltanto dietro speciale approvazione
sovrana. Per lo stesso principio i maggioraschi della nuova nobiltà
non avrebbero potuto sussistere che in quei soli casi nei quali il regime
italiano li avesse già conferiti con apposite patenti agli individui
nobilitati.
Tuttavia, nei casi di meriti particolari, per parte dei membri della nuova
nobiltà verso il sovrano e lo stato, avrebbe potuto essere accordata,
in via di grazia speciale, la successione nella discendenza mascolina
e femminina.
Per la validità della nobiltà riconosciuta dalla repubblica
veneta, quanto di quella del governo italico avrebbe dovuto esser chiesta
in tutti i singoli casi la conferma sovrana. Riguardo alla nobiltà,
che sotto il governo della repubblica di Venezia esisteva negli atti di
sua attinenza, non si sarebbe fatta alcuna differenza fra nobiltà
patria e quella delle città di terraferma, e a coloro che erano
iscritti nel libro d’oro, bastava, ai fini della prova della nobiltà,
il documento della iscrizione, anche per i discendenti, purché
fossero state adempiute le condizioni fissate per conservare la parità
del sangue.
Con sovrana determinazione 26 novembre 1824 sulla conferma delle nobiltà
di origine veneta o straniera, notificata il 25 giugno 1825, venne stabilito,
a complemento della notificazione 28 dicembre 1815, che la nobiltà,
ovvero i titoli conferiti dalla cessata repubblica veneta secondo le prescrizioni
e leggi allora vigenti e quindi regolarmente acquistati, fossero qualificati
per la conferma nella stessa guisa come furono conferiti ed acquistati,
sempre che tale conferma venisse ricercata entro un anno nelle vie regolari,
e il possesso della nobiltà e dei titoli venisse pienamente comprovato.
Lo stesso sarebbe avvenuto, ai fini della qualifica per la conferma, della
nobiltà o dei titoli conferiti da potenze e sovrani esteri, od
acquistati col consenso del legittimo governo delle province già
venete, ovvero dal medesimo riconosciuti. Nel 1828 fu sciolta la commissione
araldica, e furono dichiarati chiusi il libro d’oro delle nascite
e dei matrimoni con le ultime iscrizioni del 1801. Con circolare 23 luglio
1834, in considerazione che, dopo la conferma della antica nobiltà
accordata a tutte le famiglie già ascritte al patriziato veneto
come pure a quelle che facevano parte dei preesistiti consigli comunali
di terraferma, gli individui componenti le stesse famiglie godevano dei
diritti e dei titoli della nobiltà austriaca, fu confermato il
divieto fatto fin dal 1818 e 1827, di non far uso del titolo di N. H.
(nobiluomo), oppure quello di patrizio, non competendo ai rispettivi individui
altra denominazione fuorché quella di nobile, qualora non fossero
fregiati di gradi più elevati di nobiltà.
Nel 1837 fu dichiarata perduta la nobiltà da coloro che emigravano
illegalmente, e da coloro che erano condannati per crimini (v. n. 40,
65, 67).
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24 - Il più recente studio di diritto pubblico veneziano
è l’opera di G. MARANINI, La Costituzione di Venezia, Venezia,
2 volumi.
25 - La Consulta Araldica con la massima 42 stabilì che le famiglie
ascritte alla cittadinanza originaria di Venezia godevano una posizione
distinta ma non nobile.
26 - I titoli dello Stato Veneto in « Corriere Gentilizio»,
16 novembre 1924 e 25 gennaio 1925.
Parma
Durante la dominazione Farnesiana (1545-1731) e Borbonica (1749-1802)
non si ebbe nel ducato di Parma una speciale legislazione nobiliare, essendo
la materia regolata dal diritto comune. Maria Luigia con decreto 29 novembre
1823 istituì una apposita commissione araldica per esaminare e
riconoscere i titoli e i possessi di nobiltà di ciascuna famiglia
dal 1802 ed anni anteriori, per proporre la conferma di nobiltà
a quelle famiglie che ne avessero fatta domanda. Il nobile confermato
era munito di diploma, che veniva trascritto in un apposito registro presso
l’archivio di stato di Parma. Erano dichiarati confermati nella
loro nobiltà i nobili creati o riconosciuti dai precedenti sovrani
e che furono presentati ed ammessi alla corte. Essi dovevano curare che
fosse trascritto nel registro dei diplomi l’atto che comprovasse
la loro presentazione ed ammissione a corte, e che avrebbe tenuto luogo
del diploma regolare di conferma.
Era istituito anche un libro e matricola dei nobili in cui erano registrati
secondo l’ordine alfabetico dei nomi di famiglia, i nomi dei nobili,
delle loro mogli e dei loro figli di ambo i sessi, le date di matrimonio
e di nascita dei figli, il titolo di nobiltà e l’atto di
nobiltà e di conferma.
Erano anche stabilite le prerogative dei nobili, consistenti, fra l’altro,
nell’ammissione a corte nell’essere intitolato nobile, nell’istituire
e ordinare primogeniture nella propria famiglia, senza bisogno di speciale
atto sovrano.
I nobili non potevano fare uso di stemmi, né avere livree diversi
da quelli specificati nei loro diplomi.
Modena
Il duca Ercole III nel 1788 impose alle famiglie nobili stabilite permanentemente
a Modena di farsi iscrivere nel libro d’oro. Nel 1796 il ducato
di Modena fu aggregato alla repubblica cispadana e nel 1797 alla cisalpina.
Col 1805 seguì con Napoleone le sorti del regno italico. Caduto
Napoleone e ritornato il ducato agli Estensi, Francesco IV nel 1814 richiamò
in vigore il codice estense, dichiarò di permettere la istituzione
di nuovi fedecommessi e primogeniture, senza però far rivivere
quelli istituiti in addietro e aboliti dalle passate leggi, confermò
la abolizione dei feudi, ma consentì agli investiti e ai chiamati
dalle rispettive investiture, oltre di continuare a godere dei beni loro
rilasciati, di assumere i titoli e di godere le distinzioni, gli onori
e le prerogative annessi ai feudi, e segnatamente di quelle portate dal
codice a favore dei chiamati e compresi nell’investitura dei feudi
con giurisdizione, quanto alla progressività dei fedecommessi e
primogeniture da istituirsi per l’avvenire. Nel 1815 approvò
la riapertura del libro d’oro di Modena e nel 1816 stabilì
le regole per la iscrizione nel libro stesso e la sua conservazione. Ogni
famiglia nobile, sia originaria che straniera, di nobiltà magnatizia
o equestre o generosa o legale avrebbe potuto essere iscritta, purché
stabilita permanentemente e domiciliata in Modena. Occorreva far domanda
per l’iscrizione, e i postulanti dovevano giustificare la loro civile
condizione almeno fino al terzo tavolo paterno, al secondo materno inclusivamente;
per cui avendo detti loro antenati vissuto more nobilium, venisse costituita
nella famiglia una nobiltà legale, oppure dovevano per particolari
prerogative indotta in più breve spazio di tempo simile nobiltà.
Bisognava poi giustificare la sufficienza del patrimonio per mantenersi
in modo conforme alla decenza del rango. Coloro, che per decreto sovrano
erano insigniti di qualificazioni e di titoli di nobiltà, avevano
senz’altra formalità il diritto di essere iscritti nel libro
d’oro. La cancellazione dal libro aveva luogo nel caso di delitto
che portasse pena infamante, e qualora per legge o disposizione sovrana
venisse inflitta come pena la cancellazione stessa. Essa aveva luogo per
il delinquente e per i figli nati dopo pronunciata la sentenza. In caso
di remissione di pena occorreva la grazia sovrana per la nuova iscrizione.
Circa le arti e professioni che toglievano o sospendevano le prerogative
della nobiltà, si sarebbero osservate le massime e consuetudini
preesistenti. La riapertura e conservazione dei libri di nobiltà
fu consentita nel 1816 a Mirandola, Carpi e Finale, nel 1818 a Reggio,
nel 1819 a Correggio. Disposizioni sugli stemmi furono emanate nel 1816
e 1819. Nel 1848 il governo provvisorio dispose la reintegrazione nel
libro d’oro modenese dei nomi dei cancellati per delitti politici.
La Consulta Araldica con la massima 48 stabili che nella regione modenese
non vi erano che le seguenti nobiltà civiche, con grado di patriziato
nelle città di Modena e Reggio e con titolo di nobiltà nelle
città di Mirandola, Carpi, Finale, Correggio.
Lucca
Per la legislazione martiniana del 1556, cosidetta dal suo autore Martino
Benvenuti, solo a certe famiglie nobili poteva essere affidato il governo
della repubblica aristocratica, la quale nel 1628 istituì un libro
d’oro. Questa repubblica ebbe vita fino al 1798. È un susseguirsi,
dopo, di governi di breve durata: la repubblica lucchese dal 1801 al 1805,
il principato dei Baciocchi fino al 1813, vari governi provvisori, infine
la sua assegnazione come ducato a Maria Luisa di Borbone di Spagna prima,
dal 1817 fino al 1824, e a Carlo Ludovico (Luigi) che le succedette, la
sua cessione infine a Leopoldo II di Toscana nel 1847.
Carlo Ludovico il 27 aprile 1826 emanò il regolamento sulla nobiltà
e il 19 agosto dello stesso anno quello sul patriziato. Per il primo la
nobiltà si divideva in ereditaria, e personale che terminava colla
vita. Era riconosciuta la nobiltà ereditaria in tutti gli individui
di quelle famiglie che ne godevano al termine del 1798, e la personale
a quelli che godevano di quella personale alla stessa data. Se qualche
famiglia nobile o qualche persona di questo ceto avesse fatto constare
di godere dei titoli di barone, conte, marchese o altri titoli, per concessioni
autentiche di principi esteri, veniva fatta menzione del titolo nel diploma
di nobiltà, dichiarandosi anche se il titolo fosse ereditario o
personale. Erano nobili personali coloro i quali, non appartenendo al
corpo della nobiltà, ricoprivano le cariche di consigliere di stato,
di gonfaloniere di Lucca, di segretario intimo. Gli onori della nobiltà
erano concessi a giudizio del duca anche a quei sudditi non nobili, che
fossero insigniti, da potenze estere, di decorazioni o di titoli, pei
quali fosse stato concesso il riconoscimento. Vennero istituiti un libro
d’oro nel quale dovevano segnarsi gli antichi e nuovi nobili e i
nuovi titolati, e due altri registri per segnarvi in uno i decaduti dalla
nobiltà, e nell’altro i nomi dei sudditi non nobili che avevano
diritto agli onori concessi alla nobiltà. Perdevano la nobiltà
quelli che occupavano impieghi non compatibili col loro grado, o esercitavano
qualsiasi mestiere o tenevano bottega personalmente, i disonorati per
delitti. La decadenza non si estendeva agli individui della famiglia.
Il nobile che contraeva matrimonio con una non nobile conservava la nobiltà,
e la trasmetteva ai figli, se ereditaria, ma non la comunicava alla moglie;
se una donna nobile si maritava con uno non nobile, essa conservava la
nobiltà personalmente, purché il marito non si trovasse
in uno dei casi pei quali si perdeva la nobiltà. Era consentita
la riammissione nella nobiltà, nel caso che si trattasse di condanna
per delitto, ove il delinquente si fosse reso benemerito per servigi resi
allo stato o al Sovrano; nel caso di decadenza per mestieri o impieghi
incompatibili, dopo 10 anni almeno di cessazione dall’esercizio
incompatibile. La donna, che decadeva dalla nobiltà a cagione del
marito, poteva riacquistarla se il marito si uniformava alle disposizioni
stabilite pei nobili. Col regolamento sul patriziato veniva, a chiarimento
ed integrazione, stabilito che le famiglie nobili, che avevano goduto
almeno per 4 generazioni continue fino al 1798 dell’anzianato e
quelle che potevano provare per lo spazio di 200 anni la continuazione
della loro nobiltà, erano ascritte alla 1a classe della nobiltà
sotto il nome di famiglie patrizie, le famiglie nobili ereditarie formavano
la 2a classe, e quelle personali la terza. Nel caso di decadenza dal patriziato,
si poteva riacquistare soltanto la nobiltà ereditaria.
Toscana
A Firenze, dopo che nel periodo repubblicano furono aboliti i feudi, le
servitù personali e gli oneri feudali, i Medici cercarono di favorire
il ristabilirsi del feudalesimo, e crearono una aristrocrazia feudale,
la quale durò fino al granduca Francesco II di Lorena, che nel
1749 ridusse il potere politico dei feudatari. Lo stesso granduca con
la legge sopra i fedecommessi e le primogeniture ne consentì la
istituzione in avvenire, e con la legge 31 luglio 1750 stabilì
il regolamento sulla nobiltà e cittadinanza. Per essa erano riconosciuti
nobili tutti quelli che possedevano, o avevano posseduto, feudi nobili
e tutti quelli che erano ammessi agli ordini nobili, o avevano ottenuto
la nobiltà per diplomi del granduca o suoi antecessori e, finalmente,
la maggior parte di quelli che avevano goduto o erano abili a godere il
primo e più distinto onore delle città nobili loro patrie.
Erano riconosciuti cittadini quelli che avevano o erano atti ad avere
tutti gli onori delle città, fuori che il primo. Nelle sette antiche
città nobili di Firenze, Siena, Pisa, Pistoia, Arezzo, Volterra
e Cortona la nobiltà era distinta in due classi, la prima col nome
di nobili patrizi, la seconda con quella sola di nobili. Nelle altre città
nobili meno antiche di S. Sepolcro, Montepulciano, Colle S. Miniato, Prato,
Livorno e Pescia, la nobiltà era composta in una unica classe,
riservandosi il granduca e i suoi successori di consentire la concessione
del patriziato.
Le rimanenti città del granducato non comprese fra quelle anzidette
non avevano il rango di nobile.
Nelle antiche sette città nobili le famiglie nobili dovevano registrarsi
per tali pubblicamente in un nuovo libro a parte, e le rimanenti ammesse
a tutte le borse, (cioè a tutte le elezioni degli uffici) fuori
che alle prime, restavano scritte come avanti per cittadini a libri pubblici.
Tra le famiglie nobili delle rispettive antiche città dovevano
essere iscritte nella classe dei patrizi tutte le famiglie nobili che
erano state ricevute per giustizia nell’ordine di S. Stefano (v.
n. 115 nota) e tutte le altre famiglie nobili che in virtù di qualunque
altro requisito sovranunciato per esser riconosciute nobili avrebbero
potuto provare la continuazione della propria nobiltà per lo spazio
almeno di 200 anni compiuti. Nelle nominate antiche città dovevano
registrarsi nella classe dei nobili tutte le famiglie discendenti da soggetti
ricevuti nell’ordine di S. Stefano, e tutte le altre famiglie nobili
che non avrebbero potuto provare la continuazione della propria nobiltà
per 200 anni compiuti.
Nelle altre sette città meno antiche dovevano essere iscritte nella
classe dei nobili indistintamente tutte le famiglie nobili messe nell’ordine
di S. Stefano, e tutte le rimanenti famiglie, per qualsivoglia giusto
titolo come sopra indicato capaci di provare la loro nobiltà. Tutti
i nativi delle altre terre o luoghi del granducato che fossero stati già
o sarebbero stati in avvenire ricevuti nell’ordine di S. Stefano,
o fossero stati o sarebbero stati per diplomi granducali creati nobili,
avrebbero dovuto essere iscritti nella classe della nobiltà della
città più vicina al luogo di loro origine o di abitazione.
La iscrizione nelle rispettive classi dei patrizi e dei nobili era subordinata
alla condizione che a quella epoca mantenessero, col dovuto splendore,
la nobiltà trasmessa loro dai propri antenati, rimanendone esclusi
quelli che avessero derogato alla medesima per l’esercizio di arti
vili, o per qualsivoglia altra causa che avesse importato la perdita della
nobiltà, cause tassativamente indicate.
Le famiglie e persone ammesse da 50 anni ai primi onori delle città
non potevano essere riconosciute per nobili; e perciò non potevano
essere registrate nella classe della nobiltà se non quelle, che
acquistatovi il domicilio e imparentatesi nobilmente, possedessero nel
comune delle medesime città o altrove tanti effetti e beni da potere,
colle rendite di essi, vivere decorosamente e stabilire in tal forma la
nobiltà nuovamente acquistata, oppure che ne avessero, o avrebbero
ottenuto speciale grazia sovrana.
Una apposita deputazione veniva nominata per fare la pubblica descrizione
delle due classi dei patrizi e dei nobili, in base ai dovuti esami delle
domande da presentarsi dai capi delle famiglie nobili. Terminata la compilazione
dei registri originari del patriziato e della nobiltà, gli originali
sarebbero stati conservati nell’archivio di palazzo di Firenze,
e le copie inviate in ciascuna rispettiva città per essere conservate
nei loro archivi.
In occasione della nascita di figli legittimi naturali in famiglie patrizie
o nobili, il capo di casa avrebbe dovuto farli prontamente iscrivere in
dette copie, o nei registri originali.
Solo coloro che erano iscritti nei registri del patriziato o della nobiltà
sarebbero stati riconosciuti per nobili del granducato, ed essi, oltre
alle altre prerogative e privilegi soliti, avrebbero avuto il diritto
di istituire primogeniture e fedecommessi. I patrizi, in confronto dei
nobili, avrebbero avuto soltanto la precedenza su di essi in tutte le
pubbliche adunanze e funzioni.
Il passaggio delle famiglie delle antiche città dalla classe della
nobiltà a quella del patriziato per compiuto periodo di 200 anni
della sua nobiltà, si sarebbe effettuato mediante la concessione
di apposito sovrano diploma e la iscrizione nel registro. I nobili di
stati stranieri, che avessero voluto acquistare domicilio nel granducato,
avrebbero potuto, su richiesta, ottenere la iscrizione al patriziato o
alla nobiltà. I sudditi del granducato, fatti nobili per concessioni
di feudi, titoli o diplomi di sovrani stranieri, non sarebbero stati riconosciuti
o trattati come nobili, e non avrebbero potuto essere iscritti nella classe
dei nobili senza espresso ordine sovrano e nuovo diploma di conferma.
Apposite disposizioni stabilivano la perdita del patriziato e della nobiltà
per delitto e per l’esercizio di arti meccaniche.
Non importava perdita della nobiltà o del patriziato il tenere
case di negozio o banchi di cambio per somma ragguardevole, il gestire
col proprio denaro e ministri traffici all’ingrosso, nell’arte
della seta e della lana, l’esercizio della professione di medico,
di avvocato, di giudice, di notaio, purché si fosse adottorati
nelle università del granducato, l’esercizio della pittura,
della scultura, dell’architettura, sia civile che militare. Qualunque
donna patrizia o nobile si fosse maritata con un uomo ignobile, non era
scancellata dalla sua classe, benché costante il matrimonio si
fosse dovuta stimare della condizione del marito, e parimenti qualunque
patrizio o nobile avesse preso per moglie una donna di condizione inferiore,
restava nella sua classe e godeva di tutte le prerogative e distinzioni
e onori del suo rango, anche durante il matrimonio, e così i suoi
figli e discendenti.
Nella città di Firenze chiunque, dopo la pubblicazione della legge
avesse voluto essere ammesso alla cittadinanza, o come si diceva essere
ascritto a gravezze alla regola dei cittadini fiorentini, avrebbe dovuto
addecimare tanti dei propri beni stabili che ascendessero alla somma di
10 fiorini all’anno. Quei cittadini che fossero già iscritti
avrebbero potuto continuare a godere della cittadinanza, purché
essi, o tutta una famiglia sola, benché divisa in più rami,
avessero o ponessero a decima tanti effetti e beni, in modo che venissero
a pagare, tutti insieme, sopra di essi la somma di almeno 6 fiorini l’anno
di decima. Nelle altre città i cittadini da ammettersi in avvenire
avrebbero dovuto pagare almeno la somma di L. 50 e quelli già ammessi
per rimanervi almeno L. 25 all’anno di decima, estimo, ecc., o altro
peso reale sopra i beni posti nel comune delle medesime città.
Veniva poi disposta la cancellazione dai registri dei cittadini di quelle
famiglie o persone che non possedessero beni o li possedessero in piccola
quantità. I cittadini che, dopo la cancellazione, fossero rimasti
scritti e impostati nei libri pubblici delle decime o altri libri delle
comunità, o che vi si fossero iscritti per l’avvenire, avrebbero
seguitato ad avere le magistrature e uffici della loro patria, e tutte
le altre esenzioni e privilegi soliti ad aversi, e avrebbero potuto seguitare
ad usare le solite armi della loro famiglia, colorate, in un semplice
scudo, senza cimiero, corona, o alcun altro dei fregi appartenenti alla
nobiltà, i quali, come proprio distintivo, avrebbero potuto unicamente
portarsi dai soli patrizi e nobili secondo il solito e loro giuste prerogative.
Tutti coloro, che avevano o avrebbero conseguito il grado di dottore nelle
università del granducato, avrebbero goduto delle medesime esenzioni,
privilegi ed immunità dei cittadini fiorentini, fuori che negli
uffici. La cittadinanza si perdeva solamente per delitto.
Sotto la stessa data del 31 luglio 1750 venivano date istruzioni alla
deputazione sopra la descrizione della nobiltà e cittadinanza.
Successivamente venivano aggiunte al novero delle città nobili:
Pontremoli (1718), Modigliana e Fiesole (1838), Pietrasanta (1841), Fivizzano
(1848). Con sovrano motu proprio 3 maggio 1816 fu dichiarato doversi annoverare
la città di Livorno fra le nobili, ed insignita di tale onore fino
dal 1806, quando ebbero termine due secoli dalla istituzione in essa della
nobiltà. La soppressione dei feudi avvenne con legge 8 aprile 1808.
La deputazione toscana sulla nobiltà e cittadinanza fu soppressa
nel 1869.
Province romane
Negli Stati della Chiesa27
la primitiva nobiltà fu di carattere feudale, coi necessari temperamenti
determinati dalla proprietà terriera ecclesiastica. Verso il mille
si trova la concessione di terre in enfiteusi con l’obbligo di difenderle,
obbligo che divenne servizio militare. Il feudo si chiamava beneficium,
e i feudatari avevano il nome di baroni e cavallerotti.
Dopo il 1511 il baronaggio cominciò a decadere, e ad esso si contrappose
il ceto della nobiltà e del patriziato romano sotto la diretta
disciplina dei Papi. Anche Bologna aveva un ordine di nobiltà civica,
e parecchi comuni erano privilegiati nella nobiltà locale e conservavano
i relativi libri d’oro. Forse a ricompensa dei privilegi perduti,
i feudi dei baroni romani vennero eretti in ducati o principati, ma allorquando
questi furono nel secolo XVI aboliti, i principi continuarono ad appoggiare
il loro titolo su una terra, per quanto nella pratica lo portassero direttamente
attaccato al cognome.
Con chirografo 18 febbraio 1679 di Papa Innocenzo XI venne vietato che
fossero conferiti in avvenire titoli di marchese e di conte sopra luoghi
non abitati a modo di popolo, e ai portatori di tali titoli venne tolto
il predicato, e fu loro lasciato l’uso del semplice titolo sul cognome.
Mancava però nello stato pontificio una speciale legislazione nobiliare,
né si tenevano registri particolari per le concessioni sovrane
di feudi, di titoli, di stemmi; la successione ai titoli ed attributi
nobiliari era regolata esclusivamente dalle concessioni, con grande varietà
e larghezza di forma, con formule astratte, indeterminate e nebulose,
di difficile interpretazione. Talvolta in mancanza di norme generali successorie
si ricorreva a norme particolari derivanti dalle disposizioni fedecommissarie
o dalle disposizioni istitutive di un maggiorasco ed alla surrogazione
(vedi n. 17, 91). Infine per consuetudine si seguiva la massima paterna paternis, e cioè in mancanza di discendenti il titolo ereditato
dal lato paterno si trasmetteva ai collaterali di questo, e quello ereditato
dal lato materno ai collaterali materni.
Ad impedire gli abusi che si erano venuti formando da parte di coloro
che appartenevano soltanto al ceto cittadino, ma facevano uso del titolo
nobiliare civico, Papa Benedetto XIV con la costituzione Urbem Romam del
4 gennaio 1746 regolò la nobiltà civica di Roma, dalla quale
erano espressamente esclusi i principi e duchi romani. Secondo detta costituzione,
l’ammissione della nobiltà civica romana poteva aver luogo:
o in via di giustizia per coloro che avessero ricoperto essi stessi o
i loro ascendenti la carica di conservatori della camera capitolina o
di priore delle regioni; o in via di grazia, mediante richiesta da parte
di coloro che fossero stati in grado di provare la civiltà dei
loro antenati in linea paterna e materna fino alla terza generazione,
e fossero nel possesso di un determinato censo. All’atto della emanazione
della bolla, 180 famiglie dette nobili patrizie, poterono essere iscritte
alla nobiltà civica romana, fra queste famiglie furono scelti 60
capi famiglia, detti nobili coscritti, dai quali venivano tratti per sorteggio
i nomi di quattro membri che costituivano il collegio per il processo
di aggregazione alla classe, della semplice nobiltà. Affinché
fosse mantenuto in 60 il numero dei nobili coscritti veniva stabilito
che, estinguendosi una delle 60 famiglie, si effettuasse la surrogazione,
ossia la sostituzione, con una famiglia tratta dalla classe della semplice
nobiltà. La surrogazione veniva fatta dai nobili coscritti riuniti
in collegio, e la elezione si chiamava cooptazione. Inoltre le famiglie
dei Sommi Pontefici, di diritto facevano parte della nobiltà civica
romana. Col successivo chirografo pontificio 12 gennaio 1746 venivano
ammesse alla iscrizione o alla reintegrazione anche le famiglie che discendevano
per parte di donna dai conservatori o dai priori delle regioni. La nobiltà
civica era ereditaria, ed era iscritta nel libro d’oro che si chiuse
il 20 settembre 1870.
Colla annessione di Bologna alla repubblica cisalpina, nel 1796 furono
aboliti i titoli e le insegne nobiliari, e nel 1797 i feudi; nelle province
pontificie annesse al regno d’Italia fu nel 1808 abolita la feudalità,
e in quelle annesse all’impero francese fu pubblicato il decreto
24 luglio 1809 che soppresse la feudalità, abolì la nobiltà
ereditaria, gli stemmi e le qualifiche e tutti i distintivi nobiliari
e feudali, fatta salva alle famiglie, che ne avessero goduto, la facoltà
di chiedere all’imperatore e ottenere i titoli e le prerogative
e i maggioraschi istituiti dagli statuti dell’impero.
In seguito alla caduta di Napoleone, con editto del 1815 la antica nobiltà
era ristabilita nelle province pontificie e la nuova era conservata. Pio
VII con motu proprio 6 luglio 1816 confermò l’abolizione
del feudalesimo nelle province unite allo stato pontificio in seguito
al trattato di Vienna. Lo stesso Pontefice, con breve 26 settembre 1820
sul riaprimento del libro d’oro e sull’ammissione al ceto
nobile nella città di Bologna, disciplinò le iscrizioni
tra le famiglie nobili bolognesi, istituendo una apposita commissione
araldica con funzioni consultive, e una assunteria con funzioni deliberative
per l’esame delle domande di iscrizione nel libro d’oro, che
non potevano però aver luogo senza l’approvazione del Pontefice
o del Cardinale Legato.
Potevano essere ammesse nell’ordine dei nobili, senza domanda, persone
di merito insigne o benemerite della patria; ma questo onore era meramente
personale. Tutti i cittadini bolognesi che sotto il cessato governo italiano
erano stati decorati del titolo di conte o di barone avevano diritto di
essere iscritti nel libro d’oro. Chiunque avesse richiesto di essere
iscritto alle famiglie nobili doveva giustificare la sua civile condizione
fino al terzo grado di ascendenti, dal lato di padre, e sino al secondo
dal lato di madre inclusivamente. Doveva inoltre giustificare di possedere
un’annua rendita libera da pesi di 2000 scudi romani per provvedere
al trattamento della famiglia ed al decoro di essa. Non poteva essere
iscritto qualora egli stesso o il di lui padre, almeno da 30 anni addietro
avesse esercitato un’arte meccanica o vile, o vi avesse prestato
la sua firma o nome.
Occorreva inoltre professare la religione cattolica, esser nati da legittimo
matrimonio, o legittimati per susseguente matrimonio.
Norme speciali regolavano le cause di perdite dei privilegi della nobiltà
per l’esercizio di arti e il matrimonio.
Con motu proprio di Leone XII del 21 dicembre 1827 veniva disposto che
tutte le città, che avevano goduto e godevano il privilegio della
nobiltà generosa o locale, lo conservavano, che sarebbe stato accordato
agli altri centri territoriali, dichiarati città, il privilegio
della nobiltà locale, che poteva coesistere con quella generosa.
Pio IX con chirografo 2 maggio 1853 stabili che le famiglie principesche
e ducali romane, che in passato avessero o in avvenire avrebbero ottenuto
dalla Santa Sede un tale titolo, e che avessero avuto in Roma il principale
domicilio, senza che fossero comprese nell’albo della nobiltà
romana, d’allora in poi ne avrebbero fatto parte e avrebbero servito
principalmente per completare, nei casi di mancanza, il numero delle 60
famiglie di patrizi coscritti. Data la mancanza non piccola allora esistente
nel numero delle famiglie di patrizi, era disposta la riunione straordinaria
della congregazione araldica per il completamento del numero. In tal modo
venivano a fondersi i due rami della nobiltà romana: il feudale
ed il civico. Inoltre il consiglio comunale di Roma poteva concedere la
nobiltà personale, e non trasmissibile per eredità, a quegli
uomini che se ne fossero resi degni per segnalati servizi prestati alla
patria o per celebrità acquistata con la dottrina e scienze, col
valore delle scienze e nelle arti belle.
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27 - GORINO, op. cit., pag. 11.
Napoletano
Ad integrazione di quanto è stato detto a proposito dell’ordinamento
feudale, e della successione napoletana (v. n. 15), con prammatica 15
giugno 1742 di Carlo III fu stabilito che dopo il decorso di cento anni
s’intendeva prescritto il diritto di ottenere la reintegrazione
nei sedili nobili di Napoli, e con R. Dispaccio del 16 ottobre 1743 fu
risoluto, ai fini dell’acquisto della nobiltà, che il tempo
notabile nel quale era vissuta una famiglia nobilmente consisteva nell’avere
avuto l’avo il quale era vissuto nobilmente, e senza esercitare
uffici o arti vili e il padre ancora, e così, anche come il padre
e l’avo, colui che richiedeva la nobiltà. Dati i dubbi sorti
sopra la qualità e i gradi di nobiltà lo stesso Carlo III
con dispaccio 25 gennaio 1756 dichiarò che essa era di tre classi:
la prima consisteva nella nobiltà generosa e si verificava allorquando,
nella continuata serie dei secoli, una famiglia era giunta a possedere
qualche feudo nobile, o che per legittime prove constava ritrovarsi la
medesima ammessa tra le famiglie nobili di una città regia; nella
quale fosse una vera separazione dalle civili, e molto più dalle
famiglie popolari, oppure che avesse origine da qualche ascendente, il
quale per la gloriosa carriera delle armi, della toga, della chiesa, o
della corte avesse ottenuto qualche distinto e superiore impiego o dignità,
e che i suoi discendenti, per il corso di lunghissimo tempo, si fossero
mantenuti nobilmente, facendo onorati parentadi senza mai discendere ad
uffici civili e popolari, né ad arti meccaniche ed ignobili.
Ferdinando I con dispaccio 1° dicembre 1770 confermò che la
nobiltà generosa proveniva solo dal lungo possesso di feudi, o
da titoli conceduti dal sovrano, o da supremi gradi occupati nella milizia,
nella magistratura e nelle dignità ecclesiastiche. Ferdinando II
con rescritto 17 agosto 1851 dichiarò sufficiente l’iscrizione
ai sedili per provare la nobiltà generosa di una famiglia.
La seconda classe di nobiltà, detta di privilegio, la godevano
coloro i quali per i loro meriti e servigi personali prestati alla corona
ed allo stato, giungevano ad essere promossi dalla munificenza dei principi
a gradi maggiori ed onorifici della milizia, della toga, o della corte;
in questa classe dovevano essere considerati e compresi tutti gli ufficiali
militari maggiori e minori, e quelli i quali, anche nelle altre classi
di stato maggiore dell’esercito, come nella carriera ecclesiastica
e delle lettere e in classi di regale servizio e governo dello Stato giungevano
ad ottenere decorosi impieghi, i quali imprimevano carattere o che fossero
di equivalente sfera colla distinzione ed ordine che richiedeva per la
sua qualità il differente maggiore o minore rango di ciascuno.
La terza classe che comprendeva quelli che si reputavano nobili era chiamata
legale o civile.
Erano reputati nobili tutti quelli che facevano constare avere essi, come
il loro padre ed avo, vissuto sempre civilmente con decoro e comodità,
e che, senza esercitare cariche, né impieghi bassi e popolari,
erano stati stimati, gli uni e gli altri, nell’idea del pubblico
per uomini onorati e dabbene. Con dispaccio 24 dicembre 1774 di Ferdinando
I venne distinta la cittadinanza in tre classi o ceti: la prima quella
delle famiglie nobili, comprendente tutti coloro che vivevano nobilmente,
e che così avessero vissuto i loro antenati, inclusi in questa
classe solo come persone, e non come famiglia, i nobili di privilegio,
cioè i dottori in legge e in medicina. Nel caso che da padre in
figlio i dottori in legge avessero acquistato lo stesso onore, le loro
famiglie erano iscritte alla prima classe, purché non esercitassero
mestieri vili o servili. La ascrizione dei medici alla 1a classe era sempre
personale e con condizione che non potessero essere eletti a membri del
decurionato o amministratori della comunità. Nel secondo ceto erano
ascritte le famiglie di coloro che vivevano civilmente, e i notai, i mercanti,
i cerusici e gli speziali. Nella 3a classe erano compresi gli artisti
e i bracciali.
A causa della indifferenza sulla sorte dello stato addimostrata dai sedili
o piazze di Napoli nel 1799 in occasione della costituzione della repubblica
partenopea, con legge 25 aprile 1800 vennero aboliti i sedili stessi,
fu istituito un supremo tribunale conservatore della nobiltà del
regno, e fu disposta la formazione di un registro, detto del Libro d’oro
della nobiltà napoletana, nel quale dovevano essere iscritte tutte
le famiglie ascritte ai sedili di Napoli, con riserva di aggregazione,
da parte del Sovrano, a detto libro, dei più benemeriti soggetti
e delle loro famiglie. Il tribunale avrebbe dovuto tenere poi altri tre
registri: quello di tutte le famiglie che non erano ascritte ai sedili
ma possedevano feudi da 200 anni (con dispaccio del 1801 fu chiarito che
dovevano essere iscritte anche quelle famiglie che non erano più
in possesso di feudo, purché dopo l’alienazione di esso avessero
continuato a vivere senza interruzione nobilmente); quello delle famiglie
passate all’ordine di Malta per giustizia; quello di tutti i nobili
ascritti ai sedili chiusi delle città del regno che formavano nobiltà,
era anche compito del tribunale il cancellare dal libro d’oro e
dagli altri registri quei nobili che avessero mancato, e di pubblicare
annualmente l’elenco dei nobili non degradati. Infine doveva proporre
un sistema sugli stemmi che potevano essere usati da ciascuna classe dei
nobili.
Della legislazione, sotto Re Giuseppe Buonaparte e Gioacchino Murat è
stato già detto a proposito della successione napoletana (v. n.
15).
Ferdinando I, ritornato in possesso del regno nel 1815, il 20 maggio stabilì
che tanto l’antica che la nuova nobiltà era confermata, e
con legge 11 dicembre 1816 venne estesa ai domini di terraferma l’abolizione
della feudalità. Con decreto 23 marzo 1833 di Ferdinando II venne
stabilito che, fino a quando non sarebbe stata pubblicata una apposita
legge sulla nobiltà e sui titoli relativi, era istituita per il
reame di terraferma e per la Sicilia una Reale commissione dei titoli
di nobiltà avente nelle sue attribuzioni tutto quello che in fatto
di nobiltà apparteneva alle antiche autorità. Inoltre la
Commissione aveva la facoltà di chiedere conto se alcuno fosse
legalmente investito del titolo di cui usava. Niuno poi avrebbe potuto
cominciare ad usare alcun titolo di nobiltà, cui poteva aver diritto
per successione o per altro motivo, se prima non era dichiarata dalla
Commissione la legittimità del suo diritto e non fosse intervenuto
il beneplacito sovrano. I successivi sovrani rescritti 28 maggio e 7 ottobre
1837, 26 gennaio, 16 marzo 1839, e la ministeriale 7 dicembre 1839 confermarono
nel senso più categorico e preciso la incommerciabilità
dei titoli di nobiltà e la esclusione degli stessi dalle contrattazioni,
da testamenti e da legati, considerando che, sebbene le contrattazioni
per le terre feudali erano permesse, dappoiché la abolizione della
feudalità aveva ridotto ad allodii le terre soggette a vincoli
feudali, pure i titoli avevano conservato lo stesso divieto che vi era
per le terre feudali e le stesse regole di trasmissione da persona a persona.
Sicilia
Oltre a quanto è stato detto a proposito della successione siciliana
(v. n. 16) è da ricordare che in Sicilia, ove i feudatari si intitolavano
Conti, Baroni e Militi, venne introdotto il titolo di Marchese nel 1334
dal Re Federico d’Aragona. Questo titolo venne concesso per la seconda
volta da Re Alfonso il Magnanimo nel 1433, e per la terza volta da Re
Ferdinando il Cattolico nel 1509. Il quarto titolo di Marchese fu concesso
da Carlo V nel 1543, e da allora in poi i Re di Sicilia furono più
larghi nel concederlo.
Ma, essendosi questo titolo reso comune, sorse il desiderio di nuove e
maggiori distinzioni, per cui l’Imperatore Carlo V introdusse in
Sicilia nel 1554 il titolo di Duca, e Filippo II di Spagna quello di Principe
nel 1563. Durante il dominio spagnuolo si assistette in Sicilia alla elevazione
dei titoli posseduti in quelli di maggiore onoranza (v. n. 41).
Carlo III con dispaccio 27 dicembre 1755 ordinò la formazione delle
mastre nobili di Sicilia, ossia dei registri dei nobili in tutte le città
che avevano distinzione di ceti (v. n. 18). Con lettere 3 novembre 1798
del senato di Messina approvate dal R. Governatore venne ordinata fra
l’altro la rinnovazione della mastra dei nobili col titolo Album Nobilium Messanensium, che va dal 1798 al 1807, e che fu l’ultima
chiamata poi mastra nobile di Messina del 1807. Con R. rescritto 7 novembre
1856 fu ordinato non potersi iscrivere alla detta mastra nuove famiglie
o persone senza la prova di nobiltà generosa nell’aspirante,
convalidata dal sovrano permesso, e che in seguito di deliberazione della
R. Commissione dei titoli di nobiltà (v. n. 21 M) avrebbero potuto
venire allistati solamente i nomi dei discendenti di quegli individui
che vi si trovavano ascritti. Esistono elenchi di mastre nobili di Augusta,
Caltagirone, Castrogiovanni, Castroreale, Catania, Messina, Milazzo, Mineo,
Nicosia, Palermo, Polizzi, Santa Lucia, Taormina e Vizzini28
.
Pel feudo di Franco Allodio vedi n. 38.
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28 - Le mastre nobili di Sicilia, e specialmente quelle
mandate dalle varie città nel 1855 alla R. Commissione dei titoli
sulle quali essa a causa dei mutamenti politici non ebbe tempo di esprimere
alcun avviso, sono conservate nel grande archivio di stato di Napoli.
Sono importanti, fondandosi su di esse il titolo nobiliare di gran numero
di famiglie patrizie dell’isola, non nobili per altri capi. Per
la esclusione degli ascritti alle mastre del Patriziato vedi n. 40.
Le varie specie di nobiltà
secondo gli scrittori
Volendo riassumere le varie forme di nobiltà, gli scrittori di
araldica usano una terminologia diversa, ma la differenza ha valore soltanto
formale. Negli scrittori antichi si trovano varie distinzioni della nobiltà29
. Secondo alcuni essa è divisa in tre classi: cominciante, crescente,
perfetta.
La cominciante è quella eretta e creata ex novo dal principe; la
crescente è quella che procede e discende da un nobilitato ma si
conserva e mantiene per nobili alleanze, o da esse riceve incremento o
attende futura perfezione. La perfetta è quella che ripete una
origine tanto remota che il suo principio trascende la memoria d’uomo,
e che è proceduta sempre da padre in figlio. Si richiede però
che all’antichità si accoppii il lustro, cioè gli
onori e le dignità. Secondo altri si hanno le seguenti distinzioni
della nobiltà: naturale, legale, generosa, magnatizia o baronale,
suprema, civile o politica, teologica, mista, di privilegio.
La naturale è una dignità del casato procedente dallo splendore
degli avi, continuata nei figli legittimi; la legale è quella che,
acquistata già in virtù delle lettere e delle armi dell’avo,
si accrebbe nel padre e si perfezionò nei figli, vivendo essi civilmente
e con esclusione di arti meccaniche. La generosa è quella che,
secondo il Tiraquello, mai non tralignò, e richiede non solo il
non esercizio di arti meccaniche e vili, ma anche una vita nobile, fama,
riputazione e uso notorio delle insegne da tempo immemorabile. La magnatizia
o baronale è quella composta di baroni o titolati che assistono
il principe più da vicino degli altri nobili. La nobiltà
suprema è quella che procede dal sovrano, la civile o politica
deriva dalle leggi o da decreto del principe e si acquista, o coll’esercizio
di cariche portanti dignità, o per diploma di cittadinanza originaria,
cioè di appartenenza all’ordine e grado dei cittadini distinti
chiamati originari, ossia di origine per antichità e splendore.
La cittadinanza originaria apriva l’adito a raggiungere gli onori
e le dignità dispensati dallo stato, ed esonerava dalle gravezze
imposte alle classi popolari. I cittadini originari, perché ritenuti
degni di tutti gli onori, erano considerati nobili. In qualche città,
la cittadinanza originaria costituiva un requisito per acquistare in prosieguo
di tempo la nobiltà civile ed essere aggregati al consiglio nobile.
La nobiltà teologica è quella che procede da dignità
ecclesiastiche; la mista deriva dal sangue e dalle virtù; quella
di privilegio è creata dal principe.
Secondo il cardinale De Luca30
la nobiltà si distingue in naturale ed accidentale od acquistata.
La naturale è quella sopraindicata, l’accidentale è
quella di colui che, nato ignobile, si sia costituito in stato nobile,
con la sua industria, col benefizio della fortuna, con la grazia del principe.
Inoltre la nobiltà si divide in classi o ordini: la prima classe
è quella che nasce dal principato sovrano ed assoluto, la seconda
è quella magnatizia costituita dai feudatari e dai signori titolati.
La terza classe è quella equestre volgarmente detta dei cavalieri,
nonostante che, giuridicamente parlando, al terzo posto debba essere collocata
la nobiltà privata la quale comprende tutti coloro che si dicono
nobili, e che in Italia volgarmente sono detti gentiluomini. La nobiltà
privata si distingue in più specie: semplice ovvero ordinaria,
generosa ossia più qualificata, separata dal popolo e ristretta
ad alcune famiglie.
Degli scrittori moderni il Di Crollalanza31
classifica la nobiltà in feudale, in quella traente origine dalla
cavalleria all’epoca delle crociate, infine in quella funzionale
derivante dall’esercizio di determinati uffici civili o militari,
nobiltà di toga.
Questa classifica è accolta dal Sabini32
.
Il Di Carpegna33
e lo Stolfi34
distinguono la nobiltà in feudale o di razza, per lettere patenti
e di concessione del sovrano, e infine quella inerente a talune cariche
e uffici determinati.
La feudale aveva la sua origine nella concessione di un feudo, e se si
tratta di feudo di dignità, ossia titolato, si aveva diritto di
portare anche il titolo, altrimenti si era nobile, ma non titolato. Siccome
poi era regola, quasi uniforme per tutti gli stati, che i libri d’oro
comprendessero tutti i nobili, e quindi anche gli ultrogeniti delle famiglie
titolate, così anche questa nobiltà feudale minore vi era
compresa.
La nobiltà per lettere patenti era quella creata dal sovrano come
premio ad azioni nobili, e qualche volta per forti somme pagate allo stato
o per favorire qualche persona cara.
La nobiltà per cariche andava congiunta ad una carica od ufficio
determinato.
Il Solmi35
distingue tre classi di nobiltà: l’alta, quella di privilegio,
quella legale. L’alta nobiltà era costituita dalle famiglie
aristocratiche più antiche che avevano feudi o uffici elevati,
nonché dalle famiglie che per le ricchezze acquistate o per gli
uffici coperti erano riuscite a pervenire ai gradi più elevati
della società, ottenendo dal sovrano il riconoscimento o la concessione
di titoli e di onori.
La nobiltà di privilegio era composta da coloro che erano promossi
ai gradi maggiori della milizia, della toga, della corte e della chiesa.
La nobiltà legale o civile è costituita dalla classe più
agiata della borghesia, e vive di rendite proprie, senza esercitare né
aver esercitato impieghi bassi o professioni illiberali.
Il Salvioli36
, seguendo i trattatisti di araldica e dell’arte del cortegiano,
distingue vari gradi di nobiltà: 1° la generosa o magnatizia
costituita dalle famiglie investite da tempo di feudo col mero o misto
imperio37
, o iscritte, fra la nobiltà antica con separazione dai popolari,
con speciale concessione imperiale o pontificia; 2° la privilegiata
attribuita a chi l’aveva meritata coprendo alte dignità a
corte, in curia, in milizia; 3° la legale per quelli che dimostravano
una esistenza decorosa per tre generazioni, o di aver coperte cariche
importanti «mantenendosi nobilmente, facendo onorati parentati,
senza mai discendere ad uffici civili e popolari, né ad arti meccaniche
ed ignobili» (Dispaccio di Carlo III di Napoli 25 gennaio 1756);
4° la nobiltà di toga, di penna o piuma, in favore dei militi
della scienza (militia inermis), medici, avvocati, magistrati. Questa
nobiltà era personale, ma diveniva ereditaria, se padre e figlio
e nipote avevano avuto carica nella magistratura (editto 20 novembre 1769
per la Lombardia; dispaccio 1756 e 1774 per Napoli); 5° quella derivante
dagli ordini cavallereschi. Vi era infine una nobiltà personale
inerente a cariche pubbliche e di corte, dotata più di distinzioni
nel cerimoniale, che di vere prerogative.
La nobiltà di creazione contemporanea è tutta per lettere
patenti.
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29 - DEL BUE, Dell’origine dell’araldica, Lodi
1846, inserito nel vol. 5° del Teatro Araldico di TETTONI e SALADINI
(v. n. 56 nota).
30 - DE LUCA, Il Dottor Volgare, cit., libro III, cap. VI e seg. ove si
tratta largamente della nobiltà a proposito delle precedenze.
31 - DI CROLLALANZA, Enciclopedia araldica cavallercsca, voce «
Nobiltà », Pisa 1876-77.
32 - SABINI, L’ordinamento cit., pag. 8, 9.
33 - DI CARPEGNA, in Digesto Italiano, voce « Araldica »,
n. 16.
34 - STOLFI, op. cit., pag. 313.
35 - SOLMI, Storia del diritto italiano, 2° ediz., Milano 1918, pag.
772 e seg.
36 - SALVIOLI, op. cit., pag. 313.
37 - Si chiamava in diritto feudale mero (il più alto, il più
elevato) imperio il diritto di esercitare la giurisdizione criminale;
ogni altra giurisdizione era detta di misto imperio.
LEGISLAZIONE POSITIVA
Fondamento del potere del Re di
conferire titoli nobiliari - Varie teorie
Gli articoli 2 e 3 del R. D. 21 gennaio 1929, n. 61, che precedono il
testo del nuovo ordinamento nobiliare, stabiliscono:
ART. 2. - Sono abrogate le antiche leggi, disposizioni e consuetudini
che, con norme diverse nei diversi stati prima della unificazione politica,
regolavano la concessione, il riconoscimento, la successione, l’uso
e la perdita dei titoli e delle distinzioni nobiliari.
ART. 3. - Sono altresì abrogati tutti i nostri decreti e tutte
le disposizioni concernenti la concessione, il riconoscimento, l’uso
e la perdita dei titoli e delle distinzioni nobiliari, che siano contrarie
al presente ordinamento dello stato nobiliare italiano.
All’ART. 1. del nuovo ordinamento è detto fra l’altro:
«È attributo della sovrana prerogativa del Re: a) stabilire
norme giuridiche aventi forza di legge per l’acquisto, la successione,
l’uso e la perdita di titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari.
É da esaminare ora quale è il fondamento giuridico del potere
attribuito al Re sul conferimento dei titoli nobiliari.
In proposito vi sono varie opinioni nella dottrina e nella giurisprudenza.
Secondo alcuni autori, il fondamento si trova in una prerogativa della
Corona, ma vi è divergenza sul concetto di tale prerogativa, secondo
altri nel potere di autarchia o di autodeterminazione del Re, secondo
altri nella podestà regolamentare autonoma o indipendente, secondo
altri in una attribuzione di competenza fatta al Re dallo statuto.
La risoluzione della disputa non è teorica, ma ha importanza pratica,
poiché serve a risolvere la questione sollevata sulla illegittimità
dello statuto nobiliare del 1926, per fissare il limite entro il quale
può spaziare la Corona in materia nobiliare, per risolvere la questione
della esistenza o meno della R. Prerogativa affermata nello statuto nobiliare
del 1929, della legittimità o meno delle sanzioni sulla perdita
dei titoli nobiliari, contenute nello statuto stesso, nonché della
legittimità delle norme regolatrici del procedimento da seguirsi
nell’istruttoria e decisione dei ricorsi, istanze, atti di opposizione
presentati contro provvedimenti in materia nobiliare.
Esaminiamo separatamente le varie teorie.
Teoria della R. Prerogativa -
Concetto di prerogativa - Opinioni di scrittori - Impugnativa del R. D.
16 agosto 1926 n. 1489 e raffronto di detto Decreto con quello 21 gennaio
1929, n. 61
Bisogna anzitutto fissare il concetto di prerogativa, perché su
di esso non regna accordo negli scrittori. Seguendo lo Zanobini, che ebbe
a scriverne in epoca non sospetta1
, un primo significato in cui si usa la parola prerogativa si riferisce
alla posizione costituzionale della persona del Re e riguarda la condizione
speciale in cui il Re è collocato in forza di uno jus singulare,
che lo pone per molti aspetti fuori del diritto comune, ed ha lo scopo
di garantire al Re l’esercizio delle sue alte funzioni. In secondo
luogo si può parlare di prerogativa, anziché avuto riguardo
alla persona del Re, in relazione alla natura e ai caratteri di certe
sue funzioni. E qui aumenta la difficoltà per precisare che cosa
s’intenda per funzione di prerogativa ed atto di prerogativa della
Corona. Secondo la dottrina inglese, prerogativa sarebbe un modo tradizionale
di designare il potere discrezionale dell’esecutivo, ossia tutto
ciò che il Re e i suoi dipendenti possono fare senza aver bisogno
di ricorrere all’opera del parlamento, e ciò per il fatto
che i poteri della Corona inglese risultano per una parte determinati
dagli Acts del parlamento e per altra parte si presentano come una quota
irriducibile di diritto storico della monarchia assoluta, detta appunto
prerogativa, definita dal Dicey come il residuo in un’epoca qualsiasi
fra le mani del Re del potere discrezionale che possedeva all’origine2
. Siccome il carattere della discrezionalità si presentava frequentissimo
nell’attività amministrativa ordinaria, scrittori antichi
inglesi chiamarono funzione di prerogativa quella compiuta senza la prescrizione
di una legge, anzi talvolta contro le prescrizioni ordinarie di legge,
così, secondo lo Zanobini, si potrebbe dire che le funzioni di
prerogativa si contrappongono a quelle meramente esecutive di leggi preesistenti.
«Quando si parla di prerogative della Corona, dice il citato autore,
sentiamo senza rendercene perfetto conto che vogliamo trattare di funzioni
che essa esercita attualmente, non come capo del potere esecutivo, ma
come veramente investita della piena sovranità, investita particolarmente
della stessa funzione legislativa: perché si sente nella prerogativa
la permanenza nel regime attuale dei poteri che il Re possedeva nello
stato assoluto. Questi campi eccezionali, nei quali al Re sarebbe stata
lasciata la pienezza dei poteri sovrani, debbono secondo l’attuale
diritto, trovare fondamento in una espressa norma statutaria o in una
legge speciale. Così, per citare le materie più sicure nelle
quali lo statuto ha riconosciuto la prerogativa regia e nessuna legge
ha poi revocata, si pensi ai poteri che gli sono attribuiti in materia
ecclesiastica, particolarmente in materia beneficiaria3
e ai poteri riconosciutigli in materia di titoli nobiliari e di ordini
cavallereschi. La legge non è mai intervenuta a regolare questa
materia, e la volontà del Re è libera, sia nell’emanazione
di singoli provvedimenti sia nella formulazione di norme giuridiche riguardo
ad essi. Prerogative, invece, riconosciute in origine al Sovrano, ma limitate
in seguito con leggi formali del parlamento, sono quelle attinenti all’organizzazione
militare e all’organizzazione amministrativa dello stato»
(art. 5 e 6 dello statuto).
Esaminando lo statuto Albertino dal punto di vista storico si vede come
esso sia informato a quei principi di diritto pubblico dominanti nella
prima metà del secolo XIX che ebbero la loro maggiore e più
celebre formulazione nel preambolo del Beugnot alla carta costituzionale
francese di Re Luigi XVIII del 1814, il cui principio essenziale era la
conservazione della integrità, della plenitudo potestatis del monarca,
solo specificatamente limitata in determinate direzioni della costituzione.
Alla luce di questi principi si rileva, come ha messo in evidenza il Crosa4
, che le norme stabilite dagli art. 5, 18, 78 e 79 dello statuto contengono
delle vere e proprie prerogative regie, le quali si contrappongono per
la loro natura particolare alle varie altre attribuzioni devolute al Re
dallo stesso statuto, le quali si presentano come competenze organiche.
Il costituente subalpino, nella formulazione dello statuto, non fece distinzione
fra competenza e prerogativa, dato che queste distinzioni non esistevano
nella scienza di quel tempo, ragione per cui non se ne ha traccia nello
statuto.
Ma se ignota era la distinzione giuridica, non era ignota in quel tempo
la portata politica, la quale era stata e largamente chiarita nel preambolo
anzi detto, che ricordava che nello stesso interesse dei popoli, la corona
si riservava i suoi diritti e le sue prerogative. E così il costituente
subalpino, come quello francese, accanto alle varie competenze assegnate,
conservò e riservò al Re alcune attribuzioni in particolari
materie più propriamente attinenti alla dignità regia o
di particolare delicatezza, sottraendole alla competenza parlamentare,
attribuendo cioè vere e proprie prerogative nel significato classico
del diritto inglese.
E siccome era in quel tempo anche ignota la differenziazione formale degli
atti di volontà dello stato, il costituente non procedette a disciplinare
la forma degli atti che il Re avrebbe emanati per l’esercizio dei
suoi poteri di prerogativa. Allo stesso costituente era anche ignota la
conseguenza giuridica che ha la forma in cui si concretano gli atti di
volontà dello stato, per cui esso non stabilì costituzionalmente
per la formulazione degli atti di prerogativa una forma particolare, forse
ritenendo che potessero adoperarsi in questo campo le forme consuete di
legislazione regia.
Da questa confusa posizione iniziale della persistenza delle prerogative
regie e della forma di loro estrinsecazione derivò lo svolgimento
della costituzione italiana in senso prettamente democratico, senza che
la lettera dello statuto vi si opponesse, e per cui alcune delle prerogative
in senso vero e proprio vennero dagli scrittori considerate come attribuzioni
della Corona e, quindi sottoposte nella loro estrinsecazione ai limiti
normali cui soggiacciono gli atti di competenza regia, mentre altre prerogative
vennero intese nel senso di guarentigie speciali di diritto pubblico,
conferite dallo statuto e dalla legge al Re, a ciascuna delle Camere,
ai membri di esse, a quelli dell’ordine giudiziario, per assicurare
a ciascuno di detti organi una condizione giuridica speciale, che non
è la stessa di quella conferita dal diritto comune agli altri individui
ed agli altri pubblici ufficiali. Insomma sono chiamate prerogative le
speciali guarentigie che accompagnano certe pubbliche funzioni, ed esse
risultano contrapposte al concetto di privilegio, per il fatto che sono
istituite non per utilità privata delle persone che ne godono,
ma per la pubblica funzione che queste rivestono e proporzionalmente al
compito utile che nella vita statuale esse adempiono5.
Così sotto l’ispirazione dei principi democratici alcuni
costituzionalisti italiani parlano di prerogative nel senso poco innanzi
accennato, e non in quello classico inglese, ed altri considerano come
competenza assegnata al Re dallo statuto quelle che erano vere e proprie
prerogative in senso stretto.
Così il Racioppi e Brunelli, l’Orlando6
, il Romano7
, il Miceli8
, lo Orrei9
, il Presutti10
. Il Crosa, il Sabini11
chiamano le prerogative, in senso stretto, del Re, prerogative personali,
ovvero prerogative maiestatiche e comprendono fra esse quelle in materia
beneficiaria (art. 18 statuto), in materia di ordini cavallereschi (art.
78) e di titoli nobiliari (art. 79).
Il Ranelletti12
usa il termine prerogativa nel senso di diritti speciali concessi dalla
costituzione al Re per dargli dignità, prestigio ed indipendenza,
diritti inerenti all’ufficio e concessi nell’interesse dello
stesso ufficio. Fa però presente che la parola prerogativa è
anche impiegata nel nostro diritto per indicare la materia che lo statuto
attribuisce all’esclusiva competenza del Re (art. 18, 78, 79).
L’Arangio Ruiz13
, avvicinandosi alla concezione inglese, ritiene che la prerogativa regia,
oltre a concretarsi nell’assoluta inviolabilità del Re nel
disimpegno delle sue funzioni, ha la sua attiva esplicazione giuridica
in tutte le funzioni regie di alta discrezionalità, l’esercizio
delle quali, come quello che si svolge in suprema rappresentanza o tutela
dello stato, in tutela della società, si impone sugli organi parlamentari
o giurisdizionali.
Di fronte a questa disparità di opinioni, tendente però
a far tramontare, come è stato sopra detto, il concetto di prerogativa
nel senso inglese, in testi legislativi recenti troviamo l’impiego
del termine prerogativa, e cioè nelle leggi 24 dicembre 1925 n.
2263 sulle attribuzioni e prerogative del Capo del Governo e 9 dicembre
1928, n. 2693, sull’ordinamento e le attribuzioni del Gran Consiglio
del Fascismo. Sennonché, mentre negli art. 2, 7, 8, 9 della legge
del 1925 si specificano le prerogative del Capo del Governo nel significato
di speciali guarentigie che accompagnano la alta sua posizione di subordinato
soltanto alla Corona, nell’articolo 12 della legge del 1928 si dice
che sono considerate leggi costituzionali quelle concernenti: 1° la
successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona; 2°
le attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo.
Come si vede, in quest’ultima legge, mentre si usa il termine prerogativa
nel senso di speciali guarentigie spettanti al Capo del Governo, si afferma
chiaramente la esistenza di prerogative della Corona che si differenziano
dalle attribuzioni o competenze della Corona.
Inoltre si richiede il parere del Gran Consiglio del Fascismo sulle proposte
di legge, considerate di carattere costituzionale, fra le quali sono comprese
quelle concernenti le attribuzioni e le prerogative della Corona.
Né ciò è un caso fortuito, ma la conseguenza del
nuovo ordinamento costituzionale determinato dal Fascismo, il quale ha
stabilito l’equilibrio fra quelle che sono le competenze del parlamento
e quelle del potere esecutivo, eliminando il feticismo della legge formale
per cui tutto doveva essere regolato per mezzo di legge, ed ha restituito
in linea generale le attribuzioni della Corona a quelle che erano originariamente
previste dallo statuto. Ma una volta riconosciuto il concetto della prerogativa
regia e posto a fianco di esso quello delle attribuzioni del Sovrano,
ed affinché la prerogativa non sia un nome vano, non può
non darsi ad essa un contenuto che consenta al Sovrano di agire nelle
materie di sua spettanza con piena indipendenza dalle disposizioni statutarie,
e così nella materia nobiliare mediante l’emanazione di norme
giuridiche aventi forza di legge14
.
Sono da ritenere quindi influenzate dalla preoccupazione di stretto costituzionalismo
o dal concetto della onnipotenza parlamentare, ormai tramontata, le opinioni
di quegli scrittori, che anche dopo il nuovo ordinamento costituzionale
determinato dal Fascismo, ritengono che la potestà del Re nelle
materie rientranti nella prerogativa, e quindi in quella nobiliare, debba
essere esercitata secondo i principi dello statuto, non potendo la sua
competenza essere considerata come una continuazione della potestà
legislativa che egli aveva piena ed esclusiva nel regime assoluto e che
sarebbe stata da lui riservata nella concessione dello statuto. Fra la
monarchia assoluta e la situazione moderna, si dice, vi è di mezzo
lo statuto15
.
L’affermazione della prerogativa sovrana senza alcuna limitazione
della funzione legislativa in materia nobiliare si trova nelle decisioni
11 agosto 1927 del Consiglio di stato16
emesse in occasione della impugnativa per incostituzionalità del
R. Decreto 16 agosto 1926 n. 1489, il quale, è bene ricordarlo,
fu emanato come se fosse un atto di governo, udito il Consiglio dei ministri,
ed all’art. 1 così disponeva:
«Alle antiche disposizioni che con norme diverse nelle singole regioni
d’Italia regolano tuttora l’ordine delle successioni, riguardo
ai titoli ed attributi nobiliari, concessi dai sovrani degli antichi stati,
prima della unificazione politica, sono surrogate le disposizioni seguenti».
A proposito del suindicato R. Decreto 16 agosto 1926 fu osservato17
che non era legittima la facoltà del Re di emanare con sovrana
autorità lo statuto concernente i titoli di nobiltà in base
all’art. 79 dello statuto, dato che tale articolo dispone solamente
che i titoli nobiliari sono mantenuti per coloro che vi hanno diritto
e che il Re può conferirne dei nuovi. Fu anche osservato18
che non sarebbe rispondente al nostro sistema costituzionale l’opinione
per la quale con le istituzioni costituzionali sussistano nel Re diritti
maiestatici, come del pari non sarebbe conforme al fondamento storico
ed al concetto giuridico di un sistema giuridico costituzionale in genere,
l’opinione che lo statuto debba essere interpretato ed integrato
con riferimento alla tradizione.
La competenza regia si esaurisce col semplice conferimento del titolo,
essa può nello stesso momento in cui si conferisce il titolo dettare
norme circa l’uso, la successione, la perdita di esso, cioè
può disciplinare la vita del diritto conferito, può anche
rinnovare titoli estinti per mancanza di successori, giacché in
tal caso si tratta formalmente di un conferimento, può autorizzare
l’accettazione di titoli e decorazioni di potenze estere, e ciò
per l’art. 80 dello Statuto, ma non spetta alla competenza regia
la facoltà di emanare statuti e norme concernenti i titoli nobiliari
già conferiti ed esistenti, perché, là dove la costituzione
volle attribuire un tal diritto al Re, lo dichiarò espressamente
come fece nell’art. 78 dello statuto, riconoscendo il diritto di
istituire nuovi ordini cavallereschi e di prescriverne gli statuti19
.
Fu infine rilevato20
che il Re non aveva la facoltà di modificare le norme regolatrici
dei diritti nobiliari conferiti prima dello statuto del regno, perché
rispetto ad essi non può esplicarsi la potestà regia, in
quanto sono dichiarati mantenuti dall’art. 79 dello statuto a coloro
che vi hanno diritto, e ciò significa non solo a quelli che ne
erano investiti al momento della promulgazione dello statuto, ma anche
a coloro che in base agli statuti esistenti in quel momento fossero chiamati
alla successione.
Di conseguenza qualunque riforma si fosse voluta introdurre relativamente
ai diritti sorgenti dai titoli nobiliari mantenuti dallo statuto, avrebbe
dovuto essere effettuata mediante l’intervento del potere legislativo
o, se ricorressero gli estremi voluti dall’art. 3 della legge 31
gennaio 1926, n. 100, dal potere esecutivo in funzione e come anticipazione
di quello, ma non può la potestà regia legittimamente manifestarsi
oltre i limiti assegnatile dalla norma fondamentale.
Nemmeno era da ritenere che la potestà di dettare norme intorno
al conferimento ed agli effetti dei titoli nobiliari conferiti e mantenuti
si possa fondare su di una norma consuetudinaria, dato che, se pure si
riconosca quasi unanimemente la consuetudine come fonte di diritto Pubblico,
si discute se essa acquisti la qualità di fonte del diritto in
quanto dalla legge è riconosciuta tale, o se di siffatto riconoscimento
non vi sia bisogno; e specialmente vi è dissenso sui limiti che
essa incontra di fronte al diritto scritto.
In contrapposto a queste osservazioni, il Consiglio di stato con le sopracitate
decisioni ebbe a stabilire che spetta al Re nell’esercizio della
R. Prerogativa riservata nell’art. 79 dello statuto del Regno, stabilire
con potere esclusivo, non solo sulla istituzione e sul conferimento dei
nuovi titoli di nobiltà, ma altresì sul regolamento della
trasmissione successoria di quelli già esistenti e mantenuti, modificando,
secondo criteri insindacabili, le norme di legge o le consuetudini precedentemente
osservate. Il potere riservato alla R. Prerogativa in questa materia si
esplica coi decreti reali aventi autorità costituzionale pari a
quella delle leggi.
« … Per interpretare l’art. 79 dello statuto che dichiara
che i titoli di nobiltà sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto
e che il Re può conferirne dei nuovi, bisogna riportarsi all’epoca
di promulgazione dello statuto. Ed allora si vede che l’articolo
stesso deve intendersi come affermazione di valore più storico
che giuridico, dato che con l’art. 24 fu proclamata l’eguaglianza
di tutti i cittadini, qualunque sia il loro titolo o grado dinanzi alla
legge.
L’art. 79 non fa che riconoscere il passato e promettere il futuro,
ma questi due termini lasciavano integro il potere regio in questa materia
che è per sua natura strettamente ed esclusivamente legata al Sovrano.
É poi principio noto di diritto pubblico che lo statuto in genere
va interpretato e integrato con riferimento alle tradizioni e non già
per esegesi letterale.
« Il mantenere la nobiltà come elemento sociale non significò
né che le norme dovessero rimanere consolidate, né che il
Re fosse stato spogliato della sua competenza regolamentare in proposito,
né che avesse rinunziato a questa sua competenza con la promulgazione
dello statuto. L’art. 79 non dichiara, né implica alcuna
rinuncia. Quando si è trattato di stabilire rinunce a qualche diritto
mai estatico lo si è espressamente detto, come ad esempio nella
legge 13 maggio 1871 sulle guarentigie.
D’altra parte il riconoscere al Re la potestà di concedere
nuovi titoli era ammettere che il Re dovesse continuare ad essere la fonte
degli onori.
È così connaturata l’idea della nobiltà all’essenza
della sovranità, che la nobiltà unicamente dalla sovranità,
come riceve la vita, così riceve la norma. Esistono limitazioni
a questo potere regio, risultanti dai principi basilari del nostro ordinamento
costituzionale: così il Re non potrebbe conferire privilegi, accordare
diritti, esonerare da doveri, a favore degli investiti di titoli nobiliari,
non potrebbe sanzionare misure repressive contro gli usurpatori, perché
è compito della legge penale, non potrebbe stabilire imposte e
tasse che non siano semplici diritti di cancelleria, perché ciò
è attribuzione delle Camere. Ma, col rispetto di questi limiti,
il Re è sovrano nella regola, come è sovrano nella concessione
in materia che è tutta sua propria, che è diretta derivazione
della sua essenza e del suo lustro.
Teoricamente l’emanazione delle norme regolatrici della materia
nobiliare potrebbe esser fatta dal potere legislativo, ma qualora il monarca
non credesse di far uso della sua prerogativa. Ma praticamente egli si
avvale dell’esercizio della potestà di Regia Prerogativa,
il cui carattere non viene tolto dal fatto che il R. Decreto 16 agosto
1926 porta due formule «Udito il Consiglio dei ministri» e
«Sulla proposta del Capo del governo », dato che queste formule
sono determinate dal principio della irresponsabilità costituzionale
del Re.
L’atto con cui il Re ha emanato il R. Decreto 16 agosto 1926 non
è un atto amministrativo da lui compiuto nell’esercizio di
Capo del potere esecutivo, ma un atto da lui compiuto come soggetto di
autarchia, nell’esercizio della sua alta prerogativa di sovrano,
che ha forza di legge, in quanto il potere esercitato in virtù
di Reale Prerogativa è potere statuente che coincide, per l’autorità
e l’efficacia giuridica, con quello del legislatore. Di tal che
conclude il Consiglio di stato, non solo non ricorrono gli estremi del
provvedimento amministrativo per l’ammissibilità del ricorso
giurisdizionale amministrativo, ma anche manca la possibilità di
esperimentare qualsiasi rimedio contenzioso, dato che, quale legge, il
R. Decreto in questione poteva come ha fatto, regolare l’ordine
di rapporti che ne sono l’oggetto, restringere l’efficacia
delle avvenute concessioni, nell’intento di pubblico interesse,
di attuare i nuovi principi fondamentali circa la trasmissibilità
ereditaria dei titoli ereditari, col rispetto delle situazioni esistenti
».
Conforme a questa decisione si è dichiarato anche il Mortara, il
quale ha affermato21
che il potere esercitato in virtù di Regia Prerogativa è
potere statuente che coincide, per l’autorità e per l’efficacia
giuridica, con quello del legislatore.
La esplicita affermazione della R. Prerogativa si trova nell’art.
1 dell’ordinamento dello stato nobiliare approvato con R. Decreto
21 gennaio 1929, n. 61 sopracitato (vedi n. 23), emanato su proposta del
Capo del Governo ed udita soltanto la Consulta Araldica. In proposito
la relazione del Capo del Governo al Re così si esprime:
«I capisaldi del nuovo ordinamento dello stato nobiliare italiano
sono: 1) La definizione della Prerogativa della Maestà Vostra in
tema di diritto nobiliare. La genesi dell’evoluzione storica della
nobiltà e lo spirito degli artt. 79 e 80 dello statuto fondamentale
del Regno non lasciano infatti dubbio per sanzionare che il Re è
l’unico, assoluto, insindacabile legislatore. La Prerogativa Regia,
in materia nobiliare è sottratta, per conseguenza, alle discussioni
parlamentari; e il decreto emanato dal Re, sulla proposta del Capo del
Governo, Primo Ministro Segretario di stato, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del Regno e inserto nella raccolta ufficiale delle leggi e decreti,
è legge dello stato». Sono state mosse dal Comba22
critiche a detto R. D.
È stato detto che non poteva spettare al Re, in base all’art.
79 dello statuto, la potestà di regolare la materia nobiliare nell’ampiezza
contenuta nell’art. 1 dell’ordinamento 1929, occorrendo l’intervento
del potere legislativo, il quale modifichi la competenza regia, assegnandole
quei più ampi confini secondo il contenuto dell’articolo
stesso. Inoltre, per l’ordinamento nobiliare del 1929, perché
emanato quando era già in vigore la legge 9 dicembre 1928, n. 2693
sul Gran Consiglio del Fascismo, avrebbe dovuto seguirsi la procedura
propria delle leggi di carattere costituzionale.
Anche altre norme dell’ordinamento, in quanto modificative delle
attribuzioni e prerogative del Re, avrebbero dovuto essere sottoposte
alla speciale procedura delle leggi di carattere costituzionale, altre
avrebbero dovuto essere emanate dal Potere legislativo, come quella contenente
la sanzione della perdita del titolo e attributi nobiliari a coloro che
si rendono rei di determinati delitti (art. 41-45), dato che va oltre
i limiti della potestà regia, la quale può provvedere solo
al conferimento del titolo e non alla perdita, mentre in questo caso si
dispone di diritti che, una volta acquisiti, non possono venire sottratti
al titolare se non in virtù di una legge. Così anche dicasi
per le norme disciplinatrici del procedimento da seguirsi nella istruzione
e decisione dei ricorsi, istanze, atti di opposizione presentati in materia
nobiliare, giacché in questo caso trattasi di regolare il diritto
subbiettivo del titolare di una pretesa giuridica, a farla valere, ed
il modo di esercizio dello stesso, e quindi deve intervenire il potere
legislativo.
Ma tutte le anzidette osservazioni partono dalla esclusione del concetto
della Regia Prerogativa, e quindi dalla non esatta interpretazione dell’art.
12 della legge sul Gran Consiglio per cui sono da ritenere, dopo quanto
sopra è stato detto, infondate.
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1 - ZANOBINI, I poteri regi nel campo del diritto privato,
Torino 1917, pag. 65 e seg.
2 - CROSA, La monarchia nel diritto pubblico italiano, Torino 1922, pag.
24 e seg.
3 - Regolata ora dal Concordato con la Santa Sede approvato con legge
27-5-1929, n. 810.
4 - CROSA, Sulla natura giuridica dei regolamenti indipendenti, Pavia
1928, pag. 19, e La monarchia cit., pag. 109.
5 - RACIOPPI e BRUNELLI, Commento allo Statuto, Torino 1909, vol. I, pag.
214-215; vol. III, pag. 706 e seg. - CROSA, La Monarchia cit., pag. 25.
6 - Principi di diritto costituzionale, Firenze 1905, pag. 196, n. 260.
7 - Corso di diritto costituzionale, 4a ediz., Padova 1933, pag. 174.
8 -Principi di diritto costituzionale, 2a ediz., Milano 1913, pag. 545.
9 - Il diritto costituzionale e lo stato giuridico, Roma 1927, pag. 362.
10 - Istituzioni di diritto costituzionale, Napoli 1920, pag. 245, 246,
247.
11 - SABINI, La prerogativa regia e i diritti nobiliari in « Saggi
di diritto pubblico », Bari 1915, pag. 35 e seg. - CROSA, La monarchia
cit., pag. 176, 173.
12 - Istituzioni di diritto pubblico, 3a ed., Padova 1932, pag. 179.
13 - Istituzioni di diritto costituzionale, Torino 1913, pag. 553.
14 - Un rafforzamento della prerogativa sovrana si riscontra nel R. Decreto
27 luglio 1934, n. 1332, col quale sono determinati i Decreti Reali esenti
dal visto e dalla registrazione della Corte dei Conti. - Fra essi sono
compresi quelli di nomina del Commissario del Re presso la Consulta Araldica,
di istituzione di ordini cavallereschi e di approvazione e modificazione
dei loro statuti, di nomina dei componenti le giunte o i consigli degli
ordini predetti, quelli inerenti alle norme regolamentari relative agli
ordini stessi e ai regolamenti per l’amministrazione delle loro
dotazioni, quelli di conferimento e revoche di onorificenze cavalleresche,
di medaglie, di diplomi e di altri segni di distinzione onorifica, a cui
non siano annessi pensioni o assegni a carico del bilancio dello stato,
di autorizzazione ad accettare onorificenze da parte di Potenze estere.
15 -Comba, Della potestà regolamentare indipendente nei confronti
dello stato nobiliare, Torino 1929, pag. 4. - ORREI, op. cit., pag. 368.
- SABINI, L’ordinamento dello stato nobiliare cit., pag. 40.
16 - Caracciolo Carafa c. Presidenza del Consiglio dei Ministri, CARACCIOLO
DI SANTERANO in Giur. It., 1927, III, 230; Foro It., 1927, III, 129; Riv.
Dir. Pubbl., 1927, II, 441; 11 agosto 1927, Biondi Morra c. Presidenza
del Consiglio dei Ministri; 11 agosto 1927, Caravita in Telesio c. Presidenza
del Consiglio dei Ministri (inedite). Vedi anche PIANO MARTINUZZI, Cod.
cit., pag. 262, n. 17.
17 - ORREI, op cit., pag. 368.
18 - ORREI, op. cit., pag. 366.
19 - COMBA, op. cit., pag. 28-29.
20 - COMBA, op. cit., pag. 29-30.
21 - Giurisp. It., 1927, III, 231.
22 - COMBA, op. cit., pag. 40.
Teoria del potere di autarchia
o di autodecisione del Re
Il Romano23
in passato ebbe ad esprimere l’opinione che il Re allorquando conferisce
titoli nobiliari o cavallereschi è da considerarsi come soggetto
di autarchia, nel senso che è soggetto di alcune potestà
pubbliche che esercita in nome proprio, e quindi non come organo dello
stato, però anche nell’interesse di quest’ultimo. Questa
teoria, che ora è abbandonata dal Romano (v. n. 27), è stata
oggetto di critiche da parte del Comba24
. Alla teoria del Romano si avvicina il Chimienti25
che però parla di atti di autodeterminazione del Re, coi quali
egli non provvede né ad interessi propri né ad interessi
dello stato, e che comprendono alcuni di quelli che il Re compie come
capo della famiglia reale, quelli di cui negli art. 78, 79, 80 dello statuto.
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23 - ROMANO, Corso di diritto costituzionale, Padova 1926,
pag. 154.
24 - Comba, op. cit., pag. 6.
25 - CHIMIENTI, Manuale di diritto costituzionale fascista, Torino 1933,
pag. 175-176.
Teoria della facoltà regolamentare
Secondo questa teoria il fondamento del potere regio in materia nobiliare
rientrerebbe nella potestà regolamentare indipendente del governo
(Cammeo, Borsi, Crosa, Ragnisco)26
. Si fa però da alcuni autori, e con diversi criteri, la distinzione
fra i regolamenti indipendenti e quelli autonomi, distinzione non facile,
data la poca chiarezza dei precedenti parlamentari, e si discute altresì
se siano compresi e quindi anche regolati dalle disposizioni di cui all’art.
1, n. 2, della legge 31 gennaio 1926, n. 100, i regolamenti relativi alla
Regia Prerogativa. La distinzione importa l’affermazione o meno
della natura o no legislativa, non solo materiale, ma anche formale, di
detti regolamenti, inquantoché essi possono pure derogare a disposizioni
legislative. Ritengono che i regolamenti in materia nobiliare non siano
previsti dalla legge del 1926 il Crosa, il Ragnisco, il Verde27
; ritengono invece che siano regolati dalla legge predetta il Borsi, il
Saltelli28
. Anche il Sabini29
ritiene che la potestà del Sovrano si fondi sul potere di fare
regolamenti autonomi (detti dagli altri autori indipendenti) e di avere
detti regolamenti forza di legge.
Sennonché egli, come aveva fatto a proposito del R. D. 16 agosto
1926 sullo statuto nobiliare, opina che non si possa la potestà
legislativa del Sovrano estendere fino all’abrogazione di quelle
norme precedenti su cui si fondano i diritti legittimamente acquisiti,
in base all’art. 79 parte 2a dello statuto, che dichiara «mantenuti»
i titoli esistenti a favore di coloro che ne «hanno diritto ».
Disposizioni in cui il nuovo ordinamento del 1929 risulterebbe incostituzionale,
sarebbero quelle contenute nell’art. 70, pel quale i titoli pervenuti
alle femmine nubili prima del 7 settembre 1926 passano, dal giorno del
loro matrimonio, all’agnazione maschile della famiglia di provenienza,
negli art. 41, 42, 45, 46 relativi alla decadenza di diritto, alla privazione
per decreto reale, alla sospensione, delle distinzioni nobiliari. (v.
n. 83)
Ma tali obbiezioni non sono state tenute in conto neanche dalla Cassazione,
la quale con sentenza 9 maggio 1930, Treves De Bonfili - Treves (Giur.
It., 1930, I, 776)30
ha affermato che «le disposizioni dei RR. DD. 16 agosto 1926 e 21
gennaio 1929 non soltanto hanno abrogato le leggi generali e le consuetudini
in materia di successione nei titoli nobiliari, ma hanno anche sostituito
le proprie norme a quelle contenute nei singoli atti sovrani di concessione,
facendo soltanto eccezione per i provvedimenti emanati dopo l’unificazione
del Regno.
«Tali disposizioni peraltro non hanno efficacia retroattiva circa
le successioni apertesi anteriormente ai predetti decreti e relativamente
ai diritti divenuti perfetti con l’apertura della successione dell’ultimo
investito».
Alla teoria della facoltà regolamentare sembra aderire il Gorino31
.
Il Comba32
allo scopo di pervenire alla incostituzionalità dello statuto nobiliare
del 1929 cerca di distinguere fra regolamenti autonomi, fondati genericamente
su poteri discrezionali del Re di portata ampia, e regolamenti autonomi
fondati su speciali norme dello statuto, fra le quali rientra l’art.
79. Di tal che i regolamenti fondati su speciali norme dello statuto non
sarebbero regolati dalla legge 31 gennaio 1926, n. 100, ma sottostarebbero
alle norme ordinarie dello statuto.
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26 - CAMMEO, Della Manifestazione di volontà dello
Stato, in Orlando, « Tratt. di Dir. Amm. », vol. III, pag.
169, 170; BORSI, Appunti di Dir. Amm., Padova 1926, pag. 188; CROSA, Sulla
natura giuridica citata, pag. 31; RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926,
n. 100, ed il Consiglio di Stato, Padova 1931, pag. 20-29.
27 - VERDE, La legge 21 gennaio 1926, n. 100, e le prerogative della Corona,
« Foro Amm. », 1927, IV, 108.
28 - SALTELLI, Potere esecutivo e norme giuridiche, Roma 1926, pag. 104-105.
6.
SABINI, L’ordin. cit., pag. 43 e seg. ROMANO, Corso di diritto costituzionale,
Padova 1926, pag. 154.
30 - PIANO MARTINUZZI, Codice Nobiliare, pag. 276, n. 126.
31 - GORINO, op. cit., pag. 45.
32 - COMBA, op. cit., pag. 9 e seg.
Teoria della competenza istituzionale
esplicantesi mediante decreto legislativo.
Il Ranelletti, modificando la sua precedente opinione, che il fondamento
della potestà regia in materia nobiliare fosse basato sul potere
regolamentare indipendente, non regolato dalla legge 31 gennaio 1926,
n. 10033
, ritiene che detta potestà derivi da una attribuzione di competenza
fatta direttamente dallo statuto e per cui il Re ha nella materia di cui
si tratta la potestà legislativa materiale e formale, la quale
si esplica mediante decreti legislativi. Questi decreti hanno valore di
legge e possono quindi modificare o abrogare leggi esistenti, e non possono
a loro volta essere modificati o abrogati che da una legge o da un altro
atto avente forza di legge. Ma se la materia di cui si tratta venisse
regolata da legge, allora la potestà legislativa del Re verrebbe
a cessare34
. Il Ranelletti esclude che questa competenza possa considerarsi come
una continuazione della potestà legislativa che il Re aveva piena
ed esclusiva nel regime assoluto precedente, e che sarebbe stata da lui
riservata nella concessione dello statuto. La monarchia italiana non è
monarchia limitata, ma costituzionale. Il fondamento perciò di
questa competenza del Re è nello statuto, ed egli deve esercitare
queste attribuzioni secondo i principi dello statuto.
Il Romano35
, modificando la sua precedente opinione sovraesposta, ritiene che al
Re sia attribuita in modo normale e permanente la competenza di emanare
norme giuridiche aventi forza di legge, in materia ad esso riservate,
nelle quali norme rientrano quelle che regolano l’acquisto, la successione
dei titoli nobiliari.
Alla opinione del Ranelletti aderiscono il D’Alessio36
ed il Vitta37
.
Mediante questa teoria vengono eliminati i limiti che importava la teoria
fondata sulla potestà regolamentare, e per cui il Sovrano non avrebbe
potuto emanare norme nuove che modificassero il diritto esistente, il
che importava il riconoscimento di alcune delle obbiezioni sollevate dal
Comba.
Ma anche questa teoria, che cerca di adattare la dottrina alla legislazione,
non risponde completamente alla lettera dell’ordinamento nobiliare
del 1929, il quale parla esplicitamente di potestà della R. Prerogativa,
ed indica le forme in cui si esplica, né tiene conto delle affermazioni
contenute nella relazione del capo del Governo, che il Sovrano è
l’unico, assoluto, insindacabile legislatore in materia nobiliare,
la quale è sottratta alle discussioni parlamentari.
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33 - RANELLETTI, La potestà
legislativa del governo in «Riv. di Diritto Pubblico », 1926,
pag. 169.
34 - RANELLETTI, Istituzioni di diritto pubblico cit., pag. 340, 341,
342, 353, 355 nota 5.
35 - ROMANO, Corso di diritto costituzionale, 4a ediz., Padova 1933, pag.
281.
36 - D’ALESSIO, Istituzioni di diritto amministrativo, vol. I, Torino
1932, pag. 73.
37 - VITTA, Diritto amministrativo, Torino 1933, pag. 45, 55.
Attributi della R. Prerogativa
L’art. 1. dell’ordinamento nobiliare con le modifiche contenute
nel R. D. 10 luglio 1930, n. 974, fissa le attribuzioni della Prerogativa
Sovrana. Esso così suona:
« É attribuito alla Sovrana Prerogativa del Re: a) stabilire
norme giuridiche aventi forza di legge per l’acquisto, la successione,
l’uso e la perdita di titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari;
b) concedere nuovi titoli, qualifiche e stemmi nobiliari, rinnovare titoli
e predicati estinti per mancanza di chiamati alla successione, sanare
le lacune e le deficienze nella prova di antiche concessioni o nel passaggio
dei relativi titoli e predicati;
c) autorizzare l’accettazione di titoli, predicati e qualifiche
nobiliari concessi a cittadini italiani da potenze estere, e l’uso
di titoli pontifici appoggiati sul cognome o a predicati del territorio
della Città del Vaticano o ad altri purché puramente onorifici
concessi a cittadini italiani;
d) decretare la perdita delle distinzioni nobiliari o del diritto a succedervi
o la sospensione dal loro uso ».
Dopo quanto è stato detto a proposito della R. Prerogativa è
facile rilevare come il Re in base all’art. 1 suindicato è
in materia nobiliare l’unica fonte di diritto obbiettivo (art. 1,
lett. a), in quanto può emanare norme giuridiche regolanti la materia
ed aventi forza di legge. Cesserebbe di essere tale facoltà Prerogativa
Sovrana, ove si ammettesse che possa il potere legislativo avocare a sé
la facoltà di legiferare in proposito.
Circa il modo di estrinsecazione di questa facoltà legislativa
del Re l’art. 2 stabilisce che le norme giuridiche di legislazione
nobiliare sono emanate mediante Decreti Reali, controfirmati dal Capo
del Governo, Primo Ministro Segretario di stato. Esse sono pubblicate
nella Gazzetta ufficiale ed inserite nella raccolta ufficiale delle leggi
e decreti del regno.
Inoltre il Re è fonte di diritti subbiettivi in favore dei singoli
in base all’ art. 1 lett. b) c) d), ma i diritti non sorgono fino
a quando l’atto sovrano non è perfetto, per cui i singoli
non possono ricorrere o agire avanti all’autorità giudiziaria
nel caso di diniego o nel caso che l’atto sovrano non divenga perfetto.
Quando invece un diritto nei singoli sia sorto, in conseguenza dell’atto
sovrano perfetto, esso può formare oggetto di ricorso giurisdizionale
sia da parte del titolare, sia da parte dei terzi che si ritengano lesi,
come meglio sarà detto in seguito (v. n. 120).
Titoli, trattamenti e stemmi della
Famiglia Reale
Circa i titoli, il trattamento e gli stemmi della famiglia reale, essi
sono regolati, giusta l’art. 3 dell’ordinamento, dal decreto
reale 1 gennaio 1890 e dalle successive reali disposizioni in materia,
che sono riportate in seguito.
Mantenimento ed acquisto di titoli,
predicati, qualifiche e stemmi
L’art. 4 dell’ordinamento, ricollegandosi all’art. 79
dello statuto del Regno stabilisce che i titoli, i predicati, le qualifiche
e gli stemmi nobiliari sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto in
conformità delle norme vigenti; e si acquistano o per successione
o per nuova concessione del Re.
Si ha con questo articolo da un lato l’affermazione generica del
riconoscimento dei titoli, predicati, qualifiche e stemmi di cui sono
in possesso gli attuali investiti in virtù delle norme vigenti,
e si stabilisce dall’altro che gli ulteriori acquisti possono aver
luogo soltanto o per nuova concessione del Re o per successione.
Questi concetti trovano esplicazione nello stesso ordinamento con relative
modificazioni, nelle norme generali per la concessione, il riconoscimento,
l’uso e la perdita delle distinzioni nobiliari (art. 13 a 49), nelle
norme sul trattamento e le qualifiche nobiliari (art. 50 a 52), nello
statuto delle successioni ai titoli ed attributi nobiliari (art. 53 a
68).
Titoli ammessi nel Regno
Giusta l’art. 5 dell’ordinamento sono ammessi nel Regno i
titoli di: Principe e Duca, Marchese, Conte, Visconte, Barone, Signore,
Patrizio, Cavaliere ereditario e Nobile, quest’ultimo è comune
agli insigniti di ogni altro titolo.
In rapporto alla precedente legislazione è da rilevare che i titoli
di Principe e di Duca sono considerati alla pari38
, non essendo stata accolta la proposta contenuta nel progetto
di ordinamento del 1928 che la precedenza fra i due pari grado sarebbe
stata determinata dalla data di concessione del titolo.
Inoltre sono compresi quelli di Visconte, di origine inglese e francese,
e di Signore, ambidue finora riconosciuti o rinnovati.
Esaminiamo separatamente detti titoli39
.
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38 - Nella relazione alla Consulta
Araldica del Biscaro in Boll. Uff. della Consulta Araldica, n. 40, febb.
1929, pag. 39-51, è affermato che la proposta di equiparazione
dei due titoli è dovuta alla considerazione che nella storia, la
superiorità di ciascuno di essi si alterna secondo i tempi e gli
stati, con l’altro, senza che si possa accertare una effettiva preminenza
del titolo di principe su quello di duca.
39 - STOLFI, op. cit., pag. 315 e seg.; SABINI, L’ordinamento cit.,
pag. 58 e seg.
Titolo di Principe
Nell’epoca romana troviamo indicato il nome di Princeps Senatus
per indicare il primo per dignità tra i senatori, ed Augusto, allorché
riunì in sé tutte le dignità repubblicane, assunse
il titolo di Princeps.
I successivi imperatori romani continuarono a chiamarsi Princeps (es.
Princeps Optimus fu detto Traiano), e la qualifica di Imperator servì
a designare la potestà di comando degli eserciti.
Nel medio evo, nel periodo eroico del feudalesimo, la parola Princeps
era soltanto un epiteto che comprendeva i vassalli maggiori (Duchi, Conti,
Marchesi, Arcivescovi, Vescovi, Abati, Abatesse) in contrapposto ai vassalli
minori, chiamati barones. Nell’Italia meridionale, invece,
i vassalli maggiori si chiamavano barones majores, ed
i minori barones minores. In seguito la parola Princeps
diventò un titolo, dapprima senza enunciazione della terra su cui
si esercitava la sovranità, di poi con questa indicazione, ed alcuni
ducati divennero principati. Non è esatto quindi che, come da alcuno
si ritiene, il titolo di Principe fosse riservato ai membri delle famiglie
sovrane, poiché invece essi allora assumevano il titolo di conte,
ed in alcuni stati il Principe Ereditario assumeva ed assume il titolo
di Duca (Duca di Calabria40
nel Regno di Napoli, Duca di Brabante nel Belgio). In altri stati (Italia,
Inghilterra, Spagna, Olanda) all’erede della Corona è attribuito
per tradizione il titolo di Principe (di Piemonte, di Galles, delle Asturie,
d’Orange). Il Gran Maestro del Sovrano Ordine Militare di Malta
gode in Italia, in base all’art. 51 dell’ordinamento, il titolo
di Principe (v. n. 45). In Germania l’erede della Corona si chiamava
Kronprinz (principe della Corona).
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40 - Il titolo di Duca di Calabria dei Borboni di Napoli
fa ricordare che esso è attualmente un titolo di pretensione. Sono
chiamati titoli di pretensione quelli di stati sovrani, o feudali portati,
pur non possedendo più, per causa di forza maggiore i relativi
stati, o da un ex-sovrano di detti stati o da un capo di casa sovrana
o ex-sovrana che possedeva gli stati stessi e dai relativi discendenti.
I titoli di pretensione non sono ritenuti sottoposti alle norme nobiliari
vigenti sul territorio cui essi si riferiscono. I titoli di pretensione
delle Case Regnanti o ex-Regnanti in Italia sono: a) Casa Regnante di
Savoia: Titoli Sovrani: Re di Cipro, di Gerusalemme e di Armenia; Duca
di Savoia; Titoli feudali: Duca di Chiablese, Duca di Carignano d’Ivoy;
Marchese di Lanslebourg; Conte di Moriana; Conte di Ginevra; Conte di
Soissons; Alto Signore di Monaco e di Mentone. b) Casa ex-Regnante d’Austria:
Titoli Sovrani: Granduca di Toscana; Duca di Modena, Reggio, Guastalla,
Mirandola, Massa Carrara; Duca di Parma e Piacenza e Guastalla; Titoli
feudali: Principe di Trento, Duca del Friuli; Conte Principesco di Gorizia;
Signore di Trieste. c) Casa ex-Regnante di Borbone Linea di Napoli: Titoli
feudali: Duca di Calabria. I titoli di Conte di Caserta, di Trani, di
Trapani, di Girgenti, di Aquila, di Bari, di Siracnsa, di Caltagirone,
di Castrogiovanni, di Lucera, di Milazzo, secondo alcuni, sono titoli
feudali, secondo altri appartengono alla specie dei titoli nobiliari semplici.
d) Casa ex~Regnante di Borbone Linea di Parma. Titoli Sovrani: Duca di
Parma e Piacenza. Titolo nobiliare: Conte di Bardi. Vedi B. d’Anjou:
Titoli di pretensione, e Baviera: A proposito dei titoli di pretensione
in Riv. Aral., 1932, 161, 231.
Titoli di Principe Reale Ereditario,
di Principe Reale, di Principe del Sangue
In base al R. Decreto 1 gennaio 1890 che regola i titoli e gli stemmi
della Famiglia Reale41
il figlio primogenito del Re ha la qualifica di Principe Reale Ereditario
ed è insignito dal Re di un titolo e predicato nobiliare, che per
quello attuale è di Principe di Piemonte. La di lui moglie ha la
qualità di Principessa Reale e porta il titolo e predicato nobiliare
del Principe suo consorte.
Gli altri figli del Re ed i figli del Principe Ereditario hanno la qualità
di Principi Reali e sono appannaggiati dal Re con un titolo e predicato
nobiliare trasmissibile ai Principi loro discendenti, legittimi, naturali
e riconosciuti, maschi da maschi, in linea e per ordine di primogenitura.
Le figlie del Re e quelle del Principe Reale Ereditario hanno la qualità
di Principesse reali.
I nepoti del Re, figli del Principe Reale Ereditario di ambo i sessi,
hanno la qualità di Principi e di Principesse Reali col predicato
di Savoia e l’aggiunta di quello nobiliare del loro genitore.
I nepoti del Re, figli di Principe fratello e figli e discendenti dai
nepoti del Re e del Principe Reale Ereditario di ambo i sessi, hanno la
qualità di Principe e Principesse del Sangue col predicato di Savoia
e l’aggiunta di quello nobiliare della propria linea.
Le consorti dei Principi della Reale Famiglia assumono la qualità
ed il titolo del Principe marito.
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41 - Non è pacifico il significato da attribuirsi
alla parola Famglia Reale ai fini delle disposizioni speciali ad essa
riferite. Secondo taluni (RACIOPPI e BRUNELLI, op. cit., vol. I, pag.
621) essa comprende i legittimi discendenti dal reale capostipite entro
il 10° grado di parentela ai sensi dell’art. 48 del codice civile;
e secondo altri (ROMANO, Corso di diritto costituzionale cit., pagina
179) essa comprende il complesso delle persone legate da parentela col
Re, anche oltre il decimo grado e delle consorti di tali persone, esclusi
i discendenti dalle donne che non siano anche discendenti da membri della
famiglia reale. Chiamasi famiglia regnante il complesso del Re, della
Regina e dei loro discendenti e cioè il Principe Ereditario, i
Principi e le Principesse reali. Principi e Principesse del sangue reale
sono tutti gli altri componenti della famiglia reale, ma anche questi
sono talvolta dalle leggi designati Principi e Principesse reali.
Titolo di Duca (In nota: I titoli
di pretensione)
Presso i Longobardi i duces, ducones erano gli antichi capi popolari che
governavano in nome del Re una circoscrizione, e nei primi tempi del feudalesimo
il Duca veniva immediatamente dopo il Sovrano, in nome del quale direttamente
o per mezzo dei conti governava una provincia. Da carica personale il
titolo di Duca si trasformò in titolo ereditario, e fu assunto
anche da Sovrani, come Roberto il Guiscardo che si chiamò Duca
di Puglia e di Calabria, titolo quest’ultimo assunto dai Principi
Ereditari delle due Sicilie.
In Germania i Duchi si chiamavano Elettori perché eleggevano l’Imperatore.
Era anche in uso in Germania, in Austria ed in Russia il titolo di arciduca
e di granduca, per i membri delle case regnanti, ma senza indicazione
di predicato feudale. Il primo titolo di Duca dopo l’unità
d’Italia fu quello concesso nel 1861 al generale Cialdini col predicato
di Gaeta, in ricordo della espugnazione di quella piazzaforte, ultimo
rifugio dei Borboni.
Titolo di Marchese
Il titolo ha la stessa origine di quello di Duca, di carica della provincia
di confine. Esso dal lato etimologico Mark Graf significa infatti Conte
della marca, ossia della frontiera. Il titolo è in Italia di origine
franca, dato che i Franchi mutarono in marchesati alcuni ducati e contee.
In Italia i primi marchesati furono quelli del Friuli e di Ivrea. In Germania
il corrispondente titolo di Margravio equivaleva a quello di Principe
Sovrano, e in Francia il titolo di Marchese fu abolito da Napoleone.
In passato alcuni consideravano questo titolo come inferiore a quello
di Conte perché nato successivamente ad esso, mentre altri lo consideravano
pari a quello di Duca. Dei Marchesi cosiddetti di baldacchino è
detto appresso (v. n. 45 nota).
Titolo di Conte - Conte Palatino
- Conte Lateranense (In nota: il Contestabile, l’Ordine Pontificio
di S. Giovanni Laterano detto dei Cavalieri Pii)
Nel tempo dell’impero romano erano chiamati Comites Concistoriani
alcuni dignitari della corte, e con tal nome fin dai primi tempi furono
appellati coloro che seguivano i Re in pace ed in guerra ed esercitavano
funzioni di corte. Essi vennero adibiti poi in generale al governo delle
città nei ducati. Il titolo di Conte secondo alcuni fu ritenuto
eguale a quello di Duca, opinione questa che non ebbe largo seguito. Secondo
altri la parola Conte deriva dalla voce Counts o Countees dei Normanni,
che così chiamavano una classe dei loro feudatari.
Questo titolo è stato assunto sempre da membri ultrogeniti di case
regnanti, come il Conte d’Artois, il Conte di Caserta, il Conte
di Torino.
Fra i Comites42
che esercitavano funzioni di corte, fin dal secolo VI e per la prima volta
in Francia, assume importanza il Conte Palatino (comes palatii), avente
funzioni giudiziarie nello esercizio della giustizia, fatto personalmente
dal Re nelle cause a lui sottoposte dai feudatari. Conte Palatino fu anche
in Italia la carica di vicario imperiale o reale per governare una provincia.
Al tramonto della feudalità questo titolo di Conte Palatino rimase
svalutato perché privo di substrato territoriale, e perché
largamente distribuito dagli imperatori mediante somme di denaro, o dai
papi o suoi legati, anche per mezzo della sua attribuzione a coloro che
facevano parte di speciali ordini equestri pontifici o per concessione
a favore di un determinato collegio (Milizia Aurata, Santo Sepolcro, v.
n. 21 nota)43
. Questo titolo più curiale che nobiliare era quasi sempre personale
e generalmente non conferiva nobiltà ereditaria; tuttavia invalse
l’uso di trasmetterlo alla discendenza, donde la grandissima quantità
di Conti.
Il titolo di Conte Palatino è pure diverso dal titolo comitale,
tanto nella qualificazione come nelle insegne (Mass. 23, Cons. Araldica
v. n. 65). Con successiva massima 12 dicembre 1924 venne stabilito che
nell’Elenco Ufficiale della nobiltà (v. n. 110) sarebbe stata
mantenuta la dicitura di Conte Palatino, ma sarebbe stato ammesso per
gli insigniti di tale titolo pei trattamenti uguali l’uso promiscuo
delle due intitolazioni di Conte Palatino o di Conte. Nell’Elenco
Ufficiale del 1933 è fatto anche risultare se il titolo sia di
concessione imperiale.
I Conti Palatini pontifici sono chiamati Lateranensi, per distinguerli
da quelli del Sacro Romano Impero. Questi presentano la caratteristica
che sono stati conferiti, secondo l’atto di concessione, non soltanto
al primogenito maschio ma a tutti i membri della famiglia, maschi e femmine
che fossero, cui il titolo è stato concesso44
.
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42 - Ai comites che esercitavano funzioni di corte si ricollega
la carica di contestabile o connestabile, esistente presso l’imperatore
Valente che l’accordò a suo fratello Valentiniano, e in quasi
tutti gli stati antichi d’Europa, con uffici che cambiavano nelle
varie epoche e presso le varie corti. Deriva il nome dal latino comes
stabuli, conte della stalla o grande scudiero, tale essendo in origine
il suo ufficio. In Francia tale carica, che fu soppressa da Luigi XIII,
giunse a grande potenza e comandava nell’armata a tutti i generali
compresi i principi del sangue. Vi furono contestabili nel Regno di Napoli
ed in Toscana. Gran Contestabile era la carica di origine normanna che
importava il comando dell’esercito in guerra nei reami di Sicilia
e di Puglia. Questa carica, conservata dagli Angioini e dagli Aragonesi,
fu abolita dagli Spagnuoli.
43 - Anche l’ordine pontificio di S. Giovanni Laterano, detto anche
dei Cavalieri Pii Partecipanti dal suo fondatore Pio IV, istituito nel
1560 conferiva ai suoi membri il titolo di Comes Sacri Palalii et Aulae
Lateranensis, ed il loro nome veniva registrato nell’albo delle
famiglie nobili dello stato. Le distinzioni conferite da Pio IV furono
a poco a poco annullate dai Pontefici successori finché l’ordine
sparve nel 1700.
44 - Il nuovo ordinamento regola diversamente i tre titoli comitali anzidetti
come in appresso sarà detto (v. n. 78).
Titolo di Visconte
Era il Vice Comes che adempiva funzioni di conte. Questo titolo d’importazione
inglese e francese non era stato conservato nel regolamento del 1896.
Titolo di Barone Barone (In nota:
I Baroni di franco allodio)
Si è discusso se la parola Barone sia un titolo nobiliare a sé
stante. Certo è che essa è stata adoperata nel medio evo
in duplice senso: in quello di feudatario in generale45
, e nel regno di Napoli come una categoria, a sé stante di feudatari,
che avevano alle loro dipendenze altri suffeudatari e il titolo di Barone.
Anche in Sicilia la parola Barone fu usata per indicare l’intero
corpo dei feudatari del regno in generale, qualunque fosse il titolo di
chi fossero singolarmente insigniti, come diede il primo esempio l’Imperatore
Federico nelle sue costituzioni, ma fu adoperata più particolarmente
ad indicare il possessore di uno o più feudi contenenti uno o più
castelli, uno dei quali nella concessione ebbe annesso il titolo di baronia.
Tutti i possessori di feudo portavano il titolo di Barone, e nelle diverse
investiture dello stesso feudo il titolare era indifferentemente qualificato
Barone o Signore. In Sicilia si trovano anche i titoli di Barone di franco
allodio dai cui diplomi si rileva che l’insignito era chiamato col
titolo di Spettabile e di Barone46
. Sui feudi di franco allodio la Consulta Araldica adottò le seguenti
massime. Quantunque in Sicilia i feudi di franco allodio non godessero
le stesse prerogative e preminenze dei feudi giurisdizionali, pure attualmente
i titoli annessi ai già feudi allodiali possono essere riconosciuti
(art. 98). In Sicilia l’appellazione di Spettabile non costituì
un titolo specifico di nobiltà (art. 95). Nell’Italia settentrionale
la parola Barone fu usata come titolo.
Si disputa anche sulla etimologia della parola, ed è forse da ritenere
che essa derivi da bar, che in alemanno significa uomo, o da baron usata
dalle leggi saliche come uomo nel senso feudale, cioè vassallo,
ossia feudatario in rapporto al signore.
Fu anche rilevato che in occasione della legge 2 agosto 1806 che abolì
la feudalità nel napoletano furono dichiarati mantenuti i titoli
di Principe, Duca, Conte e Marchese, per cui si volle dedurre che Barone
non fosse titolo nobiliare, ma il fatto che furono creati Baroni successivamente
al 1806 e da Murat e dai Borboni conferma l’opinione accolta dalla
giurisprudenza che l’enumerazione della legge abolitiva fosse non
tassativa, ma esemplificativa. Il nuovo ordinamento ha mantenuto il titolo
di Barone.
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45 - Per il fatto che nelle antiche costituzioni napoletane
la designazione di Barone era usata non come titolo specifico ma come
qualifica che comprendeva tanto il Principe che il Duca, quanto il possessore
semplice di un feudo nobile che si chiamava Barone, senza titolo, la Consulta
Araldica non credette in passato di riconoscere la qualifica di Barone
ad antichi possessori di feudi, consentì invece loro di chiamarsi
Nobile col predicato del feudo ultimo posseduto se il possesso si riferisse
ad un feudo nobile in capite con giurisdizione effettiva ed intestazione
nei cedolari e il possesso fosse durato non meno di 200 anni (Mass. 74).
Ai Baroni romani che si trovavano nelle stesse condizioni di quelli napoletani
la Consulta medesima concesse invece il titolo di Signore. Vedi RIVERA,
L’opera della Consulta Araldica, Roma 1924, pag. 21 e seguenti.
46 - I titoli di franco allodio erano sui generis. Gli insigniti di essi
godevano le autorità, le esenzioni, le immunità, le prerogative,
le preminenze, le libertà, le franchigie, ecc., come gli altri
feudatari del regno, ma erano esenti dall’obbligo del servizio militare,
di prendere investitura (v. n. 70), di soddisfare al diritto della decima
e tari, a quello dei donativi, della mezz’annata, del regio sigillo
e a qualsivoglia altre regie collette imposte o da imporsi. La disponibilità
e la successione in questi feudi e nei relativi titoli non era regolata
né dal diritto dei Franchi, né da quello dei Longobardi,
poiché, trattandosi di proprietà libera, allodiale dell’insignito,
il titolato ne poteva disporre a suo piacere, o per atti tra vivi, o per
disposizione di ultima volontà, e se i discendenti e i figli fossero
stati molti, il titolo doveva essere usato da uno solo, non importava
che questi fosse il primogenito o il terzogenito, maschio o femmina, purché
fosse uno solo.
Titolo di Signore
Questo titolo fu poco usato nel campo feudale, e servì ad indicare
in generale la qualifica spettante ai proprietari di terre non sottoposte
alla giurisdizione feudale. Esso fu conservato nel nuovo ordinamento perché
risulta attribuito a varie famiglie e non solo con l’indicazione
della terra ma anche, in Sicilia, appoggiato su cariche ed altri benefici47
. Per il titolo di Signore del baronaggio romano è stato detto
al n. 38.
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47 - Così abbiamo Alliata, signore di 40 onze sopra
i porti e le marine, Paternò della linea di Manganelli signore
dell’Ufficio di Maestro notaro della Curia Capitaniale di Catania,
Colonna signore di 40 onze sulla dogana di Messina. Vedi Elenco Ufficiale
della Nobiltà Italiana, Roma 1934.
Titolo di Patrizio e Nobile Civico
È stato detto nel patriziato presso i Romani, del successivo suo
svolgimento ed è stato fatto cenno della speciale legislazione
sul patriziato genovese, veneto e romano (v. n. 5, 18, 19 B, E, 20 I e
L).
Qui riassumendo può dirsi che la voce Patrizia serviva ad indicare
dal secolo XV in poi, per effetto dell’autonomia che godevano i
vari Comuni, la classe dei cittadini più elevati che avevano la
amministrazione economica della propria città ed, in quelle rette
a repubblica, il governo di esse, e che erano iscritti in apposito registro
o libro, variamente chiamato (Libro della Patrizia Nobiltà, Libro
della Nobiltà, Libro della Cittadinanza Nobile o del Patriziato,
Albo dei Nobili, Libro degli Ordini della Città, Libro delle Mastre
Nobili, Registri di Nobiltà, Libri d’Oro, v. n. 19, 20 e
21) che li distingueva dalle rimanenti classi del popolo, in quei paesi
in cui vi era completa separazione tra la nobiltà e le altre classi
della Cittadinanza. L’appellativo di Patrizio fu tenuto in così
alta considerazione che, pur non essendo i Patrizi dei nobili creati dall’autorità
Sovrana, fu assunto da coloro che erano nobili per altro titolo, nonostante
che non fossero iscritti in nessun libro, né aggregati a ordini
o ceti speciali.
Chiamavasi poi Nobile colui, la cui famiglia godeva una certa distinzione
o speciali onori in premio di virtù, per lasciare onorevole segno
alla posterità di meriti acquistati e delle opere compiute, per
eccitare i figliuoli e discendenti del premiato a continuare sulla via
della virtù e dell’onore loro tracciata.
Qualora la nobiltà fosse stata conferita, non con la concessione
di un titolo specifico da parte del Sovrano, ma con la dichiarazione di
essere Nobile, fatta dai Corpi Municipali non sovrani o non aventi facoltà
di aggregazione o non costituenti piazze chiuse, si aveva la cosidetta
Nobiltà Civile e Decurionale48
.
In certe città gli appartenenti all’ordine patrizio si chiamavano
Nobili Patrizi, per distinguersi dagli altri che, pure nobili per sé,
si chiamavano Patrizi, quantunque, non essendo iscritti negli speciali
registri, non rappresentassero la nobiltà cittadina; in altre città
esistettero contemporaneamente Patrizi e Nobili, ed in altre città
infine non esistette né il patriziato, né la nobiltà
civica.
Oggidì col termine generico di patriziato viene indicata tutta
la categoria di persone che hanno un titolo nobiliare.
È stato sostenuto49
che l’appellativo di Patrizio, come quello di Nobile non fossero
un titolo vero e specifico, ma una qualifica, perché è dato
alle persone componenti una famiglia, mentre il titolo specifico non può
generalmente darsi che ad una sola persona di famiglia. Inoltre non vi
fu mai rilascio di diploma dichiarativo della qualità di Patrizio
e di Nobile Civico, e che, se comunemente di colui che era aggregato al
Patriziato o alla Nobiltà Civica di un dato luogo si diceva di
aver egli il titolo di Patrizio o di Nobile, ciò era in senso traslato,
dappoiché avrebbe dovuto chiamarsi aggregato al Patriziato o alla
Nobiltà di quel luogo, ciò che importa semplice onorificenza
ereditaria e qualità nobilitante, e non titolo.
Di tali osservazioni non ha tenuto però conto la legislazione italiana,
dappoiché fin dal primo regolamento per la Consulta Araldica del
1870 (art. 21) fu ammesso il titolo di Patrizio per indicare il grado
supremo di una antica nobiltà municipale.
Quale sia la differenza fra il Patriziato e la Nobiltà Civica non
è possibile stabilire con esattezza, data la diversità delle
legislazioni nei vari Comuni e nei tempi differenti. Una prova di ciò
si ha nelle stesse disposizioni sulla Consulta Araldica del 1888, del
1896, nell’ordinamento attuale, e nei criteri non uniformi adottati
dalle Commissioni Araldiche regionali nella formazione degli elenchi dei
Patrizi per la iscrizione d’ufficio (vedi n. 103). Di dette Commissioni
alcune hanno dato valore prevalente al principio gentilizio, stabilendo
essere spettanza della famiglia il privilegio di governare anche politicamente
un municipio, e di conseguenza trasmettersi alla famiglia il privilegio
stesso; altre hanno considerato il privilegio gentilizio in quanto si
concreta negli individui, ed hanno riconosciuta la spettanza di esso a
tutti i membri maschi e femmine; altre infine hanno tenuto conto soltanto
dell’esercizio attivo del privilegio e hanno ristretto la trasmissione
di esso ai soli maschi. Di tal che sono risultate anomalie nelle attribuzioni
del patriziato, aggravate dalle richieste avanzate dalle varie città
per avere riconosciuto il patriziato, ciò che ha condotto ad una
graduale restrizione nelle norme sul riconoscimento di esso50
. Dicevano infatti gli art. 34 e 37 del regolamento del 1888 sulla Consulta
Araldica che il titolo di Patrizio è ammesso per le famiglie che
furono iscritte nei registri dei comuni che godevano di una vera nobiltà
civica o decurionale e che il titolo di Nobile è attribuito a coloro
che sono in possesso della nobiltà ereditaria e non hanno altra
qualificazione nobiliare o patriziale. Per il regolamento del l896 il
titolo di Patrizio di una città si può riconoscere quando,
secondo le passate legislazioni, si era radicato in una famiglia ed era
stato considerato come un titolo specifico in uso per indicare una vera
nobiltà civica o decurionale (art. 40); non si sarebbero fatte
più concessioni o rinnovazioni di patriziati o di nobiltà
municipali né si sarebbero iscritte nuove persone negli antichi
registri; il titolo di Nobile era attribuito a coloro che erano in possesso
della nobiltà ereditaria e non avevano altra qualificazione nobiliare
o patriziale, alle famiglie che ne ottennero speciale concessione. L’articolo
20 dell’attuale ordinamento dice: «Il titolo di Patrizio o
di Nobile di una città si può riconoscere quando consti
che si era radicato nella famiglia appartenente ad un collegio, corpo
o ceto civico o decurionale, che secondo le antiche legislazioni attribuiva
ai suoi componenti e ai suoi rispettivi discendenti il patriziato o la
nobiltà. Tale titolo spetta a legittimi discendenti per linea maschile
degli ultimi iscritti all’epoca in cui cessarono di aver vigore
le antiche legislazioni e non può formare oggetto di nuova iscrizione
o concessione, né di rinnovazione o di passaggio ad altra famiglia.
È ammessa eccezionalmente la ulteriore iscrizione al ceto nobile
della nobiltà romana (v. numero 20 L) dei fratelli e loro discendenti
di ambo i sessi per linea mascolina e delle sorelle a titolo personale
dei Sommi Pontefici. Fermi gli accertamenti già approvati dal R.
Governo, la Consulta, su proposta delle Commissioni Araldiche Regionali,
accerta la originaria esistenza degli antichi Collegi, Corpi, o Ceti civici
o decurionali di patriziato o di nobiltà e le particolari norme
dalle quali era regolata la iscrizione e successione dei loro componenti.
Le relative deliberazioni della Consulta sono sottoposte alla approvazione
del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato».
Può però in generale ritenersi che i titoli di Patrizio
e di Nobile Civico siano equivalenti, e che la differenza sia determinata
piuttosto dal nome diverso adoperato nelle varie città, e, più
specialmente dal fatto che, mentre il Patriziato costituiva un Corpo o
Collegio avente il diritto di auto decisione e di poter aggregare a sé
altri membri, la Nobiltà Civica, pur costituendo un ceto separato
dalla borghesia, non aveva tali potestà.
La Consulta Araldica per il riconoscimento del titolo di Patrizio ha formato
una serie di massime di carattere regionale, uniformandosi al voto formulato
nel Congresso Storico di Genova del 1892, per il quale non avrebbero dovuto
iscriversi nel Libro d’oro della nobiltà italiana altri titoli
patriziali che quelli di famiglie, le quali avevano diritto di sedere
nei consigli sovrani, o compartecipi della sovranità di antichi
stati italiani; o furono ascritte agli ordini maggiori che, per sovrani
provvedimenti, ottennero tale titolo specifico o fecero parte di seggi
decurionali o collegi municipali, che esercitarono funzioni politiche
ed amministrative e lasciarono larga traccia di ricordi storici, ottenendo
una speciale importanza nella tradizione e nella estimazione d’Italia.
Per lo stesso voto avrebbe dovuto essere riconosciuto il titolo ereditario
di Nobile alle famiglie che furono iscritte nei registri dei comuni che
godevano di una vera nobiltà civica o decurionale. Pur tuttavia
non si è pervenuti al concetto ancor più restrittivo, sostenuto
da altri (Bonazzi), nel suddetto congresso, che il titolo di Patrizio
era da ammettersi esclusivamente per le famiglie appartenenti ai già
patriziati sovrani di Venezia, di Genova, di Lucca (che esercitavano diritti
di sovranità in nome delle rispettive repubbliche), e alle famiglie
iscritte ai registri o libri d’oro delle città che ottennero
specificatamente tale titolo, o che ad una vera nobiltà civica
o decurionale, ammessa nei passati tempi come titolo primordiale dell’Ordine
di S. Giovanni di Gerusalemme, detto di Malta, aggiunsero storica importanza
e la tradizione del titolo patriziale. Il titolo di Nobile era da ammettersi
invece per le famiglie iscritte ai registri o libri d’oro delle
altre città, che pur avendo una vera nobiltà civica o decurionale,
non avessero alcuno dei requisiti suindicati51
. Circa le norme se il titolo di Patrizio o di Nobile fossero trasmissibili
ai maschi e femmine o solamente ai maschi, la Consulta aveva formulato
una serie di massime regionali, in base alle quali venivano fatti i riconoscimenti
anche in persona di femmine per certe regioni, ed era attribuito, alle
femmine di famiglie insignite di patriziati con trasmissibilità
mascolina, il titolo dei Patrizi.
Il titolo di Patrizio o di Nobile Civico sono sempre accompagnati dalla
indicazione della città, alla quale la famiglia era aggregata52
.
L’ordinamento nobiliare italiano non ha tenuto conto della nobiltà
legale o civile, costituente la terza classe del dispaccio di Carlo III
di Napoli (25 gennaio 1756) (v. n. 21 M), né di quella nobiltà
detta de iure comune che bastava nei secoli scorsi per ottenere l’aggregazione
ai consigli nobili mediante la prova della posizione sociale del richiedente
e degli antenati.
Per porre però fine ai larghi appetiti che erano sorti nelle borghesie
di piccoli ed oscuri comuni senza storia e senza fama, di avere riconosciuti,
anche quando nel secolo XIX furono chiusi da quasi tutti gli stati d’Italia
i libri d’oro, propri ceti o corpi cittadini, l’art. 21 del
nuovo ordinamento ha stabilito che non è ammesso il riconoscimento
di antichi ceti o corpi cittadini o regionali di insigniti di titoli diversi
da quelli del patriziato o della nobiltà civica o decurionale.
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48 - L’aggettivo decurionale deriva da Decurionato,
che fu in molte regioni nella penisola il corpo o collegio di coloro che
erano preposti al governo del Comune. Il nobile fu derivato a sua volta
dall’istituto romano del Decurionato, che costituiva il consiglio
Pubblico dei municipi autonomi, sciolti dall’immediata dipendenza
di Roma.
49 - PADIGLIONE, Delle livree. Ricerche storico-araldiche in «Giornale
Araldico Genealogico» diretto dal Di Crollalanza, 1887-88, Anno
XV, pag. 133. Questo studio, che costituisce il programma dell’altro
lavoro dello stesso titolo pubblicato nel 1889, è una trattazione
storica sul Patriziato e la Nobiltà d’Italia.
50 - RIVERA, op. cit., pag. 15.
51 - BONAZZI F., Sul diritto delle nobiltà municipali nel Napoletano
al titolo di patrizio, «Boll. Uff. Cons. Aral. », 1893, vol.
II, pag. 21.
52 - In Sicilia, nonostante che le Mastre Nobili (v. n 20 N) (che non
andavano confuse con quelle giurate o serrate o civili) rivestissero gli
ascritti di nobiltà generosa e corrispondessero ai sedili chiusi
del napoletano ed ai registri di separazione nelle altre città
d’Italia, per cui gli ascritti si potevano qualificare patrizi,
la Commissione Araldica Regionale nel compilare l’elenco delle iscrizioni
di ufficio (v. n. 103) non tenne conto dei discendenti delle famiglie
ascritte alle Mastre Nobili, e la Consulta Araldica adottò la massima
94 che in Sicilia il titolo di Patrizio non fu mai usato come titolo specifico
e però non lo si riconosce. Con la massima 118 venne anche stabilito
che in Sardegna non esiste alcuna vera nobiltà civica o decurionale,
e con la massima 6 dicembre 1927 che non è ammissibile il riconoscimento
di un patriziato nella città di Trieste.
Titolo di Cavaliere Ereditario
Il titolo di Cavaliere, oggi concesso come onorificenza degli ordini cavallereschi,
mentre in passato, in base ad antiche tradizioni vigenti in alcune regioni
soggette alla Spagna, come la Lombardia, la Sardegna e la Sicilia, veniva
concesso come titolo nobiliare trasmissibile. Tale titolo, però,
viene riconosciuto agli aventi diritto in forza di antiche concessioni,
ma non è più conferito53
.
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53 - Con deliberazione della Consulta
Araldica 28 gennaio 1906 venne stabilito che può attribuirsi il
titolo di Cavaliere Ereditario ai Nobili e agli ultrogeniti delle famiglie
titolate del Piemonte di creazione anteriore alla proclamazione del regno
d’Italia. In Sicilia i Cavalieri Ereditari derivarono dai Cavalieri
dell’ordine del Cingolo Militare, di cui si ha la prima traccia
in un diploma del 1088. Essi erano detti anche Militi Regii o Militi Aurati,
perché investiti personalmente dal Re e perché i principali
oggetti del loro corredo erano d’oro o dorati. La trasmessibilità
del Cavalierato era a tutti i discendenti, e talvolta a tutti i discendenti
dei due sessi. Dei Militi feudatari si perdette la memoria perché
con l’introduzione in Sicilia dei titoli di Marchese, Duca, Principe
(v. n. 20 N), molti Militi si elevarono alla classe dei titolati, ed i
soli Militi che sopravvissero furono gli ultrogeniti dei titolati e feudatari,
ancorché non si dedicassero più alle armi. É stata
lanciata in tempi più recenti la proposta per l’ammissione
del riconoscimento del Cavalierato Ereditario ai rappresentanti attuali
in linea retta dei Militi regii, come è stato fatto per il Piemonte.
In Sardegna per il R. Editto 24 giugno 1823 si accordava il diploma di
Cavalierato e Nobiltà a coloro che fondavano in uno dei due Collegi
dei Nobili dell’isola due piazze perpetue. Vedi LODDO CANEPA, Le
prove nobiliari nel Regno di Sardegna in Ad A. Luzio, Gli Archivi di Stato,
vol. II, pag. 123, Firenze 1933.
Titolo di Nobile
L’art. 5 del nuovo ordinamento contempla il titolo di Nobile in
significato doppio: o come titolo specifico attribuito a persona che ne
è investita, o come titolo generico comune agli insigniti di ogni
altro titolo nobiliare.
Il regolamento del 1896 all’art. 42 stabiliva che il titolo in questione
era attribuito:
a) a coloro che sono in possesso della nobiltà ereditaria e non
hanno altra qualificazione nobiliare o patriziale;
b) alle famiglie che ne ottennero speciale concessione;
c) agli ultrogeniti delle famiglie titolate, con l’aggiunta del
titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso «dei
». Quando i titoli del primogenito sono parecchi, agli altri ultrogeniti
non si attribuisce la qualificazione generica che di un solo titolo o
predicato seguendo le speciali tradizioni locali o familiari.
Più complete ad ogni modo sono le disposizioni del nuovo ordinamento,
dato che l’articolo 5 va integrato dagli articoli 25 e 57 che stabiliscono
che i discendenti di ambo i sessi per linea retta maschile dell’intestatario,
all’epoca della abolizione della feudalità, di un feudo nobile
con piena giurisdizione, non decorato da titolo, possono ottenere il riconoscimento
del titolo di Nobile e del predicato ex feudale da aggiungere al cognome
preceduto dal segnacaso «di» (art. 25). Agli ultrogeniti delle
famiglie insignite di titoli primogeniali è attribuito, oltre alla
semplice nobiltà, il diritto di aggiungere al cognome l’appellativo
del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso «dei».
Quando i titoli o predicati primogeniali sono parecchi, gli ultrogeniti
aggiungono dopo il segnacaso « dei » l’appellativo di
quel titolo o predicato che fa parte del nome d’uso della famiglia,
salva diversa tradizione familiare, da riconoscersi dalla Consulta (art.
57).
Questi principi derivano dal fatto storico, come è stato accennato
sopra, che potevano esservi feudi non titolati, e che il titolo nella
generalità delle leggi feudali, era connesso nei primi tempi al
feudo titolato, e siccome questo non si divideva fra i figli del concessionario,
ma si devolveva al maschio primogenito, così il titolo veniva attribuito
solo a chi succedeva nel feudo54
.
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54 - In Sardegna oltre quanto è stato detto (v.
n. 19 C e 41) nella prima metà del XVIII secolo furono introdotte
le concessioni di diplomi di Cavalierato e di Nobiltà dal Governo
Sabaudo per contributi notevoli alla costruzione di ponti e tronchi stradali.
Con l’Editto 3 dicembre 1806 venne accordato di chiedere la Nobiltà
mediante la prova (che si otteneva con sopraluogo) di aver piantato o
innestato almeno 4000 olivi. Vedi Loddo, op. cit.
Titolo di Città
Costituisce anche titolo, quello di Città. Per l’art. 40
dell’ordinamento, corrispondente al 15 del regolamento del 1896,
può esser concesso il titolo di Città a comuni insigni per
ricordo o monumenti storici, che abbiano convenientemente provveduto ad
ogni pubblico servizio ed in particolar modo all’assistenza, istruzione
e beneficenza e che abbiano una popolazione agglomerata nel capoluogo
non minore di 10 mila abitanti.
Il predicato
Per predicato s’intende l’indicazione del feudo su cui è
appoggiato un titolo nobiliare portato da un individuo o da una famiglia,
e tale predicato è di spettanza di tutta l’agnazione, anche
se il titolo feudale sia di spettanza soltanto del primogenito55
.
A volte il predicato serve a distinguere i vari rami di una stessa famiglia,
e l’unione del predicato principale di una famiglia col cognome
costituisce quello che chiamasi nome d’uso della famiglia stessa.
In certe regioni, come ad esempio la Sicilia, il predicato, come è
stato detto a proposito del titolo di signore, anziché sul feudo
si poggiava a volte su uffici che venivano infeudati. Inoltre non tutti
i titoli nobiliari hanno un predicato, essendovi titoli senza predicato,
come quelli concessi dal Sacro Romano Impero, dagli Estensi, dai Gonzaga,
dai Farnese e di solito dalla Santa Sede56
, che sono appoggiati al cognome soltanto. L’art. 36 del nuovo ordinamento
stabilisce che in generale, e salva la Reale Prerogativa del motu proprio,
i titoli di nuova concessione non comportano l’aggiunzione di predicati
e debbono essere esclusi specialmente i nomi di città e di comune
e quelli di antichi feudi.
Le concessioni di predicati onorifici sono riservate, soggiunge l’articolo,
in via eccezionale, per rimunerare coloro che con servizi eminenti si
siano resi benemeriti della patria.
Così troviamo che i predicati di regioni o di città sono
stati attribuiti dal Sovrano a membri del sangue: Duca delle Puglie, degli
Abruzzi. Conte di Torino, Duca di Bergamo, di Spoleto, ed eccezionalmente
ad estranei, come Duca di Gaeta (v. n. 34).
Per gli altri benemeriti della patria il predicato è stato poggiato
su località non abitate, come Principe di Montenevoso, Marchese
del Sabotino, Conte di Val Cismon.
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55 - L’elenco ufficiale della nobiltà italiana,
Roma 1934, contiene in fine un dizionario dei predicati. - V. anche DE
VITIIS, Dizionario dei predicati della nobiltà italiana, Napoli
1903.
56 - Per l’art. 6 del R. D. 10-7-1930, n. 974, è, ammessa
l’autorizzazione all’uso nel Regno di titoli nobiliari pontifici
appoggiati a predicati del territorio della Città del Vaticano,
o ad altri purché puramente onorifici (v. n. 51, 52).
Qualifiche e trattamenti (In nota:
I Marchesini baldacchino, il Sovrano Ordine Militare di Malta, i quarti
di nobiltà)
Il nuovo ordinamento all’art. 50 stabilisce che ai titoli nobiliari
non sono attribuite qualifiche o trattamenti senza speciale concessione
del Re, e i riconoscimenti già ottenuti sono privi di effetto.
Si distinguono le qualifiche dai trattamenti57
.
Sono qualifiche le espressioni d’onore connesse al godimento di
un titolo nobiliare o di una alta carica. Le qualifiche possono essere
adoperate da coloro che ne sono insigniti.
Sono da considerarsi qualifiche, in base all’art. 52 dell’ordinamento,
modificato dal R. D. 14 febbraio 1930, n. 101, quelle di «Don»
e di «Donna» premesse al nome di battesimo, nonché
quelle di Nobil Uomo e di Nobil Donna, queste due ultime mantenute ai
Patrizi Veneti.
La qualifica di Donna è attribuita alle consorti dei personaggi
compresi nelle categorie prima e seconda dell’ordine delle precedenze
a corte e nelle funzioni pubbliche, approvato con R. D. 16 dicembre 1927,
n. 2210, integrato dal R. D. 28-11-1929, n. 2029, e modificato coi RR.
DD. 18 gennaio 1929, n. 14, 22 dicembre 1930, n. 1757, 18 ottobre 1934,
n. 1730.
Appartengono alla 1a categoria: il Capo del Governo Primo Ministro Segretario
di stato, i Cavalieri dell’Ordine Supremo della SS. Annunziata;
alla 2a categoria: i Presidenti del Senato del Regno e della Camera dei
deputati, i Ministri Segretari di stato, il Segretario del P. N. F., i
Sottosegretari di stato, i Marescialli d’Italia, il Grande Ammiraglio,
il Presidente della Reale Accademia d’Italia, i Ministri di stato,
il Ministro della casa di S. M. il Re, il Prefetto di palazzo, il Primo
Aiutante di campo di S. M. il Re, il Primo Segretario di S. M. il Re pel
Gran Magistero degli ordini dei SS. Maurizio e Lazzaro Cancelliere della
Corona d’Italia, il Capo di Stato Maggiore Generale.
Le qualifiche di Don e di Donna sono state mantenute:
a) alle famiglie che ne abbiano avuto speciale concessione;
b) alle famiglie insignite di titoli di Principe e di Duca ed alle famiglie
Marchionali romane, cosidette di baldacchino58
;
c) alle antiche famiglie nobili lombarde che le ebbero già riconosciute
all’epoca della revisione nobiliare ordinata dall’Imperatrice
Maria Teresa (v. n. 19 D);
d) alle famiglie sarde decorate simultaneamente del Cavalierato Ereditario
e della Nobiltà (v. n. 19 C, 41, 42).
Le suddette qualifiche si acquistano dalle mogli di coloro che vi hanno
diritto e si conservano durante lo stato vedovile. Si perdono dalle donne
nubili per effetto del matrimonio.
Sono trattamenti d’onore, aventi una certa affinità con le
qualifiche, i titoli di Maestà riservato alle sole persone del
Re e della Regina, di Altezza Reale attribuito al Principe Ereditario,
alla Principessa sua moglie, agli altri figli e alle figlie del Re, ai
figli e alle figlie del Principe Reale Ereditario.
Al Principe della Reale Casa che sia stato Reggente del regno spetta a
vita il trattamento di Altezza Reale.
Ai nepoti del Re, figli di Principe fratello ed ai figli e discendenti
dai nepoti del Re e del Principe Reale Ereditario di ambo i sessi è
dato il trattamento di Altezza Serenissima. Alle consorti dei Principi
della Reale Famiglia è dato il trattamento del Principe marito
(art. 1 a 9 R. D. 1 gennaio 1890).
È trattamento d’onore quello «Nostri Cugini»
del Re attribuito ai Cavalieri dell’Ordine Supremo della SS. Annunziata,
quello di Altezza Eminentissima riconosciuta in Italia dall’art.
51 dell’ordinamento Nobiliare al Gran Maestro del Sovrano Ordine
Militare di Malta59
, di Eccellenza riconosciuto dal R.D. 28-11-1929, n. 2029, ai Balì
di giustizia dell’ordine predetto per la lingua d’Italia,
e quello di Eccellenza attribuito ai personaggi compresi nelle prime quattro
categorie dell’ordine delle precedenze a corte, che rivestono la
dignità di grandi ufficiali dello stato, ed indicati nel R. D.
22-12-1930, n. 1757, nonché alle consorti del Capo del Governo
e dei Cavalieri dell’Ordine della SS. Annunziata.
Le prime due categorie sono state sopra specificate. Alla 3a categoria
appartengono: il Primo Presidente della Corte di Cassazione, il Presidente
del Consiglio di Stato, il Procuratore generale della Corte di Cassazione,
il Presidente della Corte dei Conti, il Presidente del Tribunale speciale
per la difesa dello stato, l’Avvocato generale dello stato, gli
Ambasciatori di S. M. il Re, i Governatori delle Colonie, il Capo di Stato
Maggiore dell’Esercito, il Capo di Stato Maggiore della R. Marina,
il Capo di Stato Maggiore della Aeronautica, il Comandante generale della
M. V. S. N., i Generali di armata, gli Ammiragli di armata, i Generali
comandanti designati di armata, gli Ammiragli designati di armata, il
Capo di Stato Maggiore della M. V. S. N., il Governatore di Roma. Alla
4a categoria appartengono: i Vice Presidenti del Senato del Regno, i Vice
Presidenti della Camera dei Deputati, i Vice Presidenti della Reale Accademia
d’Italia, il Presidente del Consiglio Superiore della marina, il
Capo della polizia, i Generali di Corpo d’armata, gli Ammiragli
di squadra e gradi corrispondenti della R. Marina, i Generali di squadra
aerea, i Comandanti di zona aerea territoriale, i Prefetti in sede, i
Primi Presidenti di Corte d’appello, i Procuratori generali di Corte
d’appello, il Presidente del tribunale supremo militare, l’Avvocato
generale presso il tribunale supremo militare, il Procuratore generale
presso il Tribunale speciale per la difesa dello stato, i Presidenti di
sezione del Consiglio di Stato, i Presidenti di sezione della Corte di
cassazione e gradi equiparati, i Presidenti di sezione della Corte dei
conti, il Vice Avvocato generale dello Stato, gli Accademici d’Italia.
Il trattamento di Altezza, secondo la tradizione italiana non suole esser
fatto a persone private, anche se insignite di alte dignità, perché
serve a contraddistinguere il potere sovrano al quale è inerente
ed esclusivo. Risulta riconosciuto pur tuttavia tale trattamento a famiglie
italiane, fregiate, per concessione del Sacro Romano Impero o semplicemente
dell’Impero Austro-ungarico, del titolo di Principe al quale va
annesso per solito anche il trattamento di durchlaucht. Questo titolo
di Principe con l’annesso trattamento spetta anche ad Arcivescovi
e Vescovi di sedi già sottoposte all’Austria, e tornate a
far parte del Regno d’Italia. Sennonché come ha rilevato
il Rivera60
la parola durchlaucht, sia in Austria che in Germania, significa, tradotta
letteralmente, eminente, illustre, e corrisponde, non ad Altezza, ma al
nostro illustrissimo, nell’uso che di esso si faceva un tempo in
Italia assai moderato e che era dato a grandi feudatari e ai Vescovi.
Essa ricorda la antica qualifica di Magnifico61
, quella di Signoria.
Alla nostra parola Altezza corrisponde in modo preciso il tedesco hoheit,
sia letteralmente che nell’uso generale e aulico.
Occorre infine far cenno della differenza che si riscontra nell’ordinamento
e nell’uso comune fra distinzioni nobiliari ed attributi nobiliari.
Sono distinzioni, come risulta dall’art. 4 dell’ordinamento:
i titoli, i predicati, le qualifiche, gli stemmi. Si intendono per attributi,
come rilevasi dagli art. 126 e 127 dell’ordinamento, i predicati,
le qualifiche e gli stemmi in contrapposto ai titoli62
).
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57 - SABINI, op. cit., pag. 70.
58 - Sono famiglie Marchionali romane di baldacchino quelle Costaguti,
Patrizi-Naro, Theodoli, feudatarie del Patrimonio di S. Pietro che godono
il privilegio riservato dalla S. Sede ai principi, cardinali ed ambasciatori
di avere in una sala del loro palazzo una specie di baldacchino di velluto
rosso, sotto il quale è esposto il ritratto del Pontefice regnante
e trovasi una sedia con i braccioli volti verso il muro, per significare
che essa è riservata soltanto al Pontefice quando si degnasse di
visitare quella casa. Anche la famiglia comitale Soderini gode di questo
privilegio dei Marchesi di baldacchino, Gregorio XVI nel 1842 nel creare
Marchese il conte Riccini gli concesse il privilegio dei Marchesi di baldacchino.
Questa usanza dei Marchesi di baldacchino fu presa in Roma dopo il secolo
XVII per imitare il costume dei Grandi di Spagna, e si è conservata,
fino ai nostri tempi. I Marchesi di baldacchino presero il don ad imitazione
dei Principi, e timbrarono il loro scudo con la corona a 5 fioroni alternati
da 9 punte perlate. Vedi in proposito ANTONELLI, I Marchesi di baldacchino,
in «Riv. Araldica», 1903, pag. 75.
59 - Il Sovrano Ordine Militare di S. Giovanni di Gerusalemme detto di
Malta è indipendente e non più pontificio, dopo che il Papa
Leone XIII con breve 28 marzo 1879 ristabilì il grado di Gran Maestro
dell’ordine stesso, rimasto vacante dal 1805. Esso è dal
Governo Italiano riconosciuto come ordine italiano, dato che taluni suoi
membri e la rappresentanza del Gran Magistero, per effetto del R. D. 28-11-1929,
hanno avuto assegnato un apposito posto nell’ordine delle precedenze
a corte e nelle funzioni pubbliche. Per l’uso delle insegne dell’ordine
nel regno non occorre alcuna autorizzazione. Circa la sua organizzazione,
in base agli ultimi statuti del 12 aprile 1921, i membri dell’ordine
si dividono in due categorie: membri professi o regolari e membri non
professi. Appartengono alla la categoria: il Gran Maestro, i Balì
Gran Croce di giustizia, i Balì professi, i Commendatori professi,
i Cappellani conventuali, i Cappellani di obbedienza magistrale, i Cappellani,
i Donati di giustizia (il nome di Donato deriva dal fatto che coloro che
richiedevano di essere ammessi all’ordine dovevano, in passato,
aver presentato, cioè donato, una parte dei propri beni alla religione).
Appartengono alla 2a categoria i Balì Gran Croce di onore e devozione,
le Dame decorate della croce di onore e devozione, i Gran Croce magistrali,
i Cavalieri magistrali, gli Ecclesiastici decorati della croce d’oro
pro piis meriti, i Donati di devozione, 1a, 2a e 3a classe. I membri professi
devono aver pronunziato i voti solenni, i non professi non pronunziano
voti. I Cavalieri di giustizia e quelli di onore e devozione devono possedere
determinati requisiti di nobiltà generosa, che per la giurisdizione,
detta Lingua d’Italia, sono quattro quarti di nobiltà nelle
famiglie del padre, della madre, dell’avo paterno e materno, per
non meno di duecento anni e quindi per non meno di 5 generazioni. Dell’anzidetta
nobiltà bisogna dare la prova. La croce di Cavaliere magistrale
è conferita dal Gran Maestro, di regola a persone nobili, ma mancanti
dell’intera nobiltà richiesta per i cavalieri di onore e
devozione, o a persone di elevata posizione sociale per meriti particolari
verso l’ordine. La Gran croce magistrale è concessa raramente,
quando questi meriti siano in grado assai più spiccato. La croce
d’oro pro piis meritis è concessa ai sacerdoti benemeriti
dell’ordine. I Donati di devozione nelle tre classi devono aver
prestato servizi più o meno considerevoli all’ordine, devono
appartenere a famiglie distinte e non hanno altro obbligo che quello di
associarsi alle opere umanitarie dell’ordine. Le Dame congiunte
in matrimonio con Cavalieri di onore e devozione possono aver concessa
la gran croce o la croce dal Gran Maestro di motu proprio o su proposta
per motivi speciali o per servizi eccezionali prestati nell’ordine
dalla signora o dal marito. Nessuno, eccetto le signore, può essere
ammesso nell’ordine senza farne domanda per iscritto. Le decorazioni
dell’ordine non possono usarsi per diritto ereditario. L’ordine
per la Lingua d’Italia è diviso nei tre grandi priorati di
Roma, di Lombardia e Venezia, e delle Due Sicilie. Lo studio più
completo sull’ordine è quello del conte BERTINI FRASSONI,
Il Sovrano Militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme detto di Malta,
Roma 1929, il quale contiene lo spoglio dei processi delle prove di nobiltà
dei Cavalieri di giustizia e di quelli di onore e devozione della Lingua
d’Italia. - Vedi anche ROSSI, Malta (ordine di) in «Enciclopedia
Italiana», 1934. La frase anzicennata quarto di nobiltà serve
ad indicare uno dei 4 cognomi dei gradi più stretti di parentela
di una persona, quello cioè del padre; quello della madre, quello
della madre del padre (cioè ava paterna), quello della madre della
madre (cioè ava materna). Essa deriva dal costume che avevasi di
porre ai 4 angoli della pietà sepolcrale o separatamente le armi
di ciascuna delle 4 famiglie che rappresentavano quella del padre, della
madre, dell’ava paterna e dell’ava materna, oppure di porre
tutte le 4 armi riunite insieme in uno scudo in cima alla pietra tombale.
La prova della nobiltà dei 4/4 è costituita da quella nobiltà
che dal petente attraverso il padre e la madre risale fino all’avo
e all’ava paterni, all’avo e all’ava materni inclusi,
che dovevano essere tutti nobili. La prova della nobiltà di 8/4
è costituita da quella nobiltà che risale dal petente agli
8 bisavi e bisave inclusi dal lato paterno e materno insieme che dovevano
essere tutti nobili. La prova di 16/4 di nobiltà è costituita
da quella nobiltà che risale dal potente ai 16 trisavi e trisave
inclusi dal lato paterno e materno insieme che dovevano essere tutti nobili.
60 - RIVERA, L’opera della Consulta cit., pag. 75.
61 - DEL BUE, op. cit. Del predicato di «magnifico» o di «molto
magnifico».
62 - SABINI, L’ordinamento cit., pag. 72.
Manifestazioni della R. Prerogativa
- Provvedimenti Sovrani di grazia
Gli art. 6 a 11 dell’ordinamento nobiliare stabiliscono le forme
che assumono in modo concreto le manifestazioni della Sovrana Prerogativa.
Anzitutto i provvedimenti nobiliari si distinguono in provvedimenti sovrani
di grazia e provvedimenti governativi di giustizia (art. 6). Sono provvedimenti
di grazia quelli emanati dal Sovrano nell’esercizio della sua facoltà
derivanti dall’art. 79 dello statuto. Detti provvedimenti possono
essere di motu proprio o su proposta del Capo del Governo. Quelli di motu proprio agli effetti fiscali danno diritto alla riduzione ad un terzo
delle tasse erariali 63.
Per l’emanazione dei provvedimenti di Sovrano motu proprio che riguardino
predicati o stemmi è prescritto che sia previamente sentito il
Commissario del Re presso la Consulta Araldica, che rappresenta il consulente
tecnico, indipendente ed obbiettivo della Corona (v. n. 102). Al Commissario
devono essere prontamente comunicati anche gli altri provvedimenti di
sovrano motu proprio (art. 7). I provvedimenti di grazia sono distinti
in concessione, rinnovazione, riconoscimento, autorizzazione, assenso
(art. 10).
I provvedimenti di grazia, sia di motu proprio del Sovrano che su proposta
del Capo del Governo, sono emanati mediante decreto reale, controfirmato
dal Capo del Governo, per il principio della irresponsabilità sovrana.
Per gli art. 53 e 125 dell’ordinamento dello stato civile 15 dicembre
1865 n. 2602 i decreti di concessione di titoli di nobiltà e di
predicati debbono essere annotati in margine all’atto di nascita
e trascritti64
.
Alla persona o ente in favore del quale è stato emanato il decreto
reale in materia nobiliare o araldica, dopo che essa abbia pagato le relative
tasse, viene spedito un diploma sotto forma di lettere patenti sottoscritte
dal Re e dal Capo del Governo, a titolo di documento della avvenuta concessione65
. Dei precedenti storici circa il rilascio del diploma è fatta
parola al n. 70. I provvedimenti di grazia hanno il carattere di atti
discrezionali del Sovrano, e nel caso che da parte Sua siano negati non
si può contro la denegazione esperire alcun ricorso. Nel caso invece
di provvedimenti di grazia favorevoli da parte del Sovrano, il terzo,
che si ritiene leso in un suo diritto dal provvedimento adottato, può
ricorrere avanti l’autorità giudiziaria, come meglio è
detto al n. 120. Per tutti i provvedimenti sia di grazia che di giustizia,
ad eccezione di quelli emanati di motu-proprio del Re, è necessario
il preventivo parere della Consulta o della Giunta Araldica (art. 7, vedi
n. 97, 98, 99).
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63 - R. D. 30.12.1923, n. 3279, tab. A n. 13.
64 - L’indicazione dei titoli nobiliari negli atti dello stato civile
rientra nelle indicazioni permesse dal legislatore, qualora i titoli risultino
iscritti nei Libri Araldici (v. n. 105), ma non si può colla procedura
della rettificazione aggiungersi in un atto di nascita già compilato
un titolo nobiliare omesso (C. App. Firenze 7 gennaio 1931; PERUZZI. Riv.
Amm. 1931, 506.
65 - Cass. Regno, 17 luglio 1931, Bonanno contro Federico in Settim. cass.,
1931, 1889. La restituzione alla Consulta Araldica del diploma di nobiltà
non costituisce revoca, essendo necessario che la Consulta emetta altro
decreto che dia alla avvenuta restituzione il significato di rinuncia.
La concessione
La concessione è l’atto col quale il Sovrano di motu-proprio
o su proposta del Capo del Governo, dà origine ad un nuovo titolo,
predicato, qualifica o stemma nobiliare. La concessione costituisce così
la forma originaria d’acquisto delle distinzioni nobiliari che vengono
create ex novo.
La rinnovazione
La rinnovazione è l’atto col quale il Sovrano fa rivivere
un titolo o un predicato estintosi per mancanza di chiamati alla successione.
Qui abbiamo che il titolo o predicato esistevano, ma si erano estinti
per mancanza di persone che potevano essere chiamate alla successione,
e quindi titolo e predicato erano tornati alla Corona dalla quale erano
stati emanati. Il Sovrano con la rinnovazione li concede a persona che
non poteva succedere alla famiglia, che ne aveva il godimento, ma che
con la famiglia estinta, ai fini della successione nobiliare, aveva legami
di parentela ed identità di cognome. Qui non si ha la creazione
ex novo del titolo o del predicato, ma questi vengono fatti rivivere dal
Sovrano in altre persone che prima non potevano succedere.
Il riconoscimento
Il riconoscimento è l’atto col quale il Sovrano concede sanatoria
per qualche lacuna o deficienza che si riscontri nella prova di antiche
concessioni, o nel passaggio di titoli, predicati o stemmi nobiliari (v.
n. 114, 116). L’intervento sovrano si giustifica col fatto che il
possessore di queste distinzioni non può legittimamente farne uso,
non potendo offrire la prova legale del trapasso in lui o in antenati
delle distinzioni stesse, che avrebbero dovuto ritornare alla Corona,
la quale mediante il riconoscimento le fa invece rivivere legittimamente.
Questo riconoscimento viene chiamato attributivo66
per distinguerlo da quello di giustizia, di ugual nome, che è effettuato
con provvedimento del Capo del Governo (v. n. 54). Nel regolamento del
1896 all’art. 26 si chiamava riconoscimento l’atto governativo
col quale era dichiarato legale un titolo, predicato o stemma. Il riconoscimento
si eseguiva con atto sovrano quando si doveva sanare qualche parte difettosa
nella dimostrazione del legittimo possesso e quando il possesso si fondava
sull’uso pubblico e pacifico di un titolo o predicato non feudale
per quattro generazioni anteriori a quella del richiedente, e con atto
governativo se l’uso del titolo o predicato non feudale risaliva
ad oltre quattro generazioni anteriori a quella del chiedente. Di quest’ultimo
punto si parla al n. 71.
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66 - SABINI, L’ordin. cit., pag. 75.
L’autorizzazione. I titoli
della Repubblica di S. Marino.
L’autorizzazione, secondo gli articoli 1 lett. c) e 10 lett. d)
dell’ordinamento è l’atto col quale il Re consente
che un cittadino italiano accetti un titolo, predicato od altro attributo
nobiliare da una potenza estera o usi titoli onorifici; senza qualifiche
o predicati territoriali, concessi dai Sommi Pontefici dopo il 20 settembre
1870. Dei titoli pontifici il cui trattamento ha subito modifiche per
effetto del R. D. 10 luglio 1930, n. 974, si parla ai nn. 51 e 52. Nel
regolamento del 1896 l’autorizzazione era chiamata conferma, mentre
l’art. 80 dello statuto parla di autorizzazione sovrana. Il ripristinare
l’antica formula di autorizzazione sembra cosa esatta, dappoiché
serve a rafforzare il concetto che il Sovrano dello stato di cui il cittadino
fa parte è solo la fonte degli onori, di cui il cittadino stesso
può godere, e che il conferimento di titoli ed altri attributi
nobiliari stranieri non è altro che una forma di designazione al
Sovrano nazionale di benemerenze acquistate dal designato. La richiesta
di autorizzazione può o non essere accolta, e riveste il carattere
della discrezionalità da parte del Sovrano, il quale nel concederla
o non tiene conto di circostanze varie, sia di natura personale del designato
circa le di lui benemerenze, qualità morali, posizione sociale,
sia politiche nei riguardi dello stato estero che ha concesso la distinzione,
sia nei riguardi delle disposizioni nobiliari vigenti nel regno. Contro
la negata autorizzazione non può esperirsi ricorso alla autorità
giudiziaria.
Per espressa disposizione (art. 28) non è autorizzata l’accettazione
di titoli nobiliari concessi dalla Repubblica di S. Marino dopo il 1860.
Per essi ad un periodo di quasi incondizionato riconoscimento del titolo
di Marchese nel 1878, del Patriziato nel 1886, come dice il Gorino67
è subentrata la prescrizione del diniego assoluto, nonostante che
le patenti di S. Marino siano ammesse dall’Ordine di Malta come
prova di nobiltà generosa per ottenere la croce di giustizia. Tale
prescrizione determinata forse da ragioni contingenti di convenienza pratica,
in conseguenza della credenza formatasi che la Repubblica fosse larga
nelle concessioni, veniva a vulnerare la sovranità dello stato
sammarinese, riconosciuto dalla stessa Italia, per cui una più
esatta valutazione del diritto araldico di S. Marino dovette prevalere,
dato che dal Bollettino ufficiale della Consulta Araldica si rileva essere
stati effettuati fin dal 1930 riconoscimenti, con provvedimento di giustizia
mediante decreto del Capo del Governo, di titoli di concessioni relativamente
recente.
Così i titoli nobiliari di S. Marino vengono ad avere lo stesso
trattamento di quello concesso ai titoli degli stati italiani preunitari.
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67 - GORINO, op. cit., pag. 61, 62. I titoli concessi dalla
Repubblica erano di Duca, Marchese, Conte, Barone, con predicato o senza,
Patrizio ereditario o personale. La concessione del patriziato personale
fu effettivamente larga. Con senato-consulto dell’11 luglio 1907
venne stabilito che da quel giorno non sarebbero stati più concessi
né il titolo di Patrizio né quello di Barone, Conte, Marchese
e Duca, salvo però i diritti già acquistati da coloro che
li avessero avuti precedentemente e che ne avrebbero seguitato a godere
secondo le relative concessioni. La successione sanmarinese è per
maschi da maschi per linea e per ordine di primogenitura per i titoli
specifici, salvo qualche caso di trasmissibilità a tutti i maschi;
per i patriziati è devoluta ai discendenti legittimi e naturali
di ambo i sessi per continuata linea retta mascolina. Vedi PERSICHETTI
Ugolini, I titoli nobiliari della Serenissima Repubblica di San Marino,
«Riv. Aral.», 1926-1927. .
I titoli nobiliari pontifici prima
del 1929
Per quanto riguarda i titoli nobiliari pontifici, gli art. 1 lett. c)
e 10 lett. d) dell’ordinamento li fanno rientrare sotto il provvedimento
dell’autorizzazione sovrana, ma con diversa dizione, non come autorizzazione
ad accettare, ma come autorizzazione al cittadino italiano all’uso
di titoli onorifici, senza qualifiche o predicati territoriali, concessi
dai Sommi Pontefici dopo il 20 settembre 1870.
Inoltre l’art. 35 dell’ordinamento stabilisce che l’autorizzazione
reale ad usare titoli concessi dai Sommi Pontefici dopo il 1870 potrà
esser data nei singoli casi nei limiti del breve di concessione, giusta
le norme stabilite dal R. Governo. Queste disposizioni sono state modificate,
per effetto del concordato, con R. D. 10 luglio 1930, n. 974.
Prima di esporre le modifiche suddette è da fare un breve cenno
sul diritto araldico pontificio.
Il Pontefice68
prima del 1870 riuniva in sé la duplice qualità di capo
dello Stato pontificio e di capo della Chiesa cattolica, venendo ad essere
così l’organo di due specie di rapporti con gli stati: rapporti
di natura religiosa come capo della Chiesa, e rapporti di natura giuridica
e politica come capo dello Stato pontificio.
Quindi nella sua duplice qualità egli era fonte della nobiltà
da lui creata.
Nel 1870 il Pontefice fu privato del potere temporale e con la legge del
13 maggio 1871, numero 214 sulle guarentigie gli furrono resi dal governo
italiano nel territorio del regno gli onori sovrani, mantenute le preminenze
d’onore riconosciutegli dai sovrani cattolici, concesse tutte le
prerogative onorifiche della sovranità e tutte le immunità
necessarie per l’adempimento del suo altissimo ministero. Senonché
fra queste prerogative onorifiche, di una delle più rilevanti,
perché integra uno dei più importanti attributi della sovranità,
quella di concedere titoli nobiliari e onorificenze cavalleresche, non
venne fatta menzione nella legge, per cui sorse il problema se il Pontefice
avesse, anche dopo la caduta del potere temporale, la facoltà di
conferire titoli nobiliari.
In proposito è bene ricordare69
che, anche prima del 1870, non sempre il Pontefice conferiva le onorificenze,
e i titoli nobiliari nella sua qualità di Capo territoriale dei
suoi stati, dato che anche quando faceva concessioni a stranieri egli
agiva nella sua qualità di Capo spirituale della Chiesa, e per
ricompensare benemerenza verso la Chiesa. Esempio storico tipico è
quello della concessione da parte di Pio IV del titolo di Granduca di
Toscana a Cosimo I il grande, Signore di Firenze. Per tale ragione i Pontefici
dopo il 1870, pur venuta meno la potestà temporale, continuarono
a concedere titoli nobiliari e onorificenze, in virtù della loro
sovranità di natura spirituale e di carattere internazionale, e
nessuna disposizione venne mai emanata dallo stato italiano, perché
di essi non si facesse uso nel regno. Negli altri stati cattolici dopo
il 1870 si continuò nei riguardi dei titoli nobiliari e delle onorificenze
pontificie a fare lo stesso trattamento di prima.
Qualora i titoli nobiliari e le onorificenze pontificie fossero ritenuti
concessi da potenza estera si sarebbe potuto chiedere dagli investiti
l’autorizzazione sovrana all’uso, in virtù degli articoli
80 dello statuto e 16 del R. D. 8 maggio 1870 che approva il regolamento
per la Consulta Araldica. Sta di fatto però che non risulta che
fra il 1870 e il 1924 il Governo Italiano sia intervenuto per autorizzare
l’uso di titoli nobiliari pontifici, mentre per le onorificenze
pontificie consentì la autorizzazione con la procedura delle onorificenze
estere, mediante istanza diretta al Ministro degli Esteri. Si venne così
a creare una disparità di trattamento fra titoli nobiliari e onorificenze,
e a ritenere che il Pontefice non avesse avuto più la potestà
di concedere titoli nobiliari, perché non più sovrano territoriale
e nell’esercizio attuale del suo potere, e non venne tenuto conto
della potestà di farlo come sovrano spirituale di carattere internazionale.
Per le onorificenze si ritenne che la potestà della concessione
sarebbe rimasta invece nel Pontefice anche senza l’esercizio della
sovranità territoriale attuale, poiché la conserva anche
il sovrano spodestato per i suoi ordini gentilizi, e non per quelli di
corona, dei quali perde il gran magistero, perché facenti parte
del patrimonio araldico dello stato70
.
Solo nel novembre 1924 il Consiglio dei Ministri con speciale deliberazione,
resa nota a mezzo di circolare diretta ai Prefetti stabilì che
i cittadini italiani insigniti di titoli nobiliari pontifici posteriormente
al 20 settembre 1870 potessero chiedere di far uso dei titoli loro concessi
mediante Decreto Reale di riconoscimento. E poiché tale forma di
riconoscimento importava il pagamento integrale delle tasse secondo la
tariffa fissata dal R.D. 30-12-1923, n. 3279 per la conferma dei titoli
esteri, e quindi in misura elevata, con R. D. Legge 11 ottobre 1925, n.
1794, per facilitare la richiesta di riconoscimento, venne stabilito che
per i Decreti Reali di autorizzazione all’uso legittimo nel regno
dei titoli nobiliari concessi dai Sommi Pontefici dalla fine del 1870
a tutto il 1924 era data facoltà al Ministro delle Finanze di ridurre
ad un terzo, caso per caso e tenuto conto della condizione economica degli
investiti, ed entro il 31 dicembre 1926, la misura delle tasse prescritte.
Dal 1° gennaio 1925 i decreti reali di autorizzazione sarebbero stati
sottoposti alle tasse ordinarie.
Così nell’ordinamento nobiliare del 1929 all’art. 35
venne stabilito che l’autorizzazione Reale ad usare titoli nobiliari
concessi dai Sommi Pontefici dopo il 1870 avrebbe potuto esser data nei
singoli casi nei limiti del breve di concessione, giusta le norme stabilite
dal R. Governo71
.
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68 - GORINO, op. cit., pag. 28.
69 - GORINO, op. cit., pag. 29.
70 - GORINO, op. cit., pag. 35.
71 - L’elenco dei titoli nobiliari (principe, duca, marchese, conte,
barone) concessi dai Sommi Pontefici dopo il 1870, ed autorizzati all’uso
nel regno, è riportato nel Boll. uff. della Consulta Araldica,
1931, n. 41, pag. 155-172.
I titoli nobiliari pontifici dopo
il Concordato Lateranense. (In nota: Il titolo di Conte conferito agli
Arcivescovi e Vescovi assistenti al Soglio Pontificio) .
Sennonché l’11 febbraio 1929 venivano sottoscritti fra l’Italia
e la Santa Sede il Trattato del Laterano per la risoluzione della questione
romana, e fra l’Italia e il Pontefice, nella sua qualità
di Capo della Chiesa, il concordato, diretto a regolare le condizioni
della religione e della Chiesa in Italia.
Nel Concordato veniva stabilito all’art. 41 che l’Italia autorizza
l’uso nel Regno e nelle sue Colonie delle onorificenze cavalleresche
pontificie mediante registrazione del breve di nomina da farsi su presentazione
del breve stesso e domanda scritta dell’interessato, e all’art.
42 che l’Italia ammetterà il riconoscimento mediante Decreto
Reale dei titoli nobiliari conferiti dai Sommi Pontefici anche dopo il
1870 e di quelli che saranno conferiti in avvenire. Saranno stabiliti
casi nei quali il detto riconoscimento non è soggetto in Italia
al pagamento di tassa.
In esecuzione di detti due articoli fu emanato il R. D. 10 luglio 1930,
n. 974, contenente disposizioni relative all’uso delle onorificenze
degli ordini equestri e dei titoli nobiliari pontifici.
Per quanto riguarda le onorificenze agli art. 2 e 3 venne stabilito che
le autorizzazioni a fregiarsi nel Regno e nelle Colonie delle onorificenze
degli ordini pontifici sono concesse ai cittadini italiani e ai cittadini
dello Stato della Città del Vaticano con Decreto Reale e diploma
della Presidenza del Consiglio dei Ministri, previa presentazione di domanda
indirizzata al Capo del Governo, corredata dalla bolletta di versamento
della tassa prevista per le onorificenze estere e dal breve pontificio
originale o in copia autentica, o da un attestato rilasciato dalla Segreteria
di Stato comprovante il diritto al titolo.
Con le medesime modalità ed alle stesse condizioni anziesposte
venne concessa l’autorizzazione all’uso nel Regno e nelle
Colonie delle onorificenze dell’ordine equestre del S. Sepolcro
conferite dal Patriarca di Gerusalemme. Delle onorificenze pontificie
che importano nobiltà è stato detto sopra al n. 18.
Per quanto riguarda i titoli nobiliari, venne stabilito che possono domandare
l’autorizzazione ad usare nel Regno e nelle Colonie titoli nobiliari
pontifici i cittadini italiani e i cittadini dello Stato della Città
del Vaticano, e che sono estese alle autorizzazioni per l’uso dei
titoli nobiliari pontifici, da parte degli stranieri residenti nel Regno,
le norme degli art. 11 e 32 dell’ordinamento nobiliare circa l’uso
da parte degli stranieri stessi dei titoli concessi da potenze estere
(art. 5).
I titoli nobiliari pontifici pei quali è ammessa l’autorizzazione
all’uso sono quelli di Principe, Duca, Marchese, Conte72
, Visconte, Barone e Nobile. Essi a modifica di quanto è stabilito
all’art. 1 lett. c) dell’ordinamento nobiliare, possono essere
o appoggiati sul cognome o a predicati del territorio della Città
del Vaticano, o ad altri, purché puramente onorifici. L’uso
dei titoli e dei predicati anzidetti è autorizzato con provvedimento
Sovrano con le stesse condizioni di trasmissione contemplate nel breve
pontificio di concessione (articolo 6).
L’autorizzazione all’uso dei titoli nobiliari è fatta
con Decreto Reale di autorizzazione, seguito da Regie Lettere Patenti
(art. 9).
I provvedimenti di autorizzazione all’uso sono soggetti al pagamento
delle tasse erariali nella misura stabilita per la concessione dei corrispondenti
titoli italiani.
Quando si tratta di autorizzazione concessa con Decreto Reale di motu proprio, la misura delle tasse erariali è ridotta ad 1/3, e quando
il breve è emesso con dichiarata gratuità da parte della
S. Sede, l’autorizzazione è emanata in esenzione totale di
tasse erariali (art. 8).
È stato rilevato dal Gorino73
che il R. D. 10 luglio 1930 non si è uniformato all’art.
42 del Concordato, per il fatto che detto articolo parla di riconoscimento
(sia pure attribuito), dei titoli nobiliari pontifici, mentre il decreto
suindicato usa il termine autorizzazione all’uso, altrimenti detto
conferma.
Da questa diversità di locuzione, a parte la differenza di carattere
economico che sarebbe stata meno onerosa fiscalmente per gli insigniti,
qualora si fosse parlato di riconoscimento (in caso di riconoscimento
la tassa è di 3/5 di quella stabilita per l’autorizzazione
o la conferma), risulterebbe che non è stato tenuto conto della
natura del diritto araldico pontificio, di carattere spirituale, diritto
legato alla S. Sede come potestà spirituale e non alla sua espressione
statuale, che è lo Stato della Città del Vatican74o
. In virtù di tale carattere i titoli nobiliari pontifici avrebbero
dovuto avere lo stesso trattamento dei titoli degli Stati preunitari del
Regno d’Italia, ed essere considerati come titoli italiani (art.
30 ordinamento).
In contrario, osserva il Sabini 75che
i titoli nobiliari pontifici anche dopo l’entrata in vigore dei
Patti Lateranensi, non possono essere ritenuti alla stessa stregua di
quelli concessi da una Potenza estera, ma devono essere riguardati come
concessi dal Pontefice come Potenza Spirituale. Ciò è dimostrato
anche dal fatto che, pur essendo identica la natura del provvedimento,
e cioè il Decreto Reale di autorizzazione, tanto per i titoli concessi
da una Potenza estera che per quelli pontifici, l’autorizzazione
Sovrana per i titoli esteri racchiude il consenso del Re, affinché
il cittadino accetti la distinzione conferita dal governo straniero, mentre
per quelli pontifici l’autorizzazione riguarda non il consenso all’accettazione,
ma quello all’uso, presupponendosi che il cittadino possa validamente
accettare una distinzione onorifica dalla S. Sede, ma di essa non possa
far uso nel territorio del Regno, senza essersi munito della Sovrana autorizzazione,
la quale perciò deve ritenersi come l’atto di acquisto effettivo
del titolo. Difatti, come si è visto sopra, diversa è la
locuzione adoperata negli art. 1 c) e 10 d) dell’ordinamento.
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72 - Del titolo di Conte Palatino è stata detto
al n. 35. É da ricordare che il titolo di Conte che la S. Sede
suole conferire per antichissima usanza agli Arcivescovi e ai Vescovi,
residenziali o titolari, assistenti al Roglio pontificio non è
un titolo nobiliare, bensì una attribuzione molto simile alle diverse
categorie di onorificenze non riconoscibile, né autorizzabile dallo
Stato Italiano. Per un decreto della S. Congregazione Concistoriale 15
gennaio 1915, d’altro canto i Patriarchi, gli Arcivescovi e Vescovi
residenziali hanno espresso divieto di far uso di insegne e titoli nobiliari
gentilizi, a meno che non si tratti di una dignità secolare annessa
alla loro sede o dell’Ordine di Malta o dell’Ordine del Santo
Sepolcro di Gerusalemme. L’assistenza al soglio pontificio è
una distinzione onorifica della Chiesa; sono assistenti al soglio i rappresentanti
delle grandi famiglie romane Orsini e Colonna che godono di tale privilegio
dal secolo XVI, e talune categorie di ecclesiastici, quali i Patriarchi
(che sono assistenti al soglio nati) e gli Arcivescovi o i Vescovi. -
GORINO, op. cit., pag. 58, 69.
73 - GORINO, op. cit., pag. 55, 56.
74 - Sembra dubbio che lo Stato della Città del Vaticano abbia
un diritto araldico proprio, cui è fatto richiamo nell’art.
20 della legge fondamentale della Città del Vaticano 7 giugno 1929,
non trovandosi nel Trattato del Laterano, accordo di natura internazionale
alcun riferimento a tale diritto. Solo nel Concordato, accordo fra lo
Stato Italiano e la S. Sede, vengono regolati i poteri della S. Sede in
materia araldica, per cui è da ritenere che lo Stato della Città
del Vaticano non sia succeduto nei poteri araldici a quelli tenuti dal
Pontefice come Sovrano temporale prima del 1870. - Vedi GORINO, op. cit.,
pag. 52, 54, 56.
75 - SABINI, L’ordinamento cit., pag. 84, 85.
L’assenso
L’assenso è l’atto con cui il Sovrano presta il proprio
consenso ad alcuni speciali provvedimenti previsti da apposite disposizioni,
e di cui si hanno tre casi: 1) Allorquando un titolo è passato
legittimamente per via femminile in altra famiglia, della quale è
venuta ad estinguersi la discendenza maschile, e si domanda che il titolo
venga a tornare alla agnazione maschile della famiglia alla quale apparteneva
al tempo della abolizione della feudalità, ed osservate però
le nuove norme della successione nobiliare (art. 59); 2) Allorquando ad
una donna maritata prima del 7 settembre 1926 siano pervenuti più
titoli, essa può domandare che con R. Assenso le sia consentito
che, dopo la sua morte, le succeda in qualcuno dei titoli ed annessi predicati
il primogenito che discende da quel matrimonio, purché non si tratti
del predicato che fa parte del nome di uso della famiglia (art. 60). 3)
Il terzo caso è quello pel quale l’attuale intestatario maschile,
possessore di più titoli nobiliari, può chiedere che in
caso di sua morte senza discendenza maschile, succedano in uno dei titoli
ed annessi predicati, purché non si tratti del predicato che fa
parte del nome di uso di famiglia, a preferenza della propria agnazione
maschile, la figlia primogenita dell’unico figlio premorto, o in
difetto, la figlia primogenita, e in difetto dell’ordine successivo
la sorella prossimiore, e, dopo la morte, la rispettiva discendenza maschile
(art. 65).
Come si vede, in questi tre casi trattasi di provvedimenti di carattere
eccezionale, in deroga alle norme ordinarie della successione, e che possono
essere accordati dal Sovrano in considerazione delle speciali circostanze
che li determinano e dei caratteri d’importanza dal punto di vista
delle memorie che può avere la conservazione del titolo in quella
determinata famiglia.
I Provvedimenti governativi di
giustizia
I provvedimenti governativi di giustizia sono determinati per esclusione,
e cioè a dire sono tutti quelli nei quali non vi sia esercizio
di Prerogativa Sovrana, e sono emanati per decreto del Capo del Governo
trattandosi di riconoscimento di diritti già esistenti, i quali
trovano il loro fondamento originario in una concessione sovrana. Di un
altro gruppo di provvedimenti di competenza del Capo del Governo è
detto di seguito (v. n. 55). Anche per i provvedimenti di giustizia vi
è il pagamento delle tasse.
L’art. 11 così esemplifica alcuni provvedimenti di giustizia:
a) il riconoscimento della legale esistenza in una famiglia di un titolo,
predicato, qualifica e stemma nobiliare e della sua devoluzione agli aventi
diritto in base alle norme vigenti. Questo riconoscimento, detto dichiarativo,
si differenzia dall’altro rientrante nei provvedimenti sovrani di
grazia (v. n. 49), in quanto mira non ad una sanatoria sovrana, ma ad
una attestazione da cui in seguito a verifica risultano esistente e legittima
la concessione originaria e regolari i passaggi nei successori. Trattasi
quindi di semplice declaratoria di un diritto esistente. Il riconoscimento
viene effettuato con decreto del Capo del Governo.
Questo riconoscimento può essere negato dal Capo del Governo nel
caso in cui non rinvenga elementi di prova sufficienti a dimostrare la
legittimità attuale del diritto affermato dal chiedente, ed in
tal caso questi di fronte al rifiuto che gli disconosce un preteso diritto
può adire l’autorità giudiziaria contro la Presidenza
del Consiglio dei Ministri per chiedere la dichiarazione di esistenza
del suo diritto non riconosciutagli in via amministrativa (art. 126)76.
Nel caso in cui il non accoglimento della richiesta da parte dell’autorità
amministrativa non importi una lesione del diritto subbiettivo del richiedente,
egli potrà rivolgersi al Re con nuova domanda per ottenere il riconoscimento
con Decreto Reale, provvedimento quest’ultimo che, come è
stato detto (v. n. 46), è di carattere discrezionale, e contro
del quale non può aver luogo ricorso all’autorità
giudiziaria;
b) l’autorizzazione ad usare nel Regno titoli, predicati, qualifiche
o stemmi nobiliari concessi o riconosciuti da una Potenza estera ai propri
sudditi, siano questi o i loro successori tuttora stranieri residenti
nel Regno, o divenuti in seguito cittadini italiani. Lo stesso dicasi
dei titoli nobiliari pontifici concessi a stranieri residenti nel Regno;
c) l’autorizzazione ad uno straniero di usare titoli, predicati,
qualifiche o stemmi nobiliari italiani legittimamente pervenutigli.
Queste due ultime forme di autorizzazione non trovano riscontro nel regolamento
del 1896. S’intende che la prima di queste forme di autorizzazione
non occorre, per il disposto dell’art. 30 dell’ordinamento,
qualora si tratti di cittadini che prima dell’unificazione italiana
erano stranieri (es. austriaci) e che divennero cittadini italiani in
seguito all’annessione delle nuove province, ed i cui titoli concessi
dai Sovrani stranieri sono considerati italiani o ad essi equiparati.
L’ultimo caso c) riguarda titoli italiani concessi a cittadini italiani,
divenuti successivamente stranieri, come nel caso di Nizza e Savoia, o
di titoli italiani pervenuti per discendenza in possesso di cittadini
stranieri.
Anche in questi due casi l’autorizzazione è di competenza
del Capo del Governo, il quale per la sua posizione è in grado
di valutare le condizioni non solo di legittimità delle distinzioni,
ma anche di opportunità di concedere le chieste autorizzazioni.
Non sembra accoglibile l’opinione del Sabini77
che in questi ultimi casi b), c) si tratti non di facoltà discrezionali
del Capo del Governo di concedere o no la autorizzazione, ma di attribuzione
di verifica della legittimità della concessione, e dei successivi
trapassi.
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76 - C. app. Palermo, 2 luglio 1931, Perez c. Federico,
Foro Sic., dic. 1932, 42. É inammissibile l’azione promossa
da un cittadino per dimostrare il suo diritto ad un titolo nobiliare,
se già prima con decreto ministeriale era stata disattesa l’istanza
da lui proposta per ottenere le lettere patenti di Regio assenso.
77 - SABINI, L’ordin. cit., pag. 141.
I provvedimenti governativi di
giustizia e la R. Prerogativa
Oltre i tre casi anziesposti di provvedimenti governativi di giustizia
(n. 54), sono egualmente di competenza del Capo del Governo i provvedimenti
previsti dagli art. 22, 25, 31, 32, 38, 66, 68, dell’ordinamento
nobiliare, di cui appresso sarà detto, i quali per la natura della
materia dovrebbero rientrare nell’esercizio della Prerogativa Sovrana.
In questi casi si tratta, per lo più, dell’esercizio di facoltà
discrezionale, che si risolve non nella dichiarazione o affermazione di
un diritto attualmente esistente, ma in una vera e propria attribuzione
di altri diritti aventi con quello invocato affinità, o in favore
di chi si trova nella condizione di non poter provare una concessione
di limitata importanza78.
Queste attribuzioni sono conferite al Capo del Governo direttamente dalla
legge, e non per presunta delega del Sovrano, dato il loro carattere discrezionale,
che richiede, a volte, accertamenti e valutazioni di carattere politico,
che è opportuno siano fatte dal Capo del Governo che è responsabile
verso il Re dell’indirizzo politico generale, oppure dato che trattasi
di provvedimenti di limitata importanza da non giustificare l’intervento
della Prerogativa Sovrana.
Nessuna contraddizione esiste fra queste attribuzioni conferite al Capo
del Governo e il rafforzamento della Prerogativa Sovrana, cui è
ispirato il nuovo ordinamento nobiliare, ove si pensi che il nuovo ordinamento
costituzionale instaurato dal Fascismo ha effettuato una ripartizione
di competenza fra il Re e il Capo del Governo, e ha trasferito in pratica
in quest’ultimo l’esercizio effettivo di varie Prerogative
Sovrane aventi riferimento all’indirizzo politico che vuol attuarsi79
. La Prerogativa Sovrana non viene poi diminuita nel caso si tratti di
provvedimenti, di limitata importanza, deferiti al Capo del Governo, il
quale ne resta sempre responsabile di fronte al Re.
Per questi provvedimenti di carattere discrezionale, in caso di rifiuto
da parte del Capo del Governo ad emetterli, colui che si ritiene leso
non può esperire alcuna azione giudiziaria o adire il Consiglio
di Stato, poiché trattasi di provvedimenti aventi il carattere
sostanziale di quelli di Regia Prerogativa, quantunque tali non siano
dichiarati nell’ordinamento e siano attribuiti al Capo del Governo.
In questi casi la sostanza vince la forma.
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78 - SABINI, L’ordinamento cit., pag. 144 e seg.
79 - L’ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano,
Roma 1931, pag. 76, 96.
Lo stemma. (In nota: Bibliografia
di stemmari)
Giusta l’art. 4 del nuovo ordinamento costituisce anche distinzione
nobiliare lo stemma, detto anche blasone od arma gentilizia80
, che viene concesso, riconosciuto o rinnovato dal Re, o con provvedimento
governativo del Capo del Governo. Lo stemma è costituito da un
complesso di figure, emblemi e simboli convenzionali che servono ad identificare
la nobiltà di una famiglia o a distinguere una nazione, una provincia,
una città, una corporazione, una famiglia non nobile.
Esso consta di otto parti: scudo, timbro (elmo), corona, manto, sostegni,
contrassegni (decorazioni, ancore) ornamento (cordelliere) leggenda, (divisa)
81.
Di queste parti sono essenziali tre: lo scudo, l’elmo, e la corona.
La materia dello stemma è proprio dell’araldica o blasonario,
ossia l’arte che insegna a comporre le insegne gentilizie, connessa
con l’ordinamento nobiliare. Saranno pertanto in questa trattazione
dati i cenni indispensabili di uso comune.
Ad ogni titolo nobiliare corrisponde uno stemma, e colui che ha diritto
ad un titolo ha altresì diritto a far uso dello stemma, ma non
può dirsi la rovescia che ogni stemma comporti un titolo nobiliare,
dappoiché si hanno stemmi di cittadinanza, concessi per speciali
benemerenze anche a famiglie prive di titoli nobiliari, e di cui qui di
seguito è detto e che non attribuiscono alcuna prerogativa nobiliare.
Per gli stemmi degli ultrogeniti vedi nota al n. 57.
Lo stemma a termini dell’art. 12 dell’ordinamento è
miniato e viene unito al diploma, ossia alle R. Lettere Patenti, o ai
decreti del Capo del Governo. Nel caso di concessione di nuovi stemmi
si suole (come diceva l’art. 46 del regolamento del 1896) che questi
siano composti secondo i desideri dei chiedenti, ma con qualche pezza,
figura, motto od ornamento che indichi il motivo della concessione.
Inoltre si deve aver cura di non ledere i diritti storici e di non ingenerare
confusione con stemmi di altre famiglie (art. 37).
Lo stemma va vistato dal Commissario del Re e va descritto in termini
araldici secondo il vocabolario araldico ufficiale approvato con D. M.
6 febbraio 190682
. Il riconoscimento di stemmi nobiliari è subordinato alla dimostrazione
di nobiltà della famiglia.
Il regolamento del 1896 ammetteva all’art. 56, ai fini del riconoscimento
degli stemmi, per le famiglie di cittadinanza la prova di un possesso
pubblico e pacifico dello stemma, almeno settantenario, unito ad una distinta
civiltà.
Anche il nuovo ordinamento all’art. 38 ne ammette il riconoscimento
ma con maggiori limitazioni. Esso stabilisce infatti: è ammesso
il riconoscimento mediante decreto del Capo del Governo, di stemmi di
cittadinanza a favore di famiglie non nobili ma di distinte civiltà,
quando ne sia dimostrato il pubblico e pacifico possesso per un periodo
di tempo non inferiore a 150 anni. Le ornamentazioni araldiche di tali
stemmi sono limitate all’elmo prescritto dall’art. 13 del
regolamento tecnico araldico, adorno di penne dai colori dello scudo,
senza cercine; né svolazzi, né motti.
Le disposizioni legislative sugli stemmi sono contenute nel R. D. 1°
gennaio 1890 per quelli della Famiglia Reale, e nel R. D. 13 aprile 1905,
n. 234 che approva il regolamento tecnico araldico per l’ornamentazione
esteriore degli stemmi , nel R. D. 11 aprile 1929, n. 504, per gli stemmi83
dello Stato o delle Amministrazioni Governative.
A detti R. D. sarà fatto di seguito richiamo. Manca in Italia uno
stemmario ufficiale di tutte le famiglie nobili, essendo la raccolta predisposta
a cura delle Commissioni Araldiche Regionali tuttora inedita. Per le indicazioni
archivistiche ove possano trovarsi stemmi antichi sono utili le notizie
fornite dal Manaresi citato84
. A proposito dello stemma dello Stato, a tutti noto, è solo da
ricordare che sia nella forma grande che in quella piccola, i sostegni
sono costituiti da due fasci littori addossati con l’ascia all’infuori
(fig. 1, 2).
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Fig. 1 – Grande Stemma
dello Stato. |
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80 - Secondo l’opinione più
accettata gli stemmi trassero la loro origine dalle bandiere o dai vessilli
di cui si hanno traccia presso i Greci e i Romani. Durante il periodo
feudale gli stemmi furono i vessilli del territorio sottoposto ad una
giurisdizione, usati dal feudatario e dai suoi armati, vessilli che venivano
ampliati nel caso di acquisto di nuove terre. Per il fatto che i vessilli
indicanti il territorio si usarono passare nella stessa forma da padre
in figlio diventarono a poco a poco ereditari. L’uso degli stemmi
(vessilli) andò estendendosi dal Sovrano ai grandi feudatari e
poscia ai piccoli tenuti a fornire armati. Successivamente l’uso
si allargò anche alle famiglie nobili di qualsiasi grado e a quelle
che si erano fatte erigere i loro beni allodiali in feudi. Dal 1300 lo
stemma non fu più subordinato al territorio feudale, perché
si fecero concessione di stemmi agli appartenenti al patriziato e alla
nobiltà civica, nobili non di origine feudale. La concessione degli
stemmi andò sempre più allargandosi; ed essi divennero semplici
segni di onore, che potevano essere concessi in via di grazia, rivolta
mediante somme di denaro. È questa la ragione storica perché
lo stemma è autorizzato soltanto alle famiglie nobili. Gli stemmi
di cittadinanza, invece, usati fin dal secolo XVI, e di cui in seguito
è detto, si riferiscono a famiglie che non appartenevano né
alla nobiltà feudale né al patriziato. Arma deriva dalle
armature (e principalmente nello scudo) su cui venivano riprodotti le
figure e i colori dei vessilli. Dal secolo XI si usò la parola
arma nel senso di figura rappresentata sulle armi. Blasone deriva dal
tedesco blasen (suonare il corno) a ricordo, secondo alcuni dei cavalieri
che presentandosi in torneo sonavano il corno per chiamare gli araldi
onde riconoscere il loro stemma.
81 - Si citano le più comuni: DI CROLLALANZA GOFFREDO, Enciclopedia
Araldico-Cavalleresca citata; lo stesso, Glossario Araldico Etimologico
in «Giorn. Arald. Geneal.», 1892 e seg. - TRIBOLATI F., Grammatica
Araldica con aggiunte di G. DI CROLLALANZA, Milano 1904 - BRONDI A. T.,
Nozioni e curiosità araldiche, Milano 1921 - GUELFI CAMAIANI, Dizionario
Araldico, Milano 1921 - MANARESI, voce Araldica in «Enciclopedia
Italiana Treccani », vol. III, Milano 1929.
82 - MANNO, Vocabolario Araldico Ufficiale, Roma, Civelli, 1907.
83 - MANNO, Il Regolamento tecnico-araldico spiegato ed illustrato, Roma,
Civelli, 1906. Da questa opera sono ricavate non poche delle figure appresso
riprodotte.
84 - Raccolte di stemmi si trovano in: Annuario della Nobiltà Italiana
di G. B. e G. DI CROLLALANZA. Di ogni famiglia in esso menzionata è
riportato lo stemma ed un cenno genealogico. Va dal 1879 al 1905. CANDIDA
GONZAGA, Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali, sei
volumi con stemmi o descrizioni di essi, Napoli 1875-1882. DI CROLLALANZA
G. B., Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane
estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890. Contiene la descrizione di stemmi.
Fu continuato dal 1892 al 1903 dal figlio Goffredo (padre di S. E. Araldo,
attuale Ministro dei LL. PP.) con la rubrica Armoriale italiano nel suo
«Giornale Araldico Genealogico Diplomatico ». - Il COLANERI
nella sua Bibliografia Araldica e Genealogica, Roma 1904, ha fatto lo
spoglio delle famiglie di cui è stata pubblicata la storia nel
giornale. Enciclopedia Storico-nobiliare Italiana, diretta dal Mar. V.
SPRETI, Milano 1927-1933. FRANCHI VERNEY DELLA VALLETTA Conte ALESSANDRO,
Armerista delle famiglie Nobili e titolate della Monarchia di Savoia,
Torino 1873. Il Libro d’Oro della Nobiltà Italiana, Roma,
dal 1910 ad oggi. LITTA P., Famiglie Celebri Italiane, prima serie 13
volumi, Milano 1859-1870; seconda serie, Napoli 1902; con tavole a colori.
MANGO DI CASALGERARDO, Il Nobiliario di Sicilia, Palermo. Due volumi con
tavole a colori, 1912-15. MANNUCCI Conte SILVIO, Nobiliario e Blasonario
del Regno d’Italia, Roma 1924-1932. Cinque volumi con stemmi in
nero o descrizione di essi. Comprende tutte le famiglie iscritte nell’Elenco
Ufficiale del 1921. Contiene inoltre l’indice alfabetico delle pezze
blasoniche degli stemmi e ornamenti araldici delle famiglie italiane.
MUGNOS FILADELFO, Teatro geneologico delle famiglie nobili titolate, feudatarie
ed antiche nobili del Fidelissimo Regno di Sicilia viventi ed estinte.
Tre volumi con stemmi in nero. Palermo 1647, 1655; Messina 1670. PADIGLIONE
C., Dizionario delle famiglie nobili italiane o straniere portanti predicati
di titoli ex feudali napoletani e descrizione dei loro blasoni, Napoli
1901. PADIGLIONE C., Delle livree, del modo di comporle e descrizione
di quelle di famiglie nobili italiane. Contiene la descrizione di 800
stemmi. Napoli 1889. PALAZZOLO DRAGO F., Famiglie nobili Siciliane, Palermo
1927, con descrizione degli stemmi. PALIZZOLO GRAVINA V., Il blasone in
Sicilia, ossia Raccolta Araldica. Due volumi con tavole a colori. Palermo
1871-75. PIETRAMELLARA C., Blasonario Generale Italiano, ossia descrizione
degli Stemmi, Tivoli 1898. TETTONI L. e SALADINI F., Teatro Araldico ovvero
Raccolta generale delle armi ed insegne gentilizie delle più illustri
e nobili casate che esistevano un tempo e che tuttora fioriscono in Italia.
Otto volumi con tavole a colori. Lodi e Milano 1841-1848. TIRIBILLI GIULIANI
D., Sommario Storico delle famiglie celebri toscane. Due volumi con stemmi.
Firenze 1862.
Lo stemma della Famiglia Reale
Il Re porta per grande stemma lo scudo di Savoia cimato con cima reale
coronato con la corona di ferro, coi sostegni reali e colle grandi insegne
degli ordini equestri reali; il tutto posto sotto al padiglione Regio
cimato colla Corona Reale di Savoia; tutto lo stemma accollato al fusto
del gonfalone di Savoia, che è cimato coll’aquila Sabauda
d’oro, ha lo stendardo bifido di rosso, crociato e soppannato di
tela d’argento e colle cravatte azzurre scritte coi motti e gridi
d’arme: Savoye, Saint Maurice, Bonnes Nouvelles (fig. 3).
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Fig. 3 – Grande Stemma
di S. M. il Re d’Italia. |
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Nei piccoli stemmi del Re il padiglione è sostituito da manto
Reale, non vi comparisce il gonfalone e si possono tralasciare l’elmo,
i sostegni e le grandi insegne degli ordini equestri, meno il collare
dell’Ordine Supremo.
Lo stemma della Regina ha due scudi, a destra di alleanza, ossia di matrimonio,
cioè lo scudo pieno di Savoia, ed a sinistra di nascita; gli scudi
attorniati dalla cordelliera e coperti del Manto Reale cimato colla Corona
di Regina (fig. 4).
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Fig. 4 - Stemma di S. M. la
Regina Elena d’Italia. |
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Lo stemma del Principe Reale Ereditario ha lo scudo pieno di Savoia
cimato dall’elmo e cimiero, coi sostegni, col manto e colla Corona
della propria dignità (fig. 5).
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Fig. 5 – Stemma di S.
A. R. Umberto Principe Reale Ereditario. |
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Gli stemmi dei Principi Reali e del Sangue hanno lo scudo di Savoia spezzato85
secondo la propria linea, coll’elmo e cimiero, sostegni, manto e
corona della propria dignità (fig. 6) (v. n. 61).
|
Fig. 6 – Stemma delle
LL. AA. RR. i Principi Savoia-Genova. Così
è riprodotto con la corona chiusa nell’Elenco
Ufficiale della Nobiltà Italiana del 1933.
Lo stemma delle LL. AA. RR. i Principi Savoia-Aosta
è uguale, salvo la spezzatura della bordatura
dello scudo, che è d’oro e d’azzurro,
ed il manto che è guarnito di frangia d’oro. |
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I Principi della Reale Casa possono usare piccoli stemmi, togliendo da
quello loro speciale o l’elmo o i sostegni o il manto. Le Principesse
Reali e del Sangue portano lo stemma di Savoia colla spezzatura della
propria linea, in uno scudo a rombo, attorniato dalla cordelliera e sotto
al manto e corona della propria dignità (fig. 7).
Le Principesse Consorti di Principi Reali e del Sangue portano lo stemma
formato da due scudi ovali e accollati, a destra di alleanza, a sinistra
di nascita, attorniati dalla cordelliera e sotto al manto e corona del
Principe marito (fig. 8).
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Fig. 8 - Stemma di S. A. R.
Maria Josè Principessa Reale Ereditaria. |
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Quando un Principe del Sangue godrà del trattamento di Altezza
Reale porterà lo scudo della
propria linea col manto di Principe del Sangue e colla corona di Principe
Reale.
Il Principe Reggente assume, a vita, lo stemma proprio del Principe Reale
Ereditario, conservando lo scudo d’arme colla spezzatura della propria
linea.
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85 - La spezzatura o brisura è una pezza araldica
speciale, che serve ad indicare i rami cadetti di una stessa famiglia.
La Consulta Araldica con la massima 20 aveva stabilito che nelle concessioni
di titoli nobiliari ad ultrogeniti di famiglie già nobili e titolate,
si sarebbe introdotta una spezzatura nello stemma gentilizio od una variante
nella sua ornamentazione esteriore. Con successiva massima 18 novembre
1926 stabilì che agli ultrogeniti venisse riconosciuto lo stemma
tale e quale fu concesso nei diplomi di ordinaria concessione, senza alcuna
spezzatura, bastando le corone a distinguerli dai primogeniti (modifica
della massima n. 20). Rimane però in vigore la massima nel caso
che gli ultrogeniti, ottenendo titoli speciali, abbiano a considerarsi
come ceppo di nuove linee distinte.
Lo stemma delle Province e dei
Comuni - I Gonfaloni – L’emblema Araldico dell’Istituto
del Nastro Azzurro
Possono avere stemmi anche le province, i comuni, gli enti morali, ma
essi non possono servirsi dello stemma dello Stato, ma di quell’arma
o simbolo del quale o avranno ottenuto la concessione o riportato il riconoscimento
(art. 4 Reg. Tecnico Araldico, approvato con R. D. 13 aprile 1905, n.
234).
L’origine degli stemmi dei Comuni medioevali è quello stesso
degli stemmi dei signori feudali (v. n. 56). Fin dai primi tempi dell’uso
degli stemmi, come dice il Rangoni86
, i Comuni per distinguersi fra loro adottarono uno stemma, e generalmente
venne usato dal 1200 alla fine del 1700, sia nella forma originaria, sia
apportando modificazioni determinate da ragioni politiche o dalla aggiunta
di attributi o di qualche capo (v. n. 59) per concessioni sovrane. Alla
fine del 1700 durante la occupazione francese la maggior parte dei comuni
italiani, seguendo l’esempio della Francia, fecero scalpellare i
loro antichi stemmi dagli edifici comunali e dai monumenti, che sostituirono
con emblemi rivoluzionari. Sotto il Regno ltalico (v. n. 19 D), molti
comuni e città chiesero ed ottennero la concessione di un nuovo
stemma o la conferma di quello antico con variazioni, ma questi stemmi
scomparvero con la restaurazione. Durante il 1800 molti comuni, che non
possedevano stemma, se ne crearono uno, anche senza autorizzazione dei
governi dai quali dipendevano. Creata la Consulta Araldica nel 1869 (v.
n. 96), questa con Sua deliberazione del 4 maggio 1870 mirò a togliere
gli abusi esistenti delle ornamentazioni esteriori degli stemmi comunali
e provinciali, ed affermò il principio che solamente ad essa spettava
approvare, far concedere stemmi e riconoscere quelli già da tempo
usati.
Gli stemmi delle province e dei comuni, stabilisce l’art. 39 del
nuovo ordinamento nobiliare, accogliendo la massima 9 dicembre 1926 della
Consulta Araldica, non possono essere modificati. Essi hanno la forma
sannitica con le ornamentazioni prescritte dal citato regolamento araldico
del 1905, senza sostegni o tenenti o motti, salvo antiche o provate concessioni.
Altresì non può essere modificata, per riguardo alle tradizioni
storiche, la forma degli antichi Gonfaloni. La Consulta Araldica determina
la forma per i gonfaloni di nuova concessione.
Con R. D. 17-11-1927 e Regie Lettere patenti 29-3-1928 venne da Vittorio
Emanuele III ac cordata la grazia all’Istituto del Nastro Azzurro
fra i combattenti decorati al valore militare ed ai suoi soci di far uso
di un emblema araldico così descritto (fig. 9): scudo sannitico
timbrato di un elmo corrispondente al tipo pesante, adottato nella nostra
guerra per il taglio dei reticolati nemici: detto elmo sarà ornato
da fregi decorativi d’argento, azzurro e d’oro; il capo, il
campo e la campagna divisi da filetti d’oro ed in azzurro, tutti
o in parte, a seconda delle decorazioni acquisite da chi può portare
l’emblema: sul campo il nastro dell’Ordine Militare di Savoia,
nei suoi colori, posto in banda, filettato d’oro, pei decorati dell’Ordine
stesso, su campo d’oro o su campo azzurro se oltre a detta decorazione
l’insignito possiede anche medaglie d’oro o di argento. Quando
manchi l’Ordine Militare di Savoia un filetto d’oro posto
in banda.
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Fig. 9 - Emblema dell'Istituto
del Nastro Azzurro. |
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In alto a destra una o più stelle d’argento a seconda di
una o più medaglie d’oro al valore militare: a sinistra una
o più stelle d’argento a seconda delle acquisite medaglie
d’argento; sul capo, una o più corone reali, d’oro
per gli ufficiali superiori e d’argento per gli ufficiali inferiori,
a seconda delle promozioni per merito di guerra, eventualmente ordinate
in fascia. La campagna divisa con filetti d’oro, posti in palo in
scomparti corrispondenti ciascuno ad una medaglia di bronzo.
Quando il socio è insignito soltanto di medaglie di bronzo, ed
eventualmente di promozioni per merito di guerra, le medaglie di bronzo
vengono indicate sul campo. Per una sola il campo è tutto azzurro
con filetto d’oro posto in banda; per più medaglie, è
diviso da filetti d’oro in altrettante fascie orizzontali azzurre,
restando abolito il filetto posto in banda87
.
L’emblema è rilasciato dalla Segreteria Generale dell’Istituto,
ed il diritto all’uso cessa nel caso che venga a mancare la qualità
di socio dell’Istituto.
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86 - L. Rangoni Machiavelli, Stemmi delle Colonie, delle
province e dei comuni del Regno d’Italia riconosciuti o concessi
dalla Consulta Araldica del Regno al 1932. Contiene la descrizione degli
stemmi. «Riv. Araldica» 1933, pag. 97 e seg., 1934. Vedi anche
C. SANTA MARIA, Stemmi Provinciali, «Riv. Ar.», 1928, pag.
545 e Stemmi di Stati e Province, «Riv. Ar.», 1933, pag. 22.
87 - Si è fatta la descrizione dell’emblema, dato che essa
non è riportata da altri autori.
IL FASCIO LITTORIO E IL CAPO DEL
LITTORIO
Per effetto del R. D. 14 giugno 1928 n. 1430 i Comuni, le Province e le
Congregazioni di carità sono autorizzati ad innalzare sui loro
edifici e sulle opere da loro eseguite il Fascio Littorio, nonché
a fregiarne i sigilli e gli atti ufficiali.
Inoltre gli Enti parastatali che per servigi resi alla Nazione ne siano
riconosciuti meritevoli, possono essere autorizzati a fare analogo uso
del Fascio Littorio con decreto del Capo del Governo.
Giusta il R D. 12 ottobre 1933, n. 1440, relativo alla istituzione del
Capo del Littorio, l’emblema del Fascio Littorio deve essere disposto
negli stemmi, di cui gli enti anzidetti sono in legittimo possesso ed
iscritti nei libri araldici del Regno, sotto forma di Capo, e costituito
cioè da un Fascio Littorio in oro, circondato da due rami di quercia
e di alloro, annodati da un nastro dai colori nazionali su fondo rosso
porpora situato al centro della terza parte superiore dello scudo. Rimangono
quindi nello scudo riservati all’ente, i due terzi dello spazio
per mettere il suo stemma (fig. 10).
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Fig. 10 – Il Capo del
Littorio. |
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Inoltre il Capo del Littorio può essere concesso anche ad altri
Enti riconosciuti e a privati che, per servizi resi alla Patria e al Re,
ne siano riconosciuti meritevoli. La disposizione in tal caso è
disposta con R. D. su proposta del Capo del Governo, udito il Commissario
del Re presso la Consulta Araldica.
Di tal che, per effetto dell’art. 4 del R. D. 12 ottobre 1933, che
stabilisce che sono abrogate tutte le disposizioni ad esso contrarie o
incompatibili, l’emblema del Fascio Littorio non potrà essere
più dagli enti su indicati accollato a destra dei propri stemmi,
ma potrà pur sempre essere usato dagli enti stessi, purché
non caricato sullo scudo, tutte le volte che esso costituisce di per sé
ornamento di opere pubbliche.
La procedura per ottenere l’autorizzazione a fregiare il proprio
stemma del Capo Littorio, che costituisce un eccezionale riconoscimento
di particolari benemerenze, è quella prevista dall’articolo
109 dell’ordinamento.
È da ricordare che in araldica il Capo è la pezza onorevole
di primo ordine, e rappresenta il simbolo base e tipico del periodo storico
che lo ha prescelto a sua rappresentazione. Siccome serve a ricordare
tutta una epoca storica o fatti celebri si pone in testa agli stemmi particolari
come un comune denominatore88
. Il Capo è adoperato in ricordo di avvenimenti storici celebri.
Si ha per es. il Capo d’Angiò, introdotto in Italia da Carlo
d’Angiò, il quale ai guelfi che lo avevano aiutato nell’impresa
contro Manfredi (1266) concesse loro di portare nelle armi gentilizie
la sua arma in ricordanza del fatto. Esso è d’azzurro a tre
gigli d’oro posti fra quattro pendenti di un lambello di rosso.
Vi sono poi il Capo d’Angiò Sicilia, detto anche Capo di
Napoli, il Capo d’Aragona, il Capo dell’Impero, il Capo di
Firenze, il Capo di Francia, il Capo di Francia Antica, il Capo di Leone
X, il Capo di Malta, il Capo di S. Stefano, il Capo di Savoia, il Capo
di Sicilia, il Capo di Sicilia Svevia.
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88 - GUELFI CAMAIANI, Dizionario Araldico, 2a ed., Milano
1921, voce «Capo».
Stemmi conferiti dal Sommo Pontefice
Per gli stemmi conferiti dal Sommo Pontefice alle persone alle quali possono
essere conferiti titoli nobiliari (v. n. 52) nonché agli ecclesiastici,
agli ordini religiosi ed agli Enti ecclesiastici in genere, è ammessa
dal R. D. 10 luglio 1930 l’autorizzazione all’uso nel Regno,
fatti in ogni caso salvi i diritti storici dei terzi. Gli stemmi concessi
dalla S. Sede agli alti prelati sono strettamente personali (art. 37 or.
nob.).
L’autorizzazione all’uso degli stemmi predetti è fatto
con D. R. di autorizzazione seguito da Regie Lettere Patenti.
Lo scudo, i sostegni o supporti
e i tenenti. (In nota: Gli smalti e la tratteggiatura).
Lo scudo è il fondo o campo sul quale sono figurate le armi, e
nel significato araldica è quella figlia destinata a ricevere gli
smalti89
, i colori, le partizioni, gli emblemi di un’arme gentilizia.
Il Re, la Regina ed il Principe Ereditario usano lo scudo pieno delle
armi di Savoia: di rosso alla croce d’argento.
Tutti i Principi e le Principesse Reali e del Sangue usano lo scudo di
Savoia rotto con la spezzatura speciale della loro linea. Alle linee attuali
di Savoia Aosta e di Savoia Genova (fig. 6) il Re concede rispettivamente,
la spezzatura di una bordatura composta di oro e d’azzurro e di
argento e di rosso.
Le Principesse maritate usano gli scudi accollati di foggia ovata italiana.
Le Principesse nubili usano lo scudo a rombo (v. n. 24, 25).
La Regina e le Principesse della Reale Famiglia attorniano gli scudi dell’arme
con una cordelliera intrecciata e composta di fili d’oro e d’azzurro,
terminata a fiocchi e passata in nodi di Savoia alternati da gruppi. La
Regina vedova e le Principesse vedove e nubili portano la cordelliera
senza gruppi. La Regina Reggente sostituisce alla cordelliera la grande
collana dell’Ordine della SS. Annunziata.
Per le altre persone od enti lo scudo d’arme normale tradizionale
in Italia è quello appuntato e per le donne quello ovato.
Sono tollerate le altre foggie di scudi, riservando la forma romboidale
alle armi femminine (v. n. 68) (fig. 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19,
20, 21, 22, 23, 24, 25).
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Fig. 11
Scudi appuntati e costruzione grafica. |
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Fig.
12
Scudo femminile appuntato |
Fig.
13
Scudo femminile ovato. |
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Fig. 14
Scudo detto
sannitico. |
. |
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Fig. 15
Scudo a punte |
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Fig. 16
Scudo di
forma inglese. |
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Fig. 17
Scudo sagomato. |
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Fig. 18
Scudo sagomato |
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Fig. 19
Scudo sagomato. |
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Fig. 20
Scudo
sagomato. |
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Fig. 21
Scudo
accartocciato. |
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Fig. 22
Scudo a becco. |
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Fig. 23
Scudo appuntato. |
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Fig. 24
Scudo
femminile
elittico. |
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Fig. 25
Scudo femminile a rombo. |
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Nelle concessioni sono da escludere le foggie arcaiche e di torneo inclinate
a tacca, a testa di cavallo, ecc. (fig. 26, 27).
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Fig. 26
Scudo di torneo a tacca. |
Fig. 27
Scudo a testa di cavallo. |
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Si chiama col nome di sostegni o supporti o tenenti tutto ciò
che è posto ad uno o a tutti e due i lati dello stemma per sostenerlo.
Secondo alcuni autori di araldica essi si differenziano fra loro: i sostegni
sono colonne, bandiere, alberi, trofei, ecc.; i supporti sono animali,
i tenenti sono figure umane. Secondo altri autori e il vocabolario araldico
ufficiale si distinguono solo i tenenti dai supporti o sostegni che rappresentano
animali o figure non umane. Possono anche aversi figure miste: un tenente
e un sostegno.
I sostegni degli scudi d’arme della Famiglia Reale sono di due leoni
o al naturale o d’oro, affrontati, controrampanti e rimiranti all’infuori.
Per le altre persone i sostegni o i tenenti si possono riconoscere o concedere.
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89 - Sono chiamati smalti dagli araldisti l’insieme
dei colori e dei metalli e pellicce che possono costituire il campo degli
stemmi. I colori sono il rosso, l’azzurro, il verde, il nero, la
porpora; i metalli sono l’oro e l’argento. Quando le armi
non sono dipinte e cioè nelle stampe, nei disegni sul marmo o sul
bronzo gli smalti si rappresentano con segni convenzionali detti tratteggi,
che indicano: la punteggiatura l’oro; il bianco l’argento;
le linee perpendicolari dalla parte superiore all’inferiore dello
scudo il rosso; le linee orizzontali dall’uno all’altro lato
dello scudo l’azzurro; le linee diagonali tirate dall’angolo
superiore destro (sinistro di chi guarda) alla parte inferiore sinistra
dello scudo il verde; le linee diagonali tirate dall’angolo superiore
sinistro verso la parte inferiore destra il violato o porpora; le linee
tirate in croce, cioè orizzontali e perpendicolari insieme, il
nero, oppure facendo nere il campo o le figure.
L’elmo e gli svolazzi
L’elmo costituisce una parte integrante esterna dell’arme
ed è posto sopra lo scudo. L’uso dell’elmo è
concesso anche alle persone che, non essendo nobili, abbiano diritto di
portare uno stemma. Gli ecclesiastici, le donne, gli enti morali, in massima
non usano l’elmo.
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Fig. 28
Elmo rabescato di fronte con manto. |
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Gli elmi indicano la dignità a seconda degli smalti che li coprono
e secondo la loro posizione, la inclinazione della ventaglia e della bavaglia
e la collana equestre della gorgiera. La superficie brunita o rabescata,
le bordature e cordonature messe ad oro o ad argento, il numero dei cancelli
nella visiera non danno indizio di dignità (fig. 28, 29, 30, 31,
32, 33, 34).
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Fig. 29
Elmo di fronte
con manto |
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Fig. 30
Elmo di pieno profilo. |
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Fig. 31
Elmo di ¾. |
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Fig. 32
Elmo a cancelli. |
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Fig. 33
Elmo a cancelli. |
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Fig. 34
Elmo torneario
germanico. |
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Come ha rilevato il Manno la determinazione del numero dei cancelli
per ogni titolo, come è stato fatto dai passati araldisti, sono
pedanterie di seicentisti, che non trovano riscontro nei monumenti.
Gli elmi si adornano coi loro veli frastagliati a svolazzi trattenuti
sul cocuzzolo da un cercine cordonato in banda. Il cercine o burletto
è costituito da strisci e di stoffa, dai colori dell’arme,
attorcigliate, ripiegate a ciambella per collocarlo sull’elmo e
rattenervi gli svolazzi, detti anche lambrecchini. Il cercine e gli svolazzi
sono divisati cogli smalti dello scudo d’arme, a meno di speciali
concessioni o di casi storici di inchiesta (fig. 35, 36).
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Figg. 35 e 36 - Svolazzi. |
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Nelle concessioni si descrivono gli smalti degli svolazzi, escludendo
le smaltature all’antica fatte con figura o pezze dello scudo.
Gli elmi da sovrapporsi agli scudi d’arme della Famiglia Reale sono
d’acciaio, dorati e rabescati, posti di fronte colla ventaglia alzata
e la bavaglia alzata, colla collana di corazza dell’Ordine dell’Annunziata,
col cercine e gli svolazzi d’oro e d’azzurro e col cimiero
di un ceffo di leone alato d’oro. L’elmo del Re è completamente
aperto ed è coronato dalla Corona di ferro.
Dai nobili e dalle famiglie di cittadinanza si possono usare tutte le
forme di elmi che sono consuetudinarie nell’araldica.
Nelle concessioni si escludono quelle a becco di passero, a berrettone
ed altre arcaiche (fig. 37, 38, 39, 40).
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Figg.
37 e 38
Elmi a becco di passero. |
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Fig. 39
Elmo
a becco di passero. |
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Fig. 40
Elmo a berretto. |
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Gli elmi delle famiglie nobili sono argentati, colla gorgieretta fregiata
di collana e medaglia, colla ventaglia chiusa e la bavaglia aperta, e
si possono collocare o di pieno profilo o di tre quarti a destra. Quando
lo scudo è fregiato dal manto, l’elmo si colloca di fronte.
Essendovi più elmi, i laterali saranno affrontati, quello centrale,
se esiste, sarà collocato di fronte.
Gli elmi delle famiglie di cittadinanza sono abbrunati, senza collana,
colla visiera chiusa e collocati di pieno profilo a destra, ed in base
all’articolo 38 del nuovo ordinamento (v. n. 56) sono adorni di
penne dai colori dello scudo, senza cercine, né svolazzi, né
motti (fig. 41).
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Fig. 41
Elmo di cittadinanza (non visiera a mantice). |
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La corona
Le corone poste sopra lo scudo servono a distinguere la dignità
del proprietario dell’arme. Il posto delle corone di grado è
sopra il margine superiore dello scudo, e quando si pone la corona non
si deve porre l’elmo. Ciò non toglie, dice il Tribolati,
che nell’uso approvato non si pongano regolarmente le corone volanti
sugli scudi e si decorino gli elmi delle corone di grado e di dignità.
La corona della Famiglia Reale
Le corone della Famiglia Reale hanno tutte la stessa base d’un cerchio
d’oro coi margini cordonati, fregiato con otto grossi zaffiri, su
cui cinque visibili, attorniati ciascuno da dodici gemme. Il cerchio è
sormontato da quattro foglie di acanto d’oro (tre visibili) caricato
in cuore di una perla, separato da quattro crocette di Savoia (due visibili),
smaltate di rosso e ripiene di bianco, pomate con quattro perle ed accostate,
ciascuna, da due perle collocate sopra una piccola punta, il tutto movente
dal margine superiore del cerchio.
Il Re usa due corone: quella Reale di Savoia e quella regale d’Italia.
La Corona Reale di Savoia è chiusa da otto vette d’oro (cinque
visibili) moventi dalle foglie e dalle crocette, riunite con doppia curvatura,
sulla sommità, fregiate all’esterno da grosse perle decrescenti
dal centro o sostenenti un globo d’oro cerchiato, cimato, come Capo
e Generale Gran Maestro dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro,
da una crocetta d’oro, trifogliata movente dalla sommità
del globo.
La Corona Reale d’Italia è quella detta Corona di ferro che
si conserva nel Real Tesoro della Cattedrale di Monza (v. fig. 3).
La corona della Regina è uguale a quella del Re colla sostituzione,
alla crocetta trifogliata, di una crocetta piana, d’oro, pomata,
alle tre estremità superiori con altrettante piccole perle e movente
dalla sommità del globo.
La Corona del Principe Reale Ereditario è simile a quella della
Regina, ma con sole quattro vette (tre visibili), moventi dalle foglie.
La Corona dei Principi Reali è chiusa da un semicerchio d’oro,
movente dalle foglie laterali, fregiato superiormente con una fila di
piccole perle, tutte uguali, e cimato dal globo, cerchiato e crociato,
eguale a quello della Corona del Principe Reale Ereditario.
La Corona dei Principi del Sangue non è chiusa. La Corona del Re,
della Regina e del Principe Ereditario sono foderate di un tocco di velluto
chermisino.
La corona delle famiglie nobili
Le famiglie nobili usano corone d’oro formate da un cerchio, brunito
o rabescato, gemmato, cordonato ai margini e sostenente le insegne del
titolo o dignità.
La corona corrispondente al titolo nobiliare spetta solamente all’intestatario
del titolo. I membri della famiglia dell’intestatario possono usare
lo stemma sormontato dalla corona di Nobile.
La corona normale di Principe è sormontata da otto foglie di acanto
o fiorone d’oro (cinque visibili), sostenute da punte e alternate
da otto perle (quattro visibili) (fig. 42). Sono tollerate le corone di
Principe che non hanno i fioroni alternati da perle o che sono bottonati
di una perla o che hanno le perle sostenute da punte o che sono chiuse
col velluto del manto a guisa di tocco sormontato o no da una crocetta
d’oro o da un fiocco d’oro fatto a pennello (fig. 43, 44,
45, 46).
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Fig. 42
- Corona normale di Principe. |
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Fig. 43
e 44 - Corone tollerate di Principe. |
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Fig. 45
e 46 - Corone tollerate di Principe. |
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Le famiglie decorate del titolo di Principe del Sacro Romano Impero
possono portare lo speciale berrettone di questa dignità (fig.
47). La Corona normale di Duca è cimata da otto fioroni d’oro
(cinque visibili) sostenuti da punte. Sono tollerate le corone di Duca
coi fioroni bottonati da una perla o chiuse col velluto del manto a guisa
di tocco (fig. 48, 49).
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Fig. 47
- Corona di Principe del S. R. I. |
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Fig. 48
Corona normale di Duca. |
Fig. 49
Corona tollerata di Duca. |
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Le famiglie che furono riconosciute nell’uso attuale di un titolo
di creazione napoleonica possono usare il tocco piumato indicante il loro
titolo (fig. 50, 51, 52, 53).
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Fig. 50
Tocco piumato
di Duca Napoleonico. |
Fig. 51
Tocco piumato
di Conte Napoleonico. |
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Fig. 52
Tocco piumato
di Barone Napoleonico. |
Fig. 53
Tocco piumato
di Cavaliere Napoleonico. |
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La Corona normale di Marchese è cimata da 4 fioroni d’oro
(tre visibili), sostenuti da punte ed alternati da 12 perle disposte a
tre a tre in quattro gruppi piramidali (due visibili). Sono tollerate
le corone di Marchese coi gruppi di perle sostenute da punte o colle perle
a tre a tre una accanto all’altra e collocate o sul margine della
corona o sopra altrettante punte (fig. 54, 55, 56, 57).
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Fig. 54
Corona normale di Marchese. |
Fig. 55
Corona tollerata di Marchese. |
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Fig. 56
e 57
Corone tollerate di Marchese. |
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Fig. 58
Corona normale di Conte. |
Fig. 59
Corona tollerata di Conte. |
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La Corona normale di Conte è cimata da 16 perle (nove visibili).
Sono tollerate le Corone di Conte colle perle sostenute da punte cimate
da 4 grosse (tre visibili) perle alternate da 12 piccole disposte in 4
gruppi (due visibili) di tre perle ordinate a piramide o collocate una
accanto all’altra o sostenute dal cerchio o da altrettante punte
(fig. 58, 59, 60, 61, 62, 63).
Con la massima 21 febbraio 1915 della Consulta Araldica venne stabilito
che la corona da usarsi dai Conti Palatini è quella Comitale a
3 punte alzate e a 6 ribassate.
La Corona normale di Visconte è cimata da 4 grosse perle (3 visibili)
sostenute da altrettante punte ed alternate da 4 picçole perle
(due visibili), oppure da due punte d’oro (fig. 64, 65).
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Fig. 60
e 61
Corone tollerate di Conte. |
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Fig. 62
e 63
Corone tollerate di Conte. |
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Fig.
64 e 65
Corone tollerate di Visconte. |
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La Corona normale di Barone ha il cerchio accollato da un filo di perle
con 6 giri in banda (tre visibili). Sono tollerate le corone di Barone
col tortiglio alternato sul margine del cerchio da 6 grosse perle (4 visibili),
oppure omesso il tortiglio colla cintura di 12 perle (7 visibili) o collocate
sul margine del cerchio o sostenute da altrettante punte (fig. 66, 67,
68, 69).
La Corona normale di Nobile è cimata da 8 perle (5 visibili). È
tollerata la corona di Nobile colle perle sorrette da altrettante punte
(figure 70, 71).
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Fig. 66
Corona normale di Barone. |
Fig. 67
Corona tollerata di Barone. |
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Fig. 68
e 69
Corone tollerate di Barone. |
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Fig. 70
Corona nomale di Nobile. |
Fig. 71
Corona tollerata di Nobile. |
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La Corona normale di Cavaliere ereditario è cimata da 4 perle
(3 visibili) (fig. 72).
Le famiglie decorate del Cavalierato germanico possono fregiare lo scudo
d’arme secondo le varie insegne state attribuite, nei diversi tempi,
nei diplomi di concessione.
La Corona normale di Patrizio è formata dal solo cerchio. Per quei
patriziati pei quali potrà essere dimostrato con documenti o monumenti
di storica importanza che godettero l’uso molto antico di corone
speciali, queste potranno essere riconosciute caso per caso (fig. 73).
Con la massima 8 giugno 1911 la Consulta stabilì che i Patrizi
Veneti possono far uso di una corona speciale formata da un cerchio d’oro
gemmato sostenente 8 fioroni (5 visibili) a foggia di gigli stilizzati
ed imperlati sostenuti da altrettante perle (fig. 74).
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Fig 72
Corona di Cavaliere ereditario. |
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Fig. 73
Corona di Patrizio. |
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Fig. 74
Corona Speciale di Patrizio Veneto. |
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Le famiglie nobili o patriziali senza possesso di titolo speciale di
nobiltà usano la corona collocandola sopra l’elmo. Le famiglie
insignite della nobiltà germanica possono usare l’elmo cimato
dalla coroncina tornearia, cioè di 4 fioroni (tre visibili) alternati
da 4 perle (2 visibili); ma questa corona non si può usare staccata
dall’elmo, del quale è fregio speciale e indivisibile (v.
fig. 34).
Le famiglie titolate fregiano il loro scudo con due corone: una più
grande appoggiata al lembo superiore dello scudo e contornante l’elmo
ed un’altra più piccola sostenuta dall’elmo stesso.
La corona maggiore sarà quella relativa al titolo personale, la
minore quella del titolo più elevato della famiglia (fig. 75).
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Fig. 75
Corona del titolo personale (Nobile) con l'elmo
cimato della Corona di famiglia (Conte) N. N.
Nobile dei Conti. |
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I Cardinali, gli ecclesiastici regolari, i Cavalieri di giustizia e professi
dell’Ordine di Malta non portano la loro corona gentilizia, ma le
insegne speciali della loro dignità e qualità (fig. 76,
77, 78, 79, 80, 81, 82, 83).
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Fig. 76 - Insegne
della dignità di Cardinale (fiocchi
rossi). |
Fig. 77 - Insegne
della dignità di Cardinale Camerlengo
(fiocchi rossi). |
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Fig 78 - Insegne
della dignità di Patriarca (fiocchi
verdi). |
Fig 79 - Insegne della
dignità
di Arcivescovo (fiocchi verdi). |
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Fig. 80 - Insegne
della dignità di Vescovo (fiocchi
verdi). |
Fig. 81 - Insegne
della dignità di Prelato domestico
(fiocchi pavonazzi). |
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Fig 82 - Insegne
della dignità di Protonotaro partecipante
(fiocchi neri). |
Fig. 83 - Insegne
della dignità di Cameriere d'Onore
(fiocchi neri). |
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Le donne maritate usano la corona corrispondente al grado del loro consorte;
le donne nubili, a meno di concessioni speciali, portano la sola corona
del titolo personale.
La corona degli enti morali: Provincia,
Città, Comune
Anche gli enti morali possono fregiare la loro arme o insegna con quelle
corone speciali delle quali si proverà la concessione o il possesso
legale.
La Corona della Provincia (a meno di concessione speciale) è formata
da un cerchio d’oro, gemmato, colle cordonature liscie ai margini,
racchiudente due rami, uno d’alloro e uno di quercia al naturale,
uscenti dalla corona, decussati e ricadenti all’infuori (fig. 84).
La Corona di Città (a meno di concessione speciale) è formata
da un cerchio d’oro aperto da 8 pusterle (5 visibili) con due cordonate
a muro sui margini sostenente 8 torri (5 visibili) riunite da cortine
di muro, il tutto d’oro e murato di nero (fig. 85).
La Corona di Comune (a meno di concessione speciale) è formata
da un cerchio aperto da 4 pusterle (3 visibili) con 2 cordonate a muro
sui margini, sostenente una cinta, aperta da 16 porte (9 visibili), ciascuna
sormontata da una merlatura a coda di rondine, e il tutto murato di nero
(fig. 86).
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Fig. 84
Corona di Provincia. |
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Fig. 85
Corona di Città. |
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Fig. 86
Corona di Comune. |
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Il cimiero, la ornamentazione
della basilica, il manto, i motti e le distinzioni di dignità.
Il cimiero 1
è una figura che cima l ‘elmo, e si colloca sul suo cocuzzolo.
Per le famiglie titolate esce dalla piccola corona di famiglia. In massima
non si concedono cimieri se non a famiglie nobili e titolate, e si escludono
per gli stemmi che non portano l’uso di elmo (fig. 87, 88).
L’art. 37 dell’ordinamento nobiliare stabilisce che l’uso
del cimiero in forma di Corno Dogale spetta ai Patrizi Veneti discendenti
per linea retta maschile dai Dogi di Venezia (fig. 89).
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Figg. 87 e 88 - Cimieri. |
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Fig. 89
– Corno dogale. |
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Ove la discendenza diretta maschile sia estinta, l’uso di tale
cimiero può essere riconosciuto a favore della linea collaterale
agnatizia prossimiore.
In base all’articolo predetto l’ornamentazione araldica della
Basilica , è riconosciuta ai capi delle famiglie papali e di quelle
che ne hanno ottenuta speciale concessione.
Il manto o mantello è riservato al Re, alla Regina, al Principe
Reale Ereditario, ai Principi Reali, ai Principi del Sangue, e come distinzione
ereditaria è annessa solo ai titoli di Principe e di Duca.
Il Re ha due manti, il grande ed il piccolo. Il grande che serve di cortinaggio
al padiglione è di velluto chermisino, sparso di ricami d’oro
e d’argento, bordato di un gallone d’oro dell’Ordine
Supremo, guarnito di frangia e foderato di ermellini. Il piccolo è
di velluto chermisino, bordato, guarnito e foderato come il grande.
La Regina e il Principe Ereditario usano il piccolo manto reale.
Il manto dei Principi Reali e di quelli del Sangue è di velluto
chermisino, foderato di ermellini, ma quello dei primi è guarnito
di frangia d’oro e quello dei secondi è bordato con una striscia
di ermellino.
I manti della famiglia Reale si annodano in alto con cordoni d’oro
passati in nodi di Savoia. Il manto dei Principi e dei Duchi è
di velluto porpora soppannato di ermellino senza galloni, ricami, bordature
e frangie, e si colloca movente o dall’elmo o dalla corona, accollato
allo scudo annodato ai lati in alto con cordoni d’oro (figure 90,
91).
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Fig. 90
Manto movente dalla Corona. |
Fig. 91
Manto movente dall'elmo. |
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I motti si scrivono sopra liste bifide e svolazzanti smaltate come nel
campo dello scudo e scritte con lettere maiuscole romane (fig. 92).
Di regola si collocano sotto la punta dello scudo. Si rispettano le tradizioni
storiche per i motti scritti con caratteri speciali e per i gridi d’armi.
Nelle concessioni i motti saranno italiani o latini e scritti con lettere
non arcaiche. Non si fanno concessioni di gridi d’arme, di pennoni,
di bandiere, bracciali e altre insegne.
I Cavalieri dell’Ordine della SS. Annunziata possono accollare al
loro scudo il manto dell’ordine, gli ecclesiastici possono usare
le insegne della loro dignità, i magistrati aventi il grado di
primo presidente possono accollare lo scudo colle mazze e colla toga delle
loro dignità e cimarlo col rispettivo tocco (fig. 93, 94).
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Fig. 93
Manto di Cavaliere della SS.
Annunziata movente dalla corona di Conte. |
Fig. 94
Manto di Primo Presidente di Cassazione. |
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Gli ufficiali generali di terra possono accollare al loro scudo le bandiere
nazionali decussandole in numero di sei se generali comandanti di corpo
d’armata, di quattro se tenenti generali, di due se maggiori generali
(fig. 95, 96, 97). Gli ufficiali generali di mare possono accollare il
loro scudo ad un’ancora se contrammiraglio; a due ancore decussate
se vice ammiraglio (fig. 98, 99).
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FIG. 95, 96,
97, 98, E 99 – INSEGNE DI DISTINZIONE. |
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Maggior
Generale. |
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Tenente Generale. |
Comandante Corpo d’Armata. |
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Contrammiraglio |
Vice Ammiraglio. |
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I decorati di ordini equestri possono fregiare il loro scudo colle insegne
delle loro decorazioni. I cavalieri di gran croce decorati del gran cordone
dell’ordine dei SS. Maurizio o Lazzaro continuano a cingere lo scudo
con la gran fascia verde annodata da più cifre reali coronate d’oro
(fig. 100).
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Fig. 100
Insegne della dignità di Gran Cordone
Mauriziano. |
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1 - La Basilica, secondo il Manno (Vocabolario Araldico
cit.), è raffigurata da un gonfalone papale a guisa di ombrellone
a gheroni rossi e gialli coi pendenti tagliati a vaio e di colori contrastanti;
l’asta a forma di lancia coll’arresto ed attraversata dalle
chiavi pontificie, una d’oro e l’altra d’argento, decussate,
addossate gli ingegni in alto, legate di rosso. La massima 51 della Consulta
Araldica riporta la definizione della Basilica: « il gonfalone della
Camera Apostolica accollato con le chiavi pontificie, cimandone lo scudo
e ponendola in capo, secondo la tradizione ».
Le insegne femminili
Circa le insegne femminili è stato detto sopra (n. 61) per quanto
riguarda la Famiglia Reale.
Per le altre donne, le nubili possono portare l’arma della famiglia
sopra un carello o tessera romboidale (v. n. 61) od ovata cimata dalla
corona del loro titolo personale e circondata da una cordigliera d’argento
sciolta o da una ghirlanda di rose (fig. 101, 102).
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Fig. 101
Insegne di Principessa nubile. |
Fig. 102
Insegne di Baronessa nubile. |
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Le maritate portano le insegne gentilizie di nascita, accollate ed a
sinistra di quel del marito colla corona che gli appartiene, e possono
fregiare gli scudi colla cordigliera d’argento annodata o con due
rami di olivo decussati sotto la punta degli scudi e divergenti (fig.
103, 104, 105, 106).
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Fig. 103
Cordigliera di Dama maritata. |
Fig. 104
Insegne di Dama maritata. |
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Fig. 105
Insegne di Dama maritata. |
Fig. 106
Insegne di Dama maritata. |
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Le dame vedove portano le insegne gentilizie come le donne maritate,
ma colla cordigliera sciolta, oppure con 2 rami di palma decussati sotto
la punta dello scudo (fig. 107, 108).
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Fig. 107
Insegne di Principessa vedova. |
Fig. 108
Insegne di Dama vedova. |
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Le insegne femminili di massima non sono fregiate da elmi, cimieri, sostegni
e tenenti. Possono usare i motti.
Per le armi femminili di cittadinanza si ometteranno tutti gli ornamenti
esteriori, fuorché i motti.
Le tasse nobiliari e i diritti
di cancelleria
In base all’art. 30 dello statuto del Regno nessun tributo può
essere imposto ai cittadini o riscosso se non è stato consentito
dalle Camere e sanzionato dal Re.
I provvedimenti relativi ai titoli nobiliari, sia di grazia che di giustizia,
dato che importano la prestazione di un servizio, sono sottoposti al pagamento
di speciali tasse, che sono stabilite mediante provvedimento legislativo.
Questi provvedimenti sono il R. D. Legislativo 30 dicembre 1923 n. 3279,
il R. D. 10 luglio 1930,
n. 974; il R. D. 22 settembre 1932 n. 1464. Le tasse riguardo ai titoli
nobiliari sono:
Per i provvedimenti di grazia:
Per concessione di titoli e predicati nobiliari nazionali, o per autorizzazione
a riceverli da Potenza estera o per conferma di quelli ricevuti:
Per il titolo di Principe L. 72.000
Per il titolo di Duca L. 60.000
Per il titolo di Marchese L. 36.000
Per il titolo di Conte L. 30.000
Per il titolo di Visconte L. 18.000
riducibili a 3/5 qualora i titoli non siano trasmissibili agli eredi.
Nel caso di concessione con motu proprio la tassa è ridotta a 1/3.
Per qualunque altro titolo o per l’aggiunta anche contemporanea
di predicato L. 9600.
Per rinnovazione o riconoscimento dei titoli o predicati suddetti la tassa
è ridotta a 3/5 di quella sopraindicata.
Per concessione o approvazione di stemmi a privati, società o altri
enti; o per conferma di stemmi concessi da Potenze estere: per gli stemmi
civici L. 120, per gli altri stemmi se trasmissibili agli eredi L. 1440,
se non trasmissibili L. 1080.
Per rinnovazione o riconoscimento di stemmi 3/5 di quella suddetta.
Per amplificazione di stemmi, esclusi quelli civici, L. 600.
Per l’autorizzazione a fare uso di decorazioni ed onorificenze che
facciano parte di ordini stranieri ritenuti cavallereschi secondo i concetti
tradizionali: se sono ereditarie o importino titolo ereditario la tassa
è di L. 108; in ogni altro caso, importino o no titolo ereditario,
L. 36.
La tassa di autorizzazione è dovuta indipendentemente da quella
di concessione di titolo e predicato nazionale o per autorizzazione a
ricevere o far uso di titoli esteri.
La tassa è però ridotta a metà per i pubblici funzionari
o i militari.
Non sono comprese fra le onorificenze cavalleresche le onorificenze al
merito o al valore conferite in segno di riconoscimento di speciali atti
individuali di benemerenza, né le medaglie ed altre decorazioni
commemorati ve distribuite a chi ha preso parte ad un dato avvenimento
indipendentemente dall’azione personale svoltavi.
Per i provvedimenti di giustizia la tassa è ridotta ad 1/20 di
quella stabilita per quelli di grazia, a seconda della diversa natura
dei provvedimenti di giustizia, in base al R. D. 22-9-1932 n. 1464, riportato
al n. 128 (v. n. 106).
Ma oltre queste tasse riscosse dallo Stato, alle spese del servizio araldico
viene provveduto mediante la percezione di appositi diritti di cancelleria
che sono dovuti a titolo di rimborso delle spese sostenute dallo Stato
e la cui riscossione a cura dell’Ufficio Araldico è eseguita
dal cassiere della Presidenza del Consiglio dei Ministri come stabilisce
l’art. 108 dell’ordinamento nobiliare modificato dal R. D.
6 novembre 1930 n. 1494, che determina la nuova misura dei diritti di
cancelleria anzidetti. Con Decreto del Capo del Governo 20 febbraio 1931
sono stati temporaneamente aumentati i diritti di cancelleria.
Modi di acquisto delle distinzioni
nobiliari: originario e derivato; raffronto. La investitura - Il privilegio
È stato detto che parti innovative del nuovo ordinamento sono quelle
concernenti le norme generali per la concessione, il riconoscimento, l’uso
e la perdita delle distinzioni nobiliari e la successione ai titoli e
attributi nobiliari.
Alla luce delle premesse storiche e giuridiche sovra esposte non poche
disposizioni dell’ordinamento riusciranno di chiara interpretazione
e dimostreranno che le disposizioni stesse sono state prevalentemente
uniformate alle tradizioni dell’ex Regno delle due Sicilie, la cui
nobiltà aveva dato luogo alla quasi totalità delle vertenze
giudiziarie svoltesi in materia araldica dal 1860 in poi.
È anche da ricordare che il nuovo ordinamento cerca, per quanto
lo consentano i suoi principi informatori, di rispettare i diritti già
costituiti.
Poichè fonte di tutte le distinzioni nobiliari è il Sovrano,
non possono essere riconosciute quelle di cui non si possa giustificare
l’avvenuta concessione originaria o altro modo legittimo di acquisto,
nonchè la legittimità del trapasso in favore di colui che
ne chiede il riconoscimento (articolo 13).
A proposito di questo articolo è da ricordare che, come si è
visto (n. 47, 48, 49), le distinzioni nobiliari possono sorgere, in seguito
a manifestazione della volontà Sovrana, con la forma o della concessione,
o della rinnovazione, o del riconoscimento, forme queste che costituiscono
il modo originario di acquisto.
Accanto a questo modo originario ve ne è un altro, chiamato derivato,
che è quello in cui non interviene la manifestazione attuale della
volontà Sovrana, ma l’acquisto delle distinzioni nobiliari
si verifica in virtù delle disposizioni contenute in una antica
concessione Sovrana, e ciò avviene nell’acquisto dei titoli
mediante successione.
È stato già detto (n. 9) che nella sua origine il titolo
nelle leggi feudali era generalmente connesso col feudo, il quale fu dapprima
concesso intuitu personae, cioè personalmente, e poi successivamente
fu ammessa la successione nei feudi. Col decadere del feudalesimo il titolo
venne anche scisso dal feudo e potè effettuarsi la vendita del
feudo, retenti titulo.
Parlando della successione nei feudi (n.ri 8, 9, 10, 15, 16) è
stato detto del modo con cui essa avveniva secondo il diritto franco,
longobardo, o nella forma napoletana e siciliana, per cui per vedere in
qual modo si verificava la successione nei titoli bisognava anzitutto
far capo ai patti e clausole contenute nell’atto di concessione
del feudo, detto investitura2.
Era poi dottrina feudale accolta che se dalla investitura si rilevava
la volontà espressa del concedente e dell’investito di alterare
la comune essenza del feudo, questa volontà andava rispettata prima
di applicarsi il diritto romano comune. Siccome poi nelle consuetudini
feudali (libro II, titolo 30 e 50) si accennava che, quando nell’investitura
erano espressamente compresi i figli e i discendenti, spettava loro la
successione ex pacto (feudale), allorquando invece si trovava nella investitura
tassativa menzione degli haeredes o successores doveva intendersi per
diritto romano che nel feudo erano successibili gli eredi ed i successori
estranei (v. n. 8).
Bisognava poi però tener conto delle disposizioni legislative intervenute
successivamente alla concessione che allargassero o restringessero le
regole di successione nei feudi nei singoli Stati, o impedissero la successione
nei titoli. Così per esempio le R. Costituzioni 7 aprile 1770 di
Carlo Emanuele III in Piemonte (v. n. 19 A), la clausola per sé
e suoi eredi e qualsivoglia successori apposta nelle investiture già
concesse, dei feudi era dichiarata per sé stessa non atta ad immutare
la natura del feudo semplice, retto e proprio, e nonostante detta clausola
i feudi dovevano considerarsi come conceduti per retti e propri.
Inoltre la clausola d’eredi e successori che si trovasse in qualsivoglia
modo apposta nelle investiture dei feudi non avrebbe dovuto intendersi
se non degli eredi e successori del sangue e si avrebbero avuto con essa
per chiamati solamente i figli e discendenti, abolita la specie di feudo
misto (libro VI, titolo III, cap. 1).
Così è da ricordare che mentre per diritto feudale comune
la confisca dei beni non comprendeva anche i titoli, i quali venivano
perduti dal colpevole, ma non da chi doveva succedergli (v. n. 9), in
taluni Stati, e fra essi la Toscana, venne stabilito con la legge 31 luglio
1750 che pel delitto di lesa maestà erano privati dei titoli non
solo il reo, ma anche i suoi figli e nipoti, nati prima e dopo la condanna,
e per gli altri delitti non venivano privati dei titoli i figli e i nipoti
nati prima della condanna (v. n. 20 I). È anche da ricordare che
fu ritenuto che per regola i titoli non potessero formare oggetto di vendita,
donazione, testamento, legato (v. n. 9, 15), concetto questo confermato
dallo Stato Italiano con Decreto ministeriale 13 marzo 1888, affermante
che nei casi di vendita di terre ex feudali su cui erano annessi titoli
nobiliari, gli acquirenti non acquistavano alcun titolo nobiliare.
Inoltre i figli naturali ed adottivi erano esclusi dalla successione (v.
n. 86, 88).
Ma a tutte le anzidette regole sulla successione nei titoli in uso nelle
varie regioni del Regno sono subentrate dal 7 settembre 1926 le disposizioni
del nuovo ordinamento (art. 53 a 68).
È stato fatto sopra cenno del termine investitura. Esso viene adoperato
in vari significati: per indicare la cerimonia solenne nella quale il
vassallo piegando il ginocchio prometteva fedeltà al proprio Sovrano
e questi a sua volta gli concedeva protezione e gli conferiva simbolicamente
il feudo, mediante la consegna in mano di un bastone, di una spada, di
una coppa d’oro, di un ramo d’albero detto festuca, e con
l’anello ed il bacolo per i prelati; per indicare il documento,
le pergamene o le carte in cui venivano scritti i patti feudali e che
avrebbero servito come titoli perpetui ai feudatari e di cui copia rimaneva
al Sovrano; per indicare la rinnovazione del titolo che il Sovrano concedente
faceva ad ogni successore nel feudo o nuovo acquirente dopo la morte del
suo autore.
L’investitura da principio avveniva con la sola cerimonia simbolica,
donde il sorgere di liti sulla effettiva concessione del feudo e sulla
natura del feudo concesso ai fini della successione (v. n. 8); successivamente
accanto alla investitura simbolica si ebbe la consegna del documento della
concessione feudale, detto privilegio. Nell’Italia meridionale,
fin dal tempo del Conte Ruggero il Normanno venivano usati i diplomi di
concessione di feudi. Successivamente ancora la cerimonia simbolica venne
abolita, ed il privilegio sostituì l’investitura. Cessati
i feudi di essere personali e trasformati in ereditari, nei casi di successione
e di acquisto, colui che subentrava chiedeva al Sovrano la rinnovazione
del titolo in di lui favore (detta investitura) ed il Sovrano, prima di
concederla, esaminava la legittimità del diritto di colui che chiedeva
la rinnovazione. Il Sovrano, oltre che nei casi di reversione dei feudi
alla Corona, era interessato alla rinnovazione, perché percepiva
ad ogni trapasso una data somma, detta relevio. La investitura era anche
dovuta nei casi di cambiamento di Sovrano.
Nel mezzogiorno d’Italia si usava in ogni privilegio di rinnovazione
inserire testualmente tutti i privilegi delle investiture passate sin
dalla prima concessione del feudo. In Sicilia per effetto del capitolo
12 di Re Giovanni del 1458 non si inserirono più nelle investiture,
che fossero state già prese con la formula per sé e successori,
i privilegi di tutti i predecessori, bastando il giuramento di omaggio
e fedeltà. In proposito la Consulta ha formulato la massima 97.
Nei tempi moderni si usa un sistema opposto:
il documento originale Sovrano viene conservato nei pubblici archivi,
e agli interessati è rilasciata una copia autentica del provvedimento,
ma date le speciali consuetudini della materia, oltre al Decreto Reale
è emesso dal Sovrano e da lui sottoscritto apposito documento detto
Lettere Patenti, che viene spedito al titolare della concessione a prova
di essa.
Così fin dal regolamento del 1870, all’art. 30 di quello
del 1896 venne stabilito che gli atti Sovrani riguardanti materie nobiliari
e araldiche avevano luogo mediante DD. RR., sottoscritti dal Re e registrati
alla Corte dei Conti, trascritti in apposito registro nel R. Archivio
di Stato di Roma, e conservati in originale nell’archivio della
Consulta Araldica. Gli art. 8 e 9 del nuovo ordinamento si uniformano
a questi concetti allorquando stabiliscono: che i provvedimenti nobiliari
emanati mediante Decreti Reali sono controfirmati dal Capo del Governo,
Primo Ministro Segretario di Stato, registrati alla Corte dei Conti, trascritti
in apposito registro del R. Archivio di Stato di Roma e conservati in
originale nell’archivio della Consulta Araldica del Regno (art.
8), e che alla persona, in favore della quale sia stato emanato un Decreto
Reale è spedito un diploma in forma di Regie Lettere Patenti, sottoscritte
dal Re, controfirmate dal capo del Governo, Primo Ministro Segretario
di Stato, trascritte a cura del Cancelliere in speciale registro presso
la Consulta Araldica (art. 9).
Attualmente in Italia, in base all’art. 79 dello statuto del Regno
la trasmissione ereditaria dei titoli avviene senza bisogno di alcuna
investitura, purché si abbiano i requisiti per concorrere alla
successione nobiliare, requisiti che sono diversi da quella legittima
(v. n. 85).
Quanto sopra è stato detto rende quindi chiaro che cosa debba intendersi
per concessione originaria di distinzioni nobiliari, per modo legittimo
di acquisto di esse, e per legittima devoluzione di esse, di cui si parla
all’art. 13 surricordato dell’ordinamento.
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2 - Quando il fondatore abbia stabilito
che la successione nella discendenza femminile si debba svolgere jure
francorum, ogni qualvolta si verifichi il concorso di maschi con femmine,
i primi hanno la preferenza, anche quando siano collaterali nel rapporto
alla linea già investita. – C. App. Catania 5-12-1932, Paternò
- Impellizzeri, Rass. Giudiz., 1933, 1, 38.
Incommerciabilità, imprescrittibilità,
divieto di acquisto delle distinzioni nobiliari per lungo uso
Gli art. 14 e 15 stabiliscono che le distinzioni nobiliari non possono
formare oggetto di private disposizioni per atti tra vivi o di ultima
volontà, e che non si estinguono per mancato uso, né si
acquistano per lungo uso, salvi gli effetti dei riconoscimenti avvenuti
prima dell’entrata in vigore del nuovo ordinamento.
Queste disposizioni che rendono le distinzioni fuori commercio si uniformano
alla tradizione storica, confermata dalla più recente legislazione
napoletana e italiana (n. 16 e 70) dato che, essendo venuto a mancare
il substrato economico del feudo, dopo l’abolizione della feudalità,
le distinzioni sono rimaste titoli onorifici della personalità.
Per il fatto stesso di essere fuori commercio, le distinzioni sono anche
imprescrittibili e quindi non si estinguono per mancato uso .
Inoltre resta nell’erede del concessionario il diritto di rivendica
delle distinzioni anche se di esse per lungo tempo non sia stato fatto
uso3.
Anche nel diritto feudale la prescrizione non fu ammessa come causa di
perdita dei feudi; la dizione esplicita poi dell’art. 14 dell’ordinamento
elimina ogni dubbio sulla possibilità della prescrizione sia acquisitiva
che estintiva dei titoli, che poteva nascere dalla locuzione adoperata
dall’art. 51 del regolamento del 1896 che parlava di concessione
originaria non prescritta o perduta.
Relativamente al divieto di acquisto delle distinzioni nobiliari per lungo
uso, lo stesso art. 14, mentre afferma un principio opposto rispetto al
regolamento del 1896, ha voluto rispettare i diritti quesiti per quei
riconoscimenti già avvenuti prima dell’entrata in vigore
del nuovo ordinamento, e per quelle domande che fossero ancora in corso
di istruttoria o presentate entro il 31 dicembre 1932, ed all’uopo
sono state dettate norme nell’art. 133 dell’ordinamento.
Per una migliore intelligenza di dette norme è da ricordare, dato
che i documenti originali di concessione dei titoli potevano essere andati
smarriti attraverso le vicende dei secoli, che gli articoli 27 b) e 28
del regolamento succitato ammettevano il riconoscimento del titolo o predicato
non feudale con atto Sovrano quando il relativo possesso fosse fondato
sull’uso pubblico e pacifico per quattro generazioni anteriori a
quella del chiedente, e con atto governativo ove l’uso fosse risalito
ad oltre quattro generazioni (v. n. 49). Il successivo art. 29 stabiliva
i mezzi di prova dell’uso con la comminatoria che in tutti i casi
la prova del possesso non poteva valere se fosse risultato che l’uso
fosse proceduto da una usurpazione o da una errata interpretazione della
concessione, ed il possesso era da ritenere prescritto se fossero intervenute
deliberazioni di collegi o magistrati o autorità competenti che
lo avessero già dichiarato infondato.
Senonchè la esperienza aveva dimostrato che la grandissima maggioranza
delle istanze presentate, fondate sul lungo uso, avevano base nell’abuso
inveterato o nella frode, per cui si rendeva necessario chiudere l’adito
ad ulteriori tentativi, mediante la abolizione dell’istituto, rispettando
i diritti quesiti, e stabilendo norme più rigide per quei riconoscimenti
ricadenti durante l’applicazione delle disposizioni transitorie.
L’art. 133 del nuovo ordinamento stabilisce infatti che il divieto
di acquisto delle distinzioni nobiliari per lungo uso non si sarebbe applicato
alle domande che sarebbero state presentate entro il 31 dicembre 1932
per il riconoscimento della semplice nobiltà di un titolo primogeniale
non ex feudale, senza qualifiche né predicati, del quale in difetto
della prova di un atto di concessione, l’istante avesse potuto giustificare
il possesso pubblico e pacifico per lungo uso durato per cinque generazioni
consecutive, anteriori alla costituzione della Consulta Araldica avvenuta
con R. D. 10 ottobre 1869, n. 5318, dimostrando altresì che nell’antico
Stato al quale la famiglia dell’istante apparteneva il possesso
per lungo uso era considerato prova sufficiente di nobiltà. Tale
possesso doveva essere provato con almeno tre documenti autentici per
ogni generazione, dei quali uno almeno per ogni generazione doveva provenire
dal potere Sovrano. Le enunciazioni e le qualifiche negli atti dello stato
civile, nei pubblici istrumenti o in altri atti che provenissero anche
indirettamente dalla volontà degli interessati non costituivano
sufficiente prova.
La prova del possesso, anche se completa, non aveva efficacia se risultava
che l’uso del titolo procedeva da usurpazione o da erronea interpretazione
di un atto di concessione, o se l’uso fosse stato dichiarato illecito
da sentenza di magistrato o da dichiarazione di collegio o di autorità
competente.
Il riconoscimento aveva luogo mediante decreto del Capo del Governo, Primo
Ministro Segretario di Stato, previo parere della Consulta Araldica.
Dopo il 31 dicembre 1932 nessuna domanda di riconoscimento in base a lungo
uso sarebbe stata più ammessa; le domande che fossero state respinte
per qualsiasi motivo prima di tale data non avrebbero potuto essere ripresentate.
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3 - SABINI, L’imprescrittibilità
dei diritti nobiliari, in «Riv. Dir. Pubb. », 1929, II, pag.
276 e L’ordinamento cit., pag. 111.
La surrogazione nel titolo in
seguito a réfuta
L’istituto della refuta (v. n. 12) che aveva dato luogo a varie
questioni di interpretazione, e a vertenze giudiziarie, specie per titoli
nobiliari di concessione napoletana e siciliana, venne abolito con lo
statuto nobiliare del 1926.
Il nuovo ordinamento prevede però un istituto consimile, e cioè
una rinnovazione del titolo in seguito a refuta. In tal caso la refuta
di un titolo, mediante rassegna di esso al Re da parte dell’intestatario,
può essere accettata con atto Sovrano portante rinnovazione del
titolo previo parere della Consulta Araldica, in favore di un discendente
maschio ultrogenito, o, in difetto di discendenti maschi, di un fratello
germano dell’intestatario da questi designato, purché il
titolo non sia quello più elevato in grado, o che dà il
nome d’uso alla famiglia e purché risulti da scrittura autentica
il consenso di tutti i successibili intermedi. Se fra questi successibili
vi sono dei minorenni, la refuta non sarà autorizzata prima che,
trascorso almeno un anno dal raggiungimento della rispettiva maggiore
età, ciascuno di essi abbia prestato il proprio consenso (art.
16).
Non siamo qui di fronte alla refuta vera e propria, ma alla cosidetta
surrogazione in seguito a refuta, dato che trattasi di trasmissione del
titolo fuori dell’ordine della successione diretta e con speciali
garanzie per i successibili intermedi che possano essere danneggiati.
Il Biscaro nella sua relazione al Re sull’ordinamento nobiliare
erasi mostrato contrario alla conservazione ed alla estensione nelle altre
regioni di questo istituto, proprio dell’ex reame di Napoli, per
il pericolo che, nonostante le più rigorose cautele, si possa far
servire la refuta quale artifizio per nascondere un mercato del titolo,
sia pure nella cerchia ristretta dell’agnazione.
Acquisto della nobiltà per nascita o per
concessione
È stato detto che la nobiltà può essere di vecchia
creazione e che viene riconosciuta legalmente, oppure di nuova concessione
Sovrana (v. n. 30). Nel caso che si tratti di vecchia nobiltà che
venga riconosciuta, essa, perché già preesistente, si acquista
da tutta la discendenza dal primo giorno della nascita, nel caso invece
di nuova concessione si acquista dal giorno della concessione (art. 17).
Acquisto della nobiltà
per matrimonio. (In nota: Il matrimonio morganatico)
Per i principi di diritto civile che regolano il matrimonio, la moglie
segue la condizione del marito e ne assume il cognome (articolo 131 c.
c.).
Tale principio è applicato nell’ordinamento nobiliare che
stabilisce che la moglie segue la condizione nobiliare del marito e la
conserva durante lo stato vedovile (art. 18). La massima 17 della Consulta,
dalla quale l’articolo è derivato, aggiungeva che i figli
non acquistano nobiltà pel fatto solo della nobiltà materna.
In base all’articolo 18 dell’ordinamento è eliminato
nelle famiglie nobili italiane il matrimonio morganatico, il quale è
rimasto oggigiorno soltanto nelle Famiglie Regnanti4.
Il. titolo che viene assunto dalla moglie non è proprio quello
del marito, ma la forma femminile di esso. Inoltre esso viene perduto
nel caso di scioglimento del matrimonio per causa diversa della morte
del marito, come l’annullamento o il divorzio. Anche la Principessa
moglie del Principe Ereditario e le consorti dei Principi della Reale
Famiglia assumono la qualità ed il titolo del Principe marito (reg.
1890 art. 3 e 8).
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4 - Già per il diritto romano e germanico era vietato
il matrimonio fra persone di condizione diversa. Per il diritto feudale
furono considerate come concubinati le unioni di maschi appartenenti alle
classi feudali con donne di altre classi o di grado inferiore anche se
libere, ma la Chiesa fece prevalere il suo concetto che queste unioni
fossero matrimoni indissolubili, sia pure con effetti giuridici limitati,
donde derivò il nome di matrimonio morganatico (dal tedesco morgengabe:
dono fatto dal marito alla m0glie il giorno dopo le nozze e di cui essa
rimaneva proprietaria, e che in seguito diventò l’assegno
maritale più importante, detto anche matrimonio della mano sinistra,
di disparaggio, secondo la legge salica. Per detto matrimonio la moglie
non veniva elevata al grado del marito, non partecipava ai titoli, agli
onori, ai privilegi del marito, alla successione nel feudo, e i figli,
pur essendo legittimi, seguivano la condizione della madre e non entravano
nella famiglia paterna. La moglie e i figli nati da essa avevano diritto
soltanto ai beni che il marito assegnava alla moglie al momento del matrimonio.
Anche dopo l’abolizione del feudalesimo le famiglie della più
alta nobiltà continuarono a ritenere che la nobiltà del
marito non si comunicasse alla moglie, se figlia di commercianti o di
artieri, né ai figli. Il matrimonio morganatico è rimasto
oggigiorno solo nelle famiglie regnanti (per maggiori notizie v. SALVIOLI,
op. cit., pag. 410). È controverso se il matrimonio in parola produca
nei tempi moderni effetti civili, generalmente però si ritiene
che esso sia una comunione nel sangue, non nei beni e nel grado, e quindi
la moglie non assume il cognome del marito ed i figli prendono il cognome
della madre, di cui seguono la condizione civile. Non manca in Italia
qualche autore (STOLFI, Diritti di famiglia, pag. 141) che sostenga che
il matrimonio morganatico produca effetti civili. Nello scorso secolo
il matrimonio morganatico fu contratto in Italia da due Sovrani, però
mediante il s0l0 vincolo religioso. Attualmente per il matrimonio dei
Principi Reali è richiesto in base all’art. 69 c. c. l’assenso
del Re, il quale per le R. Patenti 13 settembre 1780, che sono ritenute
tuttora in vigore, può consentire che un Principe della sua Casa
sposi una donna che non sia di sangue reale, purché di antico ed
illustre lignaggio, il matrimonio di Principi Reali contratto senza l’osservanza
di tali norme non è riconosciuto valido agli effetti della appartenenza
alla Famiglia Reale e fa decadere i Principi, in base alle succitate R.
Patenti «dal possesso dei diritti provenienti dalla Corona e dalla
ragione di succedere nei medesimi, come pure da ogni onorificenza e prerogativa
della Famiglia». Secondo l’Arangio Ruiz (Ist. dir. cost. cit.,
pag. 416) il Re che faccia un matrimonio diseguale non perde tale sua
qualità, soltanto la moglie e i figli non fanno parte della Famiglia
Reale, e il matrimonio diseguale compiuto da Principi della Famiglia Reale
può diventare legittimo con l’ammissione del matrimonio stesso
e delle conseguenti nascite nei registri dello speciale stato civile per
la Famiglia Reale, di cui all’art. 370 c. c., ma la legittimazione
deve esser fatta per legge.
La primogenitura - L’abuso
dei diminuitivi
Ai fini della determinazione della primogenitura nel caso di parto gemello,
si considera primogenito il primo venuto alla luce (articolo 19). Pei
figli dei titolati, vivente il padre, non esistono scientificamente i
diminutivi, ad esempio, di Marchesino, di Marchesina, di Contino, di Contessina,
che costituiscono abusi. Solo i figli e le figlie del Re, i figli del
Principe Ereditario di ambo i sessi hanno il titolo di Principi e Principesse
Reali, e i nipoti del Re figli di Principe fratello e i figli e discendenti
dei nepoti del Re e del Principe Ereditario, di ambo i sessi, hanno il
titolo di Principi e Principesse del Sangue (art. 4, 5, 6, 7, reg. 1890).
Il titolo ex feudale appoggiato
al cognome
Per seguire una tradizione storica (n. 20 L) è riconosciuto ai
primogeniti Capi di famiglie romane, insigniti di titoli ex feudali di
Principe o Duca, Marchese e Conte, l’antico uso di appoggiare il
titolo principale al cognome, anzichè al predicato feudale (art.
22). Per aversi però uniformità di trattamento per gli investiti
di titoli di tutte le regioni del Regno, lo stesso uso può essere
riconosciuto, su domanda, mediante decreto del Capo del Governo, ai capi
di quelle famiglie ex feudali delle altre regioni d’Italia che si
trovano nelle stesse condizioni. Sono inoltre fatti salvi i riconoscimenti
di tale uso già avvenuti (art. 22).
Divieto di rinnovazione e di passaggio
ad altra famiglia di titoli concessi da Potenza estera
Per il fatto che la concessione dei titoli presuppone l’esercizio
della sovranità, o due sovranità non possono essere concorrenti,
i titoli ed attributi nobiliari concessi da una Potenza estera non possono
formare oggetto di rinnovazione né di passaggio ad altra famiglia
(art. 23).
I titoli concessi da Sovrani italiani
prima dell’unificazione nazionale. (I titoli del Sacro Romano Impero,
quelli conferiti da Napoleone I, da Murat, di Conte Palatino).
Per il principio della successione di Stato a Stato sono però considerati
come titoli italiani, e ad essi equiparati, quelli concessi da Sovrani
italiani o stranieri che regnarono nelle varie parti d’Italia prima
della unificazione nazionale (v. n. 19, 20, 21) ai propri sudditi, qualora
questi o i loro successori aventi diritto ai titoli, abbiano acquistato
la cittadinanza italiana per effetto della unificazione, o in virtù
di decreto di naturalizzazione (art. 30).
Per certi titoli sono poste però delle limitazioni, determinate
da ragioni diverse. Così i titoli del Sacro Romano Impero (cessato
il 6 agosto 1806 in seguito alla rinuncia alla corona imperiale d’Austria
e di Germania fatta da Francesco II d’Asburgo) conferiti a famiglie
italiane, sono riconosciuti nei limiti della concessione; ma non sono
rinnovabili, né possono passare da una in altra famiglia (art.
26), dato che trattasi di titoli di impero scomparso, ed è quindi
venuta a cessare la giurisdizione del Sovrano sui feudi imperiali. Detti
titoli come è stato detto a proposito di quelli di Conte (v. n.
36) presentano la caratteristica che sono conferiti a tutti i membri della
famiglia, maschi e femmine che fossero. Non devono però esser confusi
i titoli del S. R. I. concessi fino alla sua cessazione, con quelli concessi
successivamente dallo stesso Imperatore che assunse il nome di Francesco
I d’Austria, per quanto egli abbia dichiarato in occasione della
rinuncia al S. R. I. che d’allora innanzi gli Stati austriaci avrebbero
costituito l’impero.
I titoli conferiti da Napoleone I, sia come Re d’Italia che come
Imperatore dei Francesi, e quelli conferiti da Gioacchino Murat, Re di
Napoli, a cittadini italiani non sono trasmissibili se all’epoca
della concessione non fu costituito il prescritto maggiorasco, salvo speciale
dispensa dall’obbligo di costituirlo risultante dall’aiuto
di concessione (art. 27). In questo caso la Prerogativa Sovrana per la
trasmissibilità dei titoli richiede che siano osservate le condizioni
dell’originaria concessione (v. n. 19, 20, 21).
Il titolo di Conte Palatino, per i motivi sopraesposti (v. n. 36), e accogliendosi
le massime formulate dalla Consulta Araldica, è dichiarato non
rinnovabile, né trasmissibile senza speciale disposizione risultante
dal diploma di concessione; non sono riconosciute le concessioni di questo
titolo fatte a favore di un determinato collegio, o per delegazione perpetua
del Papa o dell’Imperatore.
Sono però fatti salvi gli effetti dei riconoscimenti già
avvenuti (art. 34.).
Il chirografo sovrano non seguito
dal diploma
È stato detto (n. 70) delle vicende storiche subite dai documenti
sovrani comprovanti la concessione di distinzioni nobiliari (diplomi originali
e lettere patenti), ma poteva e può anche avvenire che il Sovrano
in un suo atto scritto chiamasse una persona con un titolo nobiliare di
cui essa non è fornita, e che eventualmente le è anche dato
per consuetudine dall’opinione pubblica. Poiché in questi
casi il Sovrano non intese conferire alcun titolo, dato che in materia
nobiliare sono valevoli soltanto le nomine risultanti da speciali documenti
in tutta legalità e conferenti una determinata nomina, ad ovviare
ad ogni dubbio e seguendo l’aforisma nobilitas non confertur per verba enunciativa, l’art. 29 dell’ordinamento stabilisce che
il chirografo Sovrano di concessione di un titolo, non seguito dal rilascio
del diploma nelle forme consuete, non è sufficiente per il riconoscimento.
Alla mancanza del diploma può esser concessa sanatoria con Reale
Decreto di riconoscimento. Si comprende che tale sanatoria può
esser concessa allorquando risulti che il Sovrano abbia effettuato la
concessione.
Il possesso di un territorio o
ex feudo titolato
Già la Consulta Araldica aveva adottato la massima che colla abolizione
della feudalità rimase sciolto ogni vincolo feudale anche riguardo
al possesso della terra infeudata e non sopravvisse che il titolo nobiliare
che vi era annesso (massima 7).
Ma perché il titolo sia conservato da chi sia venuto in possesso
della terra ex feudale e titolata, occorre che il titolo stesso sia passato
nel nuovo possessore in modo legittimo, secondo i principi del diritto
nobiliare, ed è stato visto che tale passaggio non si verifica
nel caso di acquisto in seguito a vendita di terre titolate ex feudali
(v. n. 71). In proposito la stessa Consulta Araldica aveva formulato la
massima (art. 8) : il semplice possesso di una terra già feudale
e titolata non costituisce, pel possessore, nessun diritto ad assumere
il titolo o predicato. Il nuovo ordinamento accogliendo detta massima
ha stabilito all’art. 24 che il semplice possesso di un territorio
o di un ex feudo, al quale un tempo era annesso un titolo, non conferisce
al possessore diritto ad assumere quel titolo e il relativo predicato,
né per chiederne la rinnovazione.
Il Grandato di Spagna. I titoli
stranieri (In nota: La Paria di Sicilia)
Per quanto riguarda altri titoli e dignità straniere l’art.
33 dell’ordinamento, accogliendo la massima 26 marzo 1926 della
Consulta Araldica stabilisce che la dignità di Grande di Spagna
è riconosciuta solamente a coloro che ne abbiano ottenuta personale
investitura dal Re di Spagna. E ciò per il fatto che nessuna delle
famiglie italiane, comprese quelle iscritte nel Libro d’oro della
nobiltà italiana, ne ha il possesso effettivo.
Per quelli che si fossero trovati nelle condizioni di poterne domandare
l’investitura, sarà fatta speciale annotazione nel libro
d’oro della Consulta. Intanto in Spagna i titoli nobiliari sono
stati aboliti nel 1930 con l’avvento della Repubblica. In proposito
è da ricordare che i grandi feudatari della Spagna erano chiamati
Ricoshombres e godevano del privilegio di parlare col Sovrano a capo coperto.
L’Imperatore Carlo V, cui non garbava questo uso sostituì
il titolo di Ricoshombres con quello di Grande e lo concesse solo a coloro
che lo avevano seguito dalla Germania. In tal modo questo titolo venne
ristretto a poche famiglie. Filippo II impose poi ai Grandi la cerimonia
della investitura nella quale il candidato si presentava al Sovrano a
capo scoperto, e non si copriva che a di lui invito. I Grandi erano divisi
in 3 classi distinte dalla cerimonia della cubertura. Quello di 1a classe
metteva il cappello in testa prima di parlare al Sovrano; quello di 2a
classe parlava col capo scoperto, ma si copriva per attendere la risposta;
quello di 3a classe per coprirsi doveva attendere che il Sovrano gli dicesse
di coprirsi subito dopo la risposta. Le prime due classi erano ereditarie
e si trasmettevano alle donne insieme col titolo. La terza classe era
spesso conferita a vita, ma per lo più a due generazioni. I Grandi
delle tre classi avevano il medesimo grado, perché erano ugualmente
trattati da Cugini dal Sovrano, col titolo di Eccellenza, e si coprivano
tutti indistintamente quando il Sovrano stava coperto. Le mogli e i figli
primogeniti avevano uguale diritto agli onori e al trattamento da Cugini.
La dignità di Grande di Spagna venne conferita ad illustri famiglie
italiane. Sennonché con disposizioni legislative spagnuole del
1845 e 1846 venne stabilito che gli eredi della dignità di Grande
erano obbligati entro 6 mesi a chiedere al Governo Spagnuolo le lettere
patenti di conferma o riconoscimento e a pagare una rilevante tassa. Dopo
la data anzidetta non tutte le famiglie italiane hanno curato di ottenere
la necessaria ricognizione, donde la disposizione dell’art. 33 dell’ordinamento5
. Per il principio, già citato della successione dello Stato unitario
italiano ai precedenti Stati, l’art. 31 dell’ordinamento,
seguendo l’art. 38 del regolamento del 1896 stabilisce che i titoli
stranieri, con o senza predicato, posseduti da antico tempo da cittadini
italiani e già una volta esecutoriati o riconosciuti dalle competenti
autorità degli antichi Stati italiani prima della unificazione
politica, sono riconosciuti con decreto del Capo del Governo, ai legittimi
possessori ed alla loro discendenza maschile, nei limiti della concessione,
o, in difetto, nei limiti della esecutoria o dell’antico riconoscimento.
Raggiunge lo stesso articolo che in qualunque altro caso, gli interessati,
per ottenere il riconoscimento dei titoli dovranno produrre un attestato
del Governo dello Stato dal quale promana il titolo, che ne confermi la
spettanza allo istante. Ed in ciò uniformandosi alla massima 29
della Consulta Araldica che pel riconoscimento di un titolo nobiliare,
posseduto da una famiglia italiana, e non ancora legittimamente confermato,
occorre una dichiarazione della competente autorità, spedita dal
Governo straniero in forma esecutiva, colla quale sia legittimata l’attuale
autenticità del titolo invocato.
L’art. 32 dell’ordinamento stabilisce che lo straniero residente
nel Regno, legalmente investito di titoli concessi da Potenze estere,
può essere autorizzato con decreto ad personam del Capo del Governo,
di farne uso nel Regno, previa produzione di un attestato dell’autorità
competente dello Stato dal quale il titolo promana, che confermi il suo
diritto al titolo. Per l’art. 5 del R. D. 10-7-1930, n. 974, questa
norma si applica anche per l’uso, da parte degli stranieri residenti
nel Regno, di titoli nobiliari pontifici.
Soggiunge lo stesso art. 32 che è in facoltà del Capo del
Governo di far luogo all’autorizzazione predetta ed al riconoscimento
dei titoli stranieri posseduti da antico tempo da cittadini italiani di
cui sopra è stato detto, qualora consti del rifiuto dello Stato
estero a rilasciare simili attestati, ma risulti che l’istante,
cittadino italiano o straniero residente nel Regno, si trovi nel legittimo
possesso del titolo. In ogni caso, dice l’ultimo capoverso, non
potrà essere consentito l’uso nel Regno di qualifiche o trattamenti
inerenti a titoli stranieri non ammessi per i titoli italiani.
Con questa facoltà assegnata al Capo del Governo è venuta
risolta la situazione di quegli stranieri titolati residenti nel Regno,
appartenenti a Stati che hanno abolito i titoli, o mostrano di ignorarne
l’esistenza, o che negano sistematicamente detto attestato. Esigenze
di carattere politico, discrezionalmente valutabili, hanno riservato la
facoltà al Capo del Governo.
Questo articolo, di cui non si hanno tracce di precedenti legislativi,
è stato per il suo ultimo capoverso criticato dal Sabini 6
, il quale osserva che non saranno molti gli stranieri in Italia che si
sentiranno vincolati dalla sua limitazione, che per quanto riguarda gli
agenti diplomatici essa non trova applicazione per il principio della
extraterritorialità che protegge le rappresentanze diplomatiche.
Inoltre l’articolo, per quanto riguarda i privati cittadini stranieri,
sarebbe in contrasto con l’art. 6 delle disposizioni preliminari
al codice civile che stabiliscono che lo stato e la capacità delle
persone e i rapporti di famiglia sono regolati dalla legge della nazione
a cui esse appartengono, ed i diritti nobiliari appartengono alla stessa
classe dei diritti di famiglia, costituendo un’appendice del cognome.
Ove si volesse fare una rigida applicazione dell’ultimo comma di
questo articolo un Pari inglese non potrebbe essere autorizzato in Italia
a premettere al predicato del proprio titolo la qualifica di Lord, ed
altri stranieri non potrebbero avere i trattamenti di Altezza Serenissima
o di Eccellenza cui davano diritto i titoli stranieri posseduti.
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5 - Affine a questa disposizione è la massima 10
giugno 1928 adottata dalla Consulta Araldica in base alla quale per tutte
le famiglie che hanno avuto la parìa di Sicilia annessa al titolo,
famiglie comprese nell’elenco del 1848, si farà annotazione,
come ricordo storico, nel Libro d’oro nella pagina delle rispettive
famiglie. Da questa annotazione saranno esclusi quei titoli passati ad
altre famiglie. Per l’interpretazione di questa massima è
da ricordare che nel diritto feudale la parola parìa servì
ad indicare eguaglianza tra gli uomini di più elevata condizione
ed autorità. Essi erano detti pari, perché erano uguali
tra loro per i privilegi di cui godevano e per il potere loro conferito
dal Sovrano, di cui erano consiglieri, e per il valore del loro parere
nelle decisioni da adottarsi. Erano chiamati pari in forma generale i
Signori, vassalli comuni ed immediati di un medesimo Sovrano, e pari dei
feudi o infeudati erano detti quei Signori che costituivano la curia o
corte feudale o dei grandi feudi, e che avevano il privilegio di non essere
giudicati che dai loro pari. La parola fu adoperata anche per sin0nimo
di barone e vi furono ecclesiastici e donde pari, per i feudi posseduti.
I pari come istituzione politica e gerarchica dello Stato sopravvivono
attualmente solo in Inghilterra, negli altri Stati nell’epoca moderna
hanno avuto vita in Francia, nel Regno di Napoli e Sicilia, e hanno costituito
la Camera alta, o aristocratica, o Senato; istituto i cui membri conservano
tuttora generalmente la prerogativa di essere giudicati dai propri colleghi.
La paria esisteva in Sicilia annessa ai titoli nobiliari di determinati
feudi, e per la costituzione del 1812 una delle due Camere del Parlamento
era detta dei Pari e la paria continuava ad essere ereditaria. Nella costituzione
siciliana del 1848 furono ammessi a far parte del Senato, in aggiunta
ai membri elettivi, anche i pari temporali che siedevano per la costituzione
del 1812. Successivamente la paria scomparve come istituzione ereditaria.
L’elenco delle parie del Regno di Sicilia e delle famiglie che ne
possiedono attualmente i titoli trovasi in PALAZZOLO DRAGO, Famiglie Nobili
Siciliane cit., pag. 197.
6 - SABINI, L’ordin. cit., pag. 149, 150.
La perdita della nobiltà
nelle vicende storiche
Nel diritto feudale, come è stato detto (v. n. 13) era prevista
la perdita del feudo per fellonia, per delitto comune, per alienazione
o aggiudicazione (nei primi tempi del feudalesimo), per mancanza di successori
giusta l’atto di concessione, per refuta (v. n. 12), per inabilità
o vizio fisico del vassallo a servire il Signore, o perché monaco
(v. n. 10, 84) o chierico (v. n. 11, 84), per l’esercizio del commercio
(v. n. 13). Successivamente era causa di perdita della nobiltà
l’esercizio di alcune professioni liberali, di arti o professioni
meccaniche, e per taluni Stati italiani il matrimonio di donne nobili
con uomini non nobili (v. n. 14). Inoltre in taluni Stati italiani, come
in Piemonte, in Toscana, a Venezia, a Bologna, a Modena, a Lucca, a Napoli
era prevista la perdita della nobiltà in caso di condanna per crimine
o a pena infamante. Negli ordinamenti italiani postunitari in materia
nobiliare non esisteva nessuna disposizione circa la perdita dei titoli,
però alcune delle anzidette cause di perdita del feudo potevano
valere come motivo per la perdita del titolo solo in quanto non contrastanti
col moderno ordinamento giuridico, e la Consulta Araldica adottò
anche una massima 7
che vietava il riconoscimento di titoli nobiliari in persone interdette
per infermità di mente ed altra sulla incapacità relativa
degli ecclesiastici (v. n. 84). Solo nel codice penale del 1889 all’art.
20 era prevista la perdita dei gradi e delle dignità accademiche,
dei titoli, delle decorazioni e altre pubbliche insegne onorifiche come
effetto della interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici.
Anche il nuovo codice penale del 1930 agli art. 28 e 29 prevede, a proposito
della interdizione perpetua o temporanea, la perdita dei gradi e delle
dignità accademiche, dei titoli, delle decorazioni o di altre pubbliche
insegne onorifiche.
Il nuovo ordinamento nobiliare ha ritenuto di introdurre negli art. da
41 a 49 norme relative alla decadenza e alla sospensione dei titoli e
attributi nobiliari in conseguenza di condanne.
Come è detto nella relazione del Capo del Governo del Re «queste
sanzioni ripetono il loro fondamento storico giuridico dalle legislazioni
di quasi tutti gli Stati d’Europa e degli stessi antichi Stati italiani
sin da tempo remoto. D’altra parte l’assoluta purezza dei
natali e la vigorosa integrità e dignità di vita sono condizioni
essenziali perché l’aristocrazia della nascita possa sussistere
nello Stato moderno».
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7 - Boll. Uff. Cons. Arald., n. 34, pag. 296 e n. 38, pag.
15.
La perdita definitiva e temporanea
(ossia sospensione) della nobiltà
La perdita dei titoli o attributi nobiliari può essere definitiva
o temporanea, quest’ultima è indicata nell’ordinamento
(art. 45) col nome di sospensione. Tutte e due le perdite vengono dichiarate
con Decreto Reale controfirmato dal Capo del Governo (art. 46). Inoltre
la perdita definitiva ha luogo o di diritto, o mediante revoca su proposta
della Consulta Araldica.
Oltre la perdita dei diritti nobiliari di cui il titolare attualmente
è investito, la legge prevede il caso di colui che deve succedere
in un titolo. Per quest’ultimo la perdita definitiva del diritto
di succedere ai titoli ed attributi è indicata dalla legge col
nome di decadenza a succedere. Così l’art. 41 stabilisce
che incorrono di diritto nella perdita dei titoli e attributi nobiliari
e nella decadenza del diritto a succedervi i condannati per delitto contro
il Re, il Principe Ereditario o la Patria, contro il Sommo Pontefice,
e contro il Capo del Governo, i condannati alla pena di morte, dell’ergastolo
e della reclusione per una durata non inferiore ad anni cinque od alla
interdizione permanente dai pubblici uffici (articolo 41). Si ha quindi
qui riguardo a due elementi: o alla natura grave del reato o alla gravità
della pena.
La Consulta Araldica può proporre al Re di decretare la perdita
delle distinzioni nobiliari e la decadenza del diritto a succedervi in
confronto dei condannati alla reclusione per qualsiasi durata per delitti
contro i poteri dello Stato, contro la fede pubblica, contro la proprietà
e il buon costume o per bancarotta fraudolenta; e di coloro che, allo
scopo di eludere le leggi dello Stato, rinunziano alla cittadinanza italiana
o che ne sono stati privati per Decreto Reale (art. 42).
In ambedue i casi anzicennati di perdita definitiva, di diritto o per
revoca, questa colpisce esclusivamente la persona del colpevole, e quindi
i titoli nobiliari sono riconosciuti all’immediato legittimo successore
(art. 43). Inoltre la riabilitazione del condannato non produce alcun
effetto sulla perdita già dichiarata dei titoli (art. 47). Circa
la non ammissione dell’istituto della riabilitazione, la relazione
Biscaro al progetto dell’ordinamento ne dà la spiegazione
con la considerazione, da un lato, del maggior rigore che conviene esercitare
nel controllo della integrità e dignità di vita di un ceto
che si rappresenta, per le sue origini e tradizioni storiche e per la
funzione che è ancora in grado di compiere, come il fiore della
Nazione, e dall’altro dell’interesse di non lasciare, dopo
la pronuncia della perdita definitiva del titolo o del diritto a succedervi,
vacante il titolo stesso in vista di una lontana e sempre problematica
eventualità, quale è l’applicazione dello straordinario
beneficio della riabilitazione.
È qui da ricordare che nella legislazione di alcuni Stati preunitari
era ammesso invece il riacquisto della nobiltà perduta o per grazia
Sovrana, o per servigi resi al Sovrano o allo Stato, o per la vita decorosa
tenuta per un certo tempo. Così in Toscana per la legge 31-7-1750,
a Modena per l’Editto 2-1-1816; a Lucca per il decreto 27 aprile
1826 (v. n. 20).
Nel caso però di perdita di titoli in conseguenza della perdita
della cittadinanza italiana, la legge ha voluto garantire la situazione
dei figli minori di colui che ha perduto la cittadinanza e che, senza
loro volontà, hanno acquistato la cittadinanza straniera. In tal
caso, prima di farsi luogo al riconoscimento del passaggio del titolo
ad altra persona, legittimo successore, diverso dai figli, occorre attendere
il decorso di due anni dal raggiungimento della maggiore età del
più giovane dei figli, per dar loro la possibilità di riacquistare
la cittadinanza ed essere preferiti in confronto agli altri successibili,
salvo che nel frattempo si verifichi il recupero della cittadinanza italiana
da parte di qualcuno dei figli minori (art. 44).
Si evince da queste disposizioni chiaramente che, come si è già
detto, i titoli e gli attributi nobiliari vengono mantenuti non per vana
pompa personale dell’investito, perché, ove ciò fosse,
nel caso di perdita definitiva di essi potrebbero farsi cessare del tutto,
senza alcun riguardo dei figli o di altri legittimi successori.
La perdita temporanea o sospensione dai titoli, predicati e qualifiche
nobiliari, per la minore gravità delle mancanze che la determinano,
avviene su proposta al Re della Consulta Araldica e non può durare
più di cinque anni. Questa sospensione può venire applicata
in confronto dei condannati per oziosità, vagabondaggio o per mendicità,
degli ammoniti a norma di legge e dei sottoposti alla vigilanza speciale
della Pubblica Sicurezza, o alla pena del confino, qualora sia stata applicata
per fatti disonorevoli o per addebiti di particolare gravità (art.
45) 8.
Per assicurare l’applicazione delle disposizioni anzidette, l’art.
48 prescrive che il Procuratore del Re dovrà trasmettere senza
ritardo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri un estratto delle sentenze
passate in giudicato, che importino condanne di persone appartenenti a
famiglie inscritte nell’Elenco Ufficiale Nobiliare alle pene e pei
reati indicati negli articoli precedenti.
Giusta l’art. 49, l’annotazione del decreto che pronunzia
la perdita dei titoli, predicati e qualifiche nobiliari a margine della
relativa inscrizione nei libri e nei registri della Consulta Araldica,
è fatta a cura del Cancelliere della Consulta sopra richiesta del
Commissario del Re, il quale ne darà notizia alla Consulta nella
prima riunione successiva all’annotazione.
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8 - Vedi per l’annotazione gli art. 164 e seg. e
per il confino gli art. 180 e seg. del T.U. leggi di P. S. 18 giugno 1931,
n. 773.
Gli infermi di mente - Gli ecclesiastici
In considerazione che nelle cause di perdita definitiva o temporanea dei
titoli, predicati, attributi, qualifiche nobiliari non è prevista
l’infermità di mente, la massima succitata (v. n. 82) adottata
dalla Consulta Araldica sembra non possa trovare applicazione.
Come conseguenza del principio di diritto feudale della incapacità
in possesso del feudo da parte dei chierici o monaci (v. n. 10 e 11),
la Consulta Araldica ha stabilito le due massime seguenti:
«I cavalieri professi di giustizia del Sovrano Ordine Militare di
Malta per poter adire le eredità o successioni nobiliari debbono
provvedersi in via di grazia di un Reale assenso (mass. 33). Simile assenso
è necessario agli ecclesiastici entrati negli ordini maggiori (mass.
34). Da parte sua la Santa Sede ha fatto divieto ai Patriarchi, Arcivescovi
e Vescovi di far uso di insegne e titoli nobiliari gentilizi (v. n. 52
nota). Sulla inscrizione dei sacerdoti nell’elenco nobiliare è
detto al n. 110.
Per quanto riguarda la sorte dei titoli in seguito a dichiarazione legale
di assenza di colui che ne è investito, provvede l’art. 68
dell’ordinamento, di cui è detto appresso (v. n. 94).
La successione nobiliare e la
successione civile - Differenze
Lo statuto della successione ai titoli e attributi nobiliari, come è
stato detto (n. 1) è uno dei punti fondamentali della riforma del
1926 ed ha dato luogo alle citate vicende della impugnazione di incostituzionalità
della riforma stessa, nonostante che essa abbia garantito i diritti quesiti,
conservando in sé traccia viva dei precedenti ordinamenti (v. n.
24).
Poiché le norme innovative in tema successorio furono emanate con
R. D. 16 agosto 1926, n. 1489, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del
7 settembre 1926, l’attuale ordinamento si richiama a quest’ultima
data per indicare la decorrenza delle nuove disposizioni. Dice infatti
l’art. 53 che alle antiche disposizioni che con norme diverse nelle
singole regioni d’Italia, regolavano l’ordine delle successioni,
riguardo ai titoli ed attributi nobiliari concessi dai Sovrani degli antichi
Stati prima della unificazione politica, sono surrogate le disposizioni
seguenti, con decorrenza dal 7 settembre 1926 .9
Già è stato detto delle varie forme, di successione nobiliare
a seconda del diritto feudale o dei decreti di concessione nobiliare,
e così sono da ricordare la successione in linea maschile e primogeniale
e collaterale nei gradi permessi per diritto franco, la successione per
diritto longobardo fra tutti i figli, con esclusione talvolta delle figlie
o tal’altra in concorrenza con esse. È da ricordare che anche
nei feudi jure francorum vi fu l’eccezione nel mezzogiorno d’Italia
della successione per via di donne (successione napoletana e siciliana
e sarda) in mancanza di discendenti maschi, per cui la successione collaterale
veniva di fatto abolita in pro della femminile in linea retta. Inoltre
è stato detto che certe concessioni di titoli, specie nel periodo
della decadenza feudale, erano fatte non al solo concessionario ma a tutti
i suoi discendenti (omnibus descendentibus vel nascituris in perpetuum),
o tali altre concessioni, specie del Sacro Romano Impero e pontificie,
erano trasmissibili non solo a tutti i maschi, ma a tutte le femmine di
una agnazione.
Ora di fronte a queste diverse forme di successione nobiliare il regolamento
del 1896 stabiliva che i titoli nobiliari si riconoscevano nella forma
e con le condizioni della originaria concessione (art. 37), e per i titoli
concessi da sovranità preesistite in Italia ad italiani non sudditi
si riconoscevano le condizioni stabilite nell’atto di conferma dal
Sovrano naturale. Se questa conferma non intervenne, essa si concedeva
regolando la trasmissibilità secondo le norme tradizionali nella
regione storica cui apparteneva la famiglia concessionaria (art. 38).
Per i titoli di nuova concessione, la trasmissibilità loro era
in massima quella primogeniale e maschile (art. 39).
È anche da ricordare che le norme della successione nobiliare si
differenziano dal diritto successorio civile, poiché in questo
si bada alla prossimità del grado della parentela, senza preferenza
di linea (art. 722 e 1422 c. c.) la successione si devolve ai discendenti
legittimi, agli ascendenti, ai collaterali, ai figli naturali ed al coniuge
(articolo 721 c. c.), e per figli legittimi s’intendono anche i
legittimati, gli adottivi e i loro discendenti (art. 737 c. c.).
L’art. 54 del nuovo ordinamento stabilisce che la successione ha
luogo a favore dell’agnazione maschile dell’ultimo investito,
per ordine di primogenitura senza limitazione di gradi, con preferenza
della linea sul grado. I chiamati alla successione debbono discendere
per maschi dallo stipite comune, primo investito del titolo. I titoli,
i predicati e gli attributi nobiliari non si trasmettono alle femmine
né per linea femminile, salvo quelli concessi oltre che ai maschi
anche alle femmine, alle quali spettano durante lo stato nubile e non
danno luogo a successione (art. 57).
L’affermazione della successione nobiliare maschile, con esclusione
della trasmissione per via di donne, corrisponde alla concezione fascista
sui titoli nobiliari, quale culto delle memorie, poiché nel caso
della trasmissione per via femminile i titoli e i predicati verrebbero
sradicati dalle originarie famiglie di cui si vogliono tramandare le nobili
gesta.
La successione per primogenitura senza limitazione di gradi a favore dell’agnazione
maschile, cioè discendente, dell’ultimo investito esclude
la successione retrograda a favore degli ascendenti ammessa dal codice
civile. In caso di estinzione della linea diretta di successibili, è
ammessa la successione per linea collaterale, purché il chiamato
alla successione discenda per maschi dallo stipite comune, primo investito
del titolo (art. 54 capv.). Inoltre nel caso della successione collaterale,
è preferito colui che appartiene ad una linea più vicina
all’ultimo investito, quantunque il grado di parentela fra il successore
e l’ultimo investito sia più lontano di quello di un altro
collaterale, ciò che si evince dalla formula troppo involuta adoperata
nell’art. 54 «con preferenza dellamt linea sul grado»,
e ciò in contrasto col diritto civile che dà la preferenza
al grado sulla linea.
Si ha così un ritorno al principio della successione feudale per
primogenitura, con l’adattamento di esso, per quanto riguarda la
non limitazione dei gradi, ai tempi moderni, dato che la Corona non ha
ora più interesse, come era nel periodo feudale, a limitare i gradi
di successione, al fine della reversione dei feudi alla Corona stessa
in mancanza di successibili. Si raggiunge anche in tal modo la finalità,
cui era inspirato lo statuto nobiliare del 1926, di far tornare i titoli
alla agnazione maschile del primo investito. La preferenza accordata alla
linea sul grado è più consona al principio della successione
primogeniale, di quanto non fosse la successione collaterale, ed è
più corrispondente alle formule di concessione feudale: tibi et successoribus tuis ex corpore legitime descendentibus ed alle altre corrispondenti.
Inoltre essa risolve la dibattuta questione se nella successione collaterale
era da dare la preferenza alla linea o al grado di parentela.
A differenza del diritto feudale, nel quale l’ordine di successione
poteva essere presunto, nel diritto moderno nel diploma di concessione
esso è indicato con formula abituale «trasmissibile ai discendenti
legittimi e naturali, maschi da maschi in linea di primogenitura»
a meno che, a tenore dell’art. 67, non sia regolato con condizioni
speciali l’ordine dei successibili, essendo in ciò libera
la Prerogativa Sovrana.
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9 - Questo articolo corrisponde al primo dello statuto
successorio del 1926. Vedi Gualtieri, op. cit., pag. 31. Il progetto originario
di detta riforma è dovuto al Consultore Araldico Duca Agostino
de Vargas Machuca.
La filiazione legittima, naturale
derivante da matrimonio putativo
Per quanto riguarda i figli che possono succedere, essi debbono essere
legittimi, nati cioè da legittimo matrimonio, con esclusione della
filiazione naturale ancorché riconosciuta (art. 55), e ciò
in disformità del diritto civile e conformemente ai principi del
diritto feudale, che per rispetto alla compagine ed unità familiare
non ammettevano alla successione nelle dignità i figli naturali
riconosciuti o no10
. A volte nei diplomi di concessione si parla di discendenti legittimi
e naturali, ma, salvo prova contraria l’espressione va intesa congiuntamente
nel senso che il figlio abbia qualità di legittimo per vincoli
di sangue e di naturale in contrapposto al figlio adottivo, e non già
nel senso che sia ammessa la successione dei figli naturali. Ciò
non pertanto si vedono nella storia medioevale e moderna casi in cui i
figli naturali hanno potuto acquistare posti eminenti ed ai quali con
Sovrana autorizzazione sono stati concessi titoli. È stato deciso
che i figli nati da matrimonio putativo (dichiarato cioè nullo)
succedono nei titoli nobiliari11
. Dei figli nati da matrimonio morganatico è stato detto al n.
74.
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10 - Cass. Regno, 9 maggio 1930, Treves c. Treves, Giur.
It., 1930, I, 776. L’espressione figli legittimi naturali contenuta
nelle concessioni di titoli nobiliari, salvo prova contraria, deve intendersi
congiuntamente, nel senso che il figlio abbia qualità di legittimo
e di naturale, essendo i figli naturali per le antiche consuetudini feudali
nobiliari esclusi dalla successione nel feudo e nel titolo.
11 - C. Appello Catania, 2 settembre 1931, Paternò c. Cons. Araldica,
Rassegna Giudiz., 1931, 483. Il matrimonio putativo assicura al figlio
il godimento di tutti gli effetti civili di un matrimonio valido, e fra
essi anche quello di succedere nei titoli nobiliari.
La filiazione legittimata
Per quanto riguarda i figli legittimati, bisogna distinguere le due forme
di legittimazione: quella per Decreto Reale o rescriptum principis, e
quella per susseguente matrimonio. Nel caso di legittimazione per susseguente
matrimonio si ammetteva nella dottrina la successione perché si
aveva la famiglia legittima, e la Consulta aveva formulato la massima
n. 14 che ai figli legittimati per susseguente matrimonio, sotto il regime
del codice civile italiano, si può riconoscere la successione ai
diritti nobiliari, qualora provino lo stato libero dei genitori, dieci
mesi prima della nascita del figlio12
.
Riguardo ai figli legittimati per rescriptum principis, e cioè
quando il matrimonio dei genitori non può avvenire (art. 191 c.
c.), non vi era uniformità di legislazione, ammettendosi che non
succedessero, nella legislazione napoletana per il R. Rescritto 17 febbraio
1844, ed essendo equiparate le due forme di legittimazione nell’editto
di Maria Teresa d’Austria del 1769 per la Lombardia. La Consulta
Araldica aveva formulato la massima n. 12 per la quale i figli adottivi
e quelli legittimati per rescritto del principe non succedono nei diritti
nobiliari dell’adottante o del padre senza una speciale autorizzazione
sovrana. Il nuovo ordinamento si è ispirato alla tradizione per
i legittimati per susseguente matrimonio, stabilendo che succedono nei
titoli e predicati al pari dei figli legittimi, e che gli effetti della
legittimazione, rispetto alla successione nei titoli, quando il riconoscimento
è posteriore al matrimonio, prendono data dal giorno del riconoscimento.
Per quanto concerne i legittimati per Decreto Reale il nuovo ordinamento
ha allargato la massima della Consulta, stabilendo che succedono nei titoli
e nei predicati del padre, purché questi non abbia figli o discendenti
legittimi o legittimati per susseguente matrimonio o altri parenti maschi
fino al 3° grado successibili nei titoli, e purché nel Decreto
Reale di legittimazione ha dichiarato, in via di grazia, la capacità
del legittimato di succedere nei titoli del padre (art. 55)13
. Queste disposizioni riguardanti la successione dei figli naturali e
legittimati non sono assolute per le nuove concessioni, ma possono essere
derogate da particolare autorizzazione della Prerogativa Sovrana (art.
55) 1).
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12 - La C. Appello di Catania nella sent. 2 settembre 1931
sopracitata ritenne questa restrizione della prova dello stato libero
dei genitori non giustificabile.
13 - L’art. 55 corrisponde con ampliazioni a quello 3 dello statuto
successorio del 1926, modificato dall’art. 2 del R. D. 16 giugno
1927, n. 1091.
La filiazione adottiva
Relativamente ai figli adottivi, la dottrina antica e le precedenti legislazioni
ritenevano che essi non succedevano. Facevano eccezione i titoli creati
da Napoleone e trasmissibili in seguito alla creazione del maggiorasco,
per i quali era detto che passavano alla discendenza diritta e legittima,
naturale o adottiva, di maschio in maschio per ordine di primogenitura
(statuto 21 settembre 1808). È stata esposta anche la massima adottata
in proposito dalla Consulta Araldica, e conformemente ad essa l’art.
56 del nuovo ordinamento stabilisce che i figli adottivi non succedono
nei titoli e predicati spettanti all’agnazione dell’adottante
salve le contrarie disposizioni della Sovrana Prerogativa, per i titoli
di nuova concessione14
.
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14 - Cass. Regno, 14-3-1930, Pres. Cons. Ministri C. Malagola,
Foro It., 1930, I, 764. Per un principio di diritto feudale consacrato
anche nell’art. 56 del R. D. 21-1-1929, n. 61, i figli adottivi
non possono succedere nei titoli nobiliari dell’adottante a meno
che l’atto d’investitura ammetta alla successione qualsiasi
erede anche non agnato. Se nell’atto di concessione la successione
nel feudo sia riservata ai discendenti maschi ed agli eredi in linea maschile,
vanno esclusi da essa i figli adottivi, intendendosi per eredi, in conformità
della communis opinìo dei feudisti, i soli agnati in mancanza di
figli o di altri discendenti.
Le donne titolate - I titoli degli
ultrogeniti
Ma oltre che con la successione, i titoli possono acquistarsi anche col
solo fatto della nascita, e ciò avviene per quei titoli di vecchia
concessione conferiti con qualunque formula o legalmente riconosciuti
per tutti i maschi di una agnazione, che si acquistano dal giorno della
nascita. I titoli in parola, che sono concessi, oltre che a tutti i maschi
anche alle femmine, si acquistano dalle donne con la nascita e spettano
alle medesime soltanto durante lo stato nubile, perdendosi così
in caso di matrimonio, e non danno luogo a successione (art. 57).
Questa larga forma di concessione di titoli si trova in antiche investiture,
in cui più che onorarsi la persona, intendevansi onorare tutti
quelli di una agnazione che avevano lo stesso cognome, anche se fossero
donne. Ai fini però della trasmissione ed affinché i titoli
non uscissero dalla famiglia, il nuovo ordinamento ne impedisce la trasmissione
da parte delle femmine.
È stato già detto, parlando del titolo di nobile (v. n.
42), che in base al regolamento del 1896, il titolo di nobile era attribuito,
fra gli altri, agli ultrogeniti delle famiglie titolate coll’aggiunta
del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso «dei».
Quando i titoli del primogenito erano parecchi, agli ultrogeniti non si
attribuiva la qualificazione generica che di un solo titolo o predicato
seguendo le speciali tradizioni locali o familiari. Più esattamente
il nuovo ordinamento regola i titoli degli ultrogeniti, nonché
i titoli passati in altra famiglia per successione femminile, a proposito
dei quali la Consulta Araldica aveva formulato la massima 16: quando un
titolo o predicato nobiliare passa in altra famiglia, agli ultrogeniti
della famiglia che lo possedeva non spetta il diritto di portarlo, preceduto
dal segnacaso «dei», che personalmente. Chiariva la massima
15 della Consulta che in Italia la particella «di» o «de»
premessa al cognome non è da sola indizio di nobiltà.
Gli art. 57 e 58 del nuovo ordinamento stabiliscono in proposito, più
completamente, che agli ultrogeniti di famiglie insignite di titoli primogeniali
è attribuito, oltre alla semplice nobiltà, il diritto di
aggiungere al cognome l’appellativo del titolo e predicato del primogenito,
preceduto dal segnacaso «dei»15
. Quando i titoli o predicati primogeniali sono parecchi, gli ultrogeniti
aggiungono, dopo il segnacaso «dei», l’appellativo di
quel titolo o predicato che fa parte del nome d’uso della famiglia,
salva diversa tradizione familiare, da riconoscersi dalla Consulta (art.
57). Quando uno o più titoli o predicati nobiliari siano passati
per successione femminile in altra famiglia, il diritto suesposto degli
ultrogeniti spetta ai membri della famiglia che ha perduto i titoli, nati
prima del passaggio, ed a quelli della famiglia in cui sono pervenuti,
nati dopo il passaggio (art. 58)16
.
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15 -Cass. Regno. 17 luglio 1931, Bonanno o Federico. Sett.
Cass., 1931, 1369. Rispetto alla qualifica di nobile non è fatta
distinzione fra femmine nubili e non nubili.
16 -L’art. 57 corrisponde con modifiche al 4 dello statuto nobiliare
del 1926, ed il 58 è nuovo.
Regime dei titoli ricevuti per
via di femmine o in possesso di femmine
Ma stabilito il principio della successione primogeniale maschile, occorreva
regolare la situazione di coloro che avevano ricevuto titoli per via di
femmine, e dei titoli che potevano trovarsi in possesso di femmine.
Qui il legislatore ha saputo contemperare i diritti quesiti con l’osservanza
del nuovo principio informatore della successione nobiliare. E poiché
il 7 settembre 1926, come è stato detto, era entrato in vigore
il nuovo ordinamento, viene stabilito all’art. 59 che i titoli e
predicati, provenienti da femmine, che prima del 7 settembre 1926 sono
legittimamente pervenuti alla loro discendenza maschile, continuano a
devolversi alla medesima discendenza secondo le norme stabilite dall’articolo
54, cioè secondo il nuovo ordinamento maschile primogeniale con
esclusione delle femmine17
. Si riconobbe cioè l’acquisto fatto per via femminile, ma
il trapasso avvenire deve aver luogo per via maschile.
Il trapasso alla discendenza maschile di tali titoli provenienti da femmine
s’intende legittimo, per le successioni verificatesi dopo l’emanazione
del regolamento del 1896, allorquando prima della data del 7 settembre
1926, siano state emesse le R. lettere patenti di assenso prescritte per
il passaggio di titoli da una famiglia ad un’altra. Se dette lettere
patenti siano state richieste prima del 7 settembre 1926, il rilascio
delle medesime può aver luogo con effetto di legittimare la devoluzione
dei titoli a favore della discendenza maschile18
. Ma questo trapasso dei titoli per via di femmine nella linea maschile
sua discendente trova un limite, che riconduce, i titoli stessi nella
famiglia da cui provenivano. Difatti stabilisce il 4° comma dell’art.
59 che, estinte le linee maschili, aventi per stirpe comune la femmina
intestataria del titolo, questo con gli annessi predicati ritorna, previe
lettere patenti di R. assenso, all’agnazione maschile della famiglia
alla quale apparteneva nel giorno della promulgazione delle leggi abolitive
della feudalità, ed osservati i nuovi principi regolatori della
successione di cui all’art. 5419
.
Si è parlato finora dei titoli passati alla discendenza maschile
provenienti da donne, ma può darsi anche il caso che i predicati
e i titoli alla data del 7 settembre 1926 fossero pervenuti in femmine
(art. 60). Qui si hanno due casi: le femmine possono essere nubili o maritate.
Nel caso che le femmine rimangano nubili, i titoli, alla loro morte, e
nel caso che si maritino, dal giorno del loro matrimonio, passano alla
agnazione maschile della famiglia alla quale la donna appartiene con l’osservanza
delle norme nuove regolanti la successione. Nel caso che detta agnazione
più non esista, si consentono dalla legge, per l’art. 63,
delle eccezioni per il passaggio del titolo attraverso la via femminile.
Il secondo caso è quello che le donne cui siano pervenuti i titoli
e i predicati al 7 settembre 1926 si fossero trovate già maritate.
In questo caso si rispetta il diritto quesito dalle donne anzidette di
conservare il titolo soltanto loro vita natural durante, ma vengono dichiarate
senza effetto le lettere patenti di Regio assenso che avevano loro consentito
il trapasso del titolo alla loro discendenza, nata dal matrimonio, dato
che i titoli passano alla agnazione maschile delle famiglie donde le donne
stesse provengono.
A questo principio è ammessa una attenuazione, poiché, nel
caso che siano pervenuti più titoli a donna maritata prima del
7 settembre 1926, può essere consentito, su sua richiesta, mediante
decreto di R. assenso, che dopo la morte della donna intestataria, succeda
in qualcuno di quei titoli e annessi predicati il primogenito che discende
da quel matrimonio e purché non si tratti del predicato che fa
parte del nome d’uso della famiglia (art. 60 ult. cap.) 1)20
.
È stato detto del principio che fissa il trapasso dei titoli dalla
discendenza maschile estinta, cui erano pervenuti per via di donne, alla
agnazione maschile alla quale appartenevano nel giorno della abolizione
della feudalità.
Ma occorreva anche prevedere il caso che la agnazione, alla quale il titolo
avrebbe dovuto passare, fosse anche estinta o si estinguesse dopo il 7
settembre 1926, ed in tal caso il titolo avrebbe dovuto di regola tornare
alla Corona. Ma affinché il titolo non si estinguesse, ne è
consentita la rinnovazione per via femminile, in via di eccezione alla
regola maschile.
In proposito dall’art. 6321
è stabilito che se siano estinte, o dopo il 7 settembre 1926 si
estinguano, le agnazioni maschili delle famiglie alle quali avrebbe dovuto
tornare il titolo, passato per via di donne in altra famiglia, questo
può essere rinnovato con atto Sovrano a favore di una figlia dell’ultimo
investito e della di lei discendenza maschile, sotto condizione che la
famiglia di quest’ultima si trovi inscritta nell’elenco ufficiale
della nobiltà italiana (v. n. 110). Nel caso che esistano più
figlie dell’ultimo investito del titolo è data preferenza
alla più anziana di età, che all’atto della vacanza
del titolo, abbia già prole maschile, appartenente a famiglia già
inscritta nell’elenco suindicato.
È stato già fatto cenno che i titoli e predicati provenienti
da donne al 7 settembre 1926 potevano essere in possesso di donne nubili,
le quali perdevano i titoli stessi dal giorno in cui fossero passate a
nozze, dovendo i titoli tornare alla agnazione maschile della famiglia
cui essi appartenevano. Ed allora anche nel caso che siano estinte, o
dopo il 7 settembre 1926 si fossero estinte, le agnazioni maschili cui
i titoli avrebbero dovuto tornare, per ragioni di uniformità di
trattamento col caso precedente, è stata consentita la rinnovazione
del titolo. Stabilisce infatti il 2° comma dell’art. 63: nell’ipotesi
di estinzione delle suddette agnazioni, la rinnovazione mediante atto
sovrano potrà aver luogo a favore della discendenza maschile dell’ultima
donna intestataria del titolo, sotto la condizione medesima che la famiglia
di tale discendenza maschile si trovi già inscritta nell’elenco
ufficiale della nobiltà italiana.
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17 - A norma del R. D. 21 gennaio 1929, n. 61 i titoli
e predicati nobiliari provenienti da femmine continuano a devolversi alla
loro discendenza maschile quando siano legittimamente pervenuti a detta
discendenza prima del 7 settembre 1926 - Cass. 22-12-1932, Federico-Perez,
Giur. It., 1933, 1, 1, 201.
18 - Cass. Regno, 22-12-1932, Federico c. Perez, Giur. It., 933, I, 201.
E’ improponibile l’istanza avanti al magistrato ordinario
per il riconoscimento del diritto al titolo nobiliare quando anteriormente
al 7 settembre 1926 sia stata soltanto presentata l’istanza alla
Consulta Araldica. In tale ipotesi l’attribuzione del titolo può
però avvenire per Sovrana concessione.
19 - L’art. 59 corrisponde al 5 dello statuto nobiliare del 1926,
integrato dall’art. 1 del R. D. 16-6-1927, n. 1091. - Detto articolo
5 ed i seguenti 6, 8 e 10 hanno formato oggetto di critiche, e sono stati
paragonati al Saturno della favola, perché hanno in parte reso
nullo il principio informatore della riforma del 1926. - Cfr. GUALTIERI,
op. cit., pag. 70 e segg. - Le critiche sono però esagerate non
potendosi non tener conto dei diritti quesiti.
20 -L’art. 60 corrisponde al 6 dello statuto nobiliare del 1926.
21 - Corrisponde al 9 dello statuto nobiliare del 1926.
Divieto di surrogazione nei titoli
e nel nome - Restituzione in forma italiana di cognomi
e predicati nobiliari
A proposito della condizione apposta che la famiglia in cui si rinnova
il titolo sia inserita nell’elenco ufficiale nobiliare è
da far presente che l’art. 9 dello statuto del 1926 stabiliva l’obbligo
della assunzione del cognome materno o tale assunzione di cognome dovette
abbandonarsi in conseguenza del principio stabilito nell’art. 64
del nuovo ordinamento, che non trova riscontro nell’ordinamento
del 1926, e per il quale non è ammessa alcuna forma di surrogazione
dei cognomi di famiglia e nei rispettivi titoli, dipendente da antiche
istituzioni fedecommissari e o comunque in uso specialmente negli antichi
Stati della Chiesa.
Per la interpretazione di questo art. 64 è da ricordare che nello
Stato Pontificio, per una non retta interpretazione dell’istituto
dell’adozione dell’antico diritto pretorio, fu ritenuto che
i testatori e gli istitutori di fedecommessi fossero autorizzati a stabilire
l’ordine e la sequenza di successione dei loro beni, e quindi dei
privilegi, titoli e giurisdizioni annessi ai beni stessi. In virtù
di questa facoltà molti istitutori di fedecommessi stabilirono
la sequenza successoria oltre il limite naturale della loro discendenza
agnatizia, consentendo che estranei alla famiglia succedessero nei beni,
nel nome, nei titoli. È questa la figura giuridica della surrogazione22
. Inoltre in altri casi, con l’assenso o la tolleranza del Governo
papale, la surrogazione di una famiglia ad un’altra veniva effettuata
come espediente per assicurare a una persona di conseguire un rango elevato,
al quale non avrebbe potuto pervenire per altra strada, o una successione,
che nei casi di estinzione di una famiglia sarebbe stata dubbia per la
concorrenza di più famiglie discendenti da ceppo femminile, stante
l’assenza quasi assoluta in Roma e nelle province romane di leggi
generali di successione.
Talora anche l’ordine di successione fedecommissaria o testamentaria
in caso di estinzione della famiglia subiva all’atto pratico deroghe
e mutazioni per volontà del Papa. Di tal che con la surrogazione
veniva imposto che l’onorato si sostituisse nei beni, nei titoli,
nel nome alla famiglia dell’adottante, del testatore o dell’istitutore
del fedecommesso.
Di tale istituto della surrogazione non si trovano tracce né nel
codice Napoleonico, né negli ordinamenti degli ex stati italiani
preunitari, ad eccezione dello Stato Pontificio ed in parte in Toscana.
Inoltre per diritto romano (Codex De Mutatione nominis, 9, 25) ognuno
aveva piena facoltà di mutare il proprio nome sia assumendo un
nome che ad altri non appartenesse, sia assumendo un nome altrui purché
ciò fosse fatto sine fraude et iniuria. Questo principio della
mutabilità dei cognomi non subì alcuna innovazione nel diritto
intermedio, né nel diritto pontificio che non emise in proposito
alcuna disposizione innovativa. L’obbligo dell’assunzione
di altro cognome dopo il secolo XIII, in cui il cognome divenne di uso
generale, venne talvolta però anche imposto come condizione, sub conditione nominis ferendi, per l’accettazione di atti di liberalità,
o per la contrazione di matrimoni in cui lo sposo assumeva o anteponeva
al proprio il cognome della moglie, ma qui non si ha la figura della surrogazione.
E in questi casi in taluni Stati occorreva l’assenso Sovrano.
Nel diritto italiano è ammesso soltanto che l’adottato assuma
il cognome dell’adottante aggiungendolo al proprio (art. 210 c.
c.). Inoltre per l’art. 119 del R. D. 15 novembre 1865, numero 2602
sull’ordinamento dello stato civile è ammesso il cambiamento
di nome e cognome o l’aggiunta di un altro nome o cognome, ma tanto
l’adozione quanto il cambiamento o l’aggiunta del nome o cognome
non importano per il nostro diritto trasmissione di diritti e privilegi
nobiliari. Di tal che può dirsi che con l’art. 64 del nuovo
ordinamento si è ristabilita la uniformità di legislazione
su questo punto, che era stata causa di tutte le controversie e di tutte
le dispute nascenti dalle liberalità lasciate sotto condizione
di assumere il cognome dei testatori o degli institutori di fedecommessi,
e che sarebbe stato in contrasto col principio informatore della successione
per via maschile.
La nostra legislazione ammette anche il cambiamento di cognome delle famiglie
e di predicati nobiliari nei nuovi territori annessi al Regno, colle leggi
26 settembre 1920, n. 1322, e 19 dicembre 1920, n. 1778, ai fini della
loro restituzione in lingua italiana. Stabilisce infatti il R. D. legge
10 gennaio 1926, n. 17, che le famiglie della provincia di Trento che
portano un cognome originario italiano o latino tradotto in altre lingue,
o deformato con grafie straniere o con l’aggiunta di suffisso straniero,
riassumeranno il cognome originario nelle forme originarie. Saranno ugualmente
ricondotte alla forma italiana i cognomi di origine toponomastica, derivati
da luoghi, i cui nomi erano stati tradotti in altra lingua o deformati
con grafia straniera, e altresì i predicati nobiliari tradotti
o ridotti in forma straniera. La restituzione in forma italiana viene
pronunciata con decreto del Prefetto della provincia, che è notificato
agli interessati, Pubblicato nella Gazzetta ufficiale del Regno ed annotato
nei Registri dello Stato Civile. Chiunque, dopo la restituzione avvenuta,
fa uso del cognome o del predicato nobiliare nella forma straniera è
punito con la multa da lire 200 a lire 3000. All’infuori dei casi
suddetti, su richiesta degli interessati, i cognomi stranieri possono
essere ridotti con decreto del Prefetto in lingua italiana. Con R. n.
7 aprile 1927, n. 494 venne esteso il R. D. Legge suddetto a tutti gli
altri territori annessi. Con circolare n. 8600 del 1° maggio 1928
della Presidenza del Consiglio dei Ministri vennero date istruzioni ai
Prefetti del Regno sulla traduzione dei predicati nobiliari in dipendenza
della applicazione delle disposizioni sulla restituzione in forma italiana
di cui è stato sopra detto.
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22 - RIVERA, L’opera della Consulta Araldica cit.,
pag. 56; Idem, La successibilità nobiliare per surrogazione, in
“Riv. Araldica”, giugno-luglio 19216.
Successione eccezionale
nei titoli da parte di donne
L’assicurare che certi titoli non si estinguano e che non passino
al rango collaterale nel caso che l’intestatario maschile possieda
più titoli, ha fatto annettere, seguendo una tradizione storica
fondata nel capitolo 204 dell’Imperatore Carlo V, una eccezione,
permettendo una successione per via femminile. Così l’art.
6523
disponendo che in via eccezionale su domanda dell’attuale intestatario
di sesso maschile, possessore di più titoli nobiliari, può
essere disposto, mediante decreto di R. assenso che, per il caso di sua
morte senza discendenza maschile, succedano in uno dei titoli ed annessi
predicati, purché non si tratti del predicato che fa parte del
nome d’uso della famiglia, a preferenza della propria agnazione
maschile, la figlia primogenita dell’unico figlio premorto o, in
difetto, la figlia primogenita, e in difetto nell’ordine successivo,
la sorella prossimiore, e dopo la loro morte, la rispettiva discendenza
maschile.
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23 - Corrisponde al 10 dello statuto nobiliare del 1926,
che lo accolse sotto forma di eccezione dalla proposta fatta dalla Commissione
Araldica Siciliana. Ha formato oggetto di critiche. Per l’art. 10,
la disposizione eccezionale era applicabile solo alle successioni napoletana,
siciliana e sarda.
Uso di titoli da parte del figlio
primogenito dell’intestatario
È stato parlato della refuta, cioè della anticipata successione
nel titolo e nel feudo da parte del prossimo successibile (v. n. 12),
ed è stato visto che questo istituto è stato soppresso dall’art.
8 dell’ordinamento del 1926, conservando però i diritti quesiti
degli investiti. Il nuovo ordinamento conferma questo principio all’art.
62, ove stabilisce che sono conservati i diritti degli investiti di uno
o più titoli per anticipata successione legalmente consentita,
e che l’ulteriore successione nel titolo ha luogo secondo le nuove
norme stabilite dall’art. 54 e all’art. 16 tratta della refuta
in senso largo con rinnovazione del titolo (v. n. 48). Inoltre all’art.
66 tratta di un istituto consimile alla refuta, già previsto dall’articolo
11 dell’ordinamento del 1926, e derivante dalla consuetudine vigente
presso le più alte famiglie della nobiltà napoletana e romana
e che è richiamata nel Reale Rescritto 24-9-1827 di Francesco I
di Napoli, che ammetteva che il capo di una famiglia avente titoli diversi
permettesse per consuetudine che durante la sua vita uno di questi titoli
fosse portato dal figlio primogenito. Questa consuetudine era stata costantemente
riconosciuta dalla Consulta Araldica. Trattasi della facoltà consentita
al titolare di più titoli che il di lui figlio primogenito, e,
in difetto, il primo chiamato alla successione dei titoli usi durante
la vita dell’intestatario di uno dei titoli stessi.
Qui non si ha dunque un vero passaggio di titolo dall’intestatario
all’altro, ma il semplice uso da parte del nuovo chiamato, restando
il titolo nella sfera dell’intestatario. L’esercizio di questa
facoltà è subordinata a varie condizioni, e cioè
che l’intestatario ne faccia domanda, che disponga di più
titoli, che vi sia parere favorevole della Consulta Araldica. Il provvedimento
è adottato con decreto del Capo del Governo.
Uso da parte del marito di titoli
della moglie; passaggio dei titoli in caso di assenza
È stato già detto (v. n. 14) che la donna titolata non trasmetteva
la nobiltà al marito, e che nel Napoletano, essendosi formata una
consuetudine contro legge, che il marito portasse i titoli della moglie
nobile, fosse stato ratificato questo uso con Dispacci 4 marzo e 24 aprile
1828. In conseguenza la Consulta Araldica aveva stabilito la massima che
per fare tale uso occorresse un decreto ministeriale di riconoscimento,
anche in quei paesi ove l’usanza si applicava.
Il nuovo ordinamento ha dovuto conciliare i diritti quesiti con il nuovo
principio della esclusione della successione in persona di donne, e di
conseguenza ha dovuto limitare del marito, nel caso di vedovanza, l’uso
del titolo principale della moglie senza l’impiego del predicato,
appoggiandolo cioè al proprio cognome, pel fatto che il titolo
per la morte della moglie ritorna all’agnazione maschile della famiglia
d’origine di essa. Difatti l’art. 61 del nuovo ordinamento,
risultante dall’art. 7 dell’ordinamento del 1926 modificato
dal cit. R. D. nel 1927, stabilisce che il marito di donna titolata che
alla data del 7 settembre 1926 portava legalmente titoli e predicati nobiliari
della moglie li conserva in costanza di matrimonio. Nel caso di morte
della moglie potrà usare il di lei titolo principale senza predicato,
e non oltre lo stato vedovile.
La Consulta Araldica aveva adottato la massima che era in sua facoltà
di esaminare tutte le prove addotte per la giustificazione di un titolo
nobiliare, applicando le regole regali dell’assenza quando ne fosse
il caso. Il nuovo ordinamento ha voluto sulla base di detta massima regolare
la situazione dei titoli nel caso di assenza, in cui non vi è una
apertura di successione, applicando i principi informatori del Codice
civile (art. 25-33) sull’assenza. Stabilisce infatti l’art.
68 dell’ordinamento che qualora a seguito di dichiarazione legale
di assenza, sia stata autorizzata dall’autorità giudiziaria
la immissione nel possesso temporaneo dei beni dell’assente, colui
che nel caso di morte dell’assente sarebbe chiamato a succedergli
nei titoli ed attributi nobiliari, può chiedere di essere autorizzato
con decreto del Capo del Governo, alla anticipata successione. Trattasi
però di successione nel titolo subordinata a condizione risolutiva,
poiché gli effetti della anzidetta autorizzazione cessano di pieno
diritto, e senza che quindi occorra un decreto del Capo del Governo, nel
caso che l’assente ritorni, o se comunque venga provata la sua esistenza.
Libertà della R. Prerogativa
di non attenersi alle disposizioni dell’ordinamento nobiliare
Perché si avesse uniformità nella regolamentazione di tutta
la materia, l’articolo 67 chiarisce che le anzicennate disposizioni
circa lo statuto delle successioni nobiliari si applicano non soltanto
alle antiche concessioni, ma anche a quelle avvenute dopo la unificazione
politica del Regno e a quelle future. Di tali disposizioni rimangono in
vigore a meno che nei singoli casi concreti la Prerogativa Sovrana non
abbia dato espressamente maggiore o minore estensione alle disposizioni
stesse o non abbia regolato con condizioni speciali l’ordine dei
successibili.
Nonostante quindi l’esistenza di queste norme di carattere generale,
rimane piena libertà al Sovrano di adoperare nelle concessioni
norme differenti.
La Corona, come è libera in base all’art. 1 lett. a) del
nuovo ordinamento di stabilire norme giuridiche di carattere generale
aventi forma di legge per l’acquisto, la successione, l’uso,
la perdita dei titoli e qualifiche nobiliari, così è anche
libera di stabilire, nei casi singoli, norme apposite. Come può
il più, a forziori può il meno.
La Consulta Araldica
L’esercizio della R. Prerogativa viene effettuato, come è
stato detto (v. n. 28, 54), direttamente dal Re o dal Capo del Governo.
Nell’esercizio della prerogativa stessa essi sono coadiuvati da
organi consecutivi e da uffici amministrativi.
Sono organi consultivi la Consulta Araldica e il Commissario del Re, il
quale ha la rappresentanza degli interessi della R. Prerogativa, le Commissioni
Araldiche Regionali.
L’art. 69 dell’ordinamento stabilisce che la Consulta Araldica
del Regno è istituita presso la presidenza del Consiglio dei Ministri
per dare pareri ed avvisi al Governo sui diritti mantenuti dall’art.
79 dello statuto fondamentale del Regno e sulle domande e questioni concernenti
materie nobiliari ed araldiche. A proposito di questo articolo nella relazione
del Capo del Governo al Re sul nuovo ordinamento viene affermato che uno
dei capisaldi della riforma è che la Consulta ha funzione puramente
consultiva in tutti i casi previsti dall’ordinamento. Ciò
è dovuto al fatto che negli Stati italiani preunitari si erano
costituite due tipi di giurisdizioni speciali circa la materia nobiliare,
l’uno esclusivo, l’altro con competenza limitata in rapporto
ai diritti privati. Nel primo gruppo possono comprendersi: il Piemonte
con il R. Editto 29 ottobre 1847 di Carlo Alberto per il quale fu mantenuta
la competenza speciale della Camera dei Conti per statuire anche in forma
di giudizio sulla spettanza dei titoli di nobiltà di qualificazioni
di origine feudale; la Lombardia colla giurisdizione speciale affidata,
prima ad un tribunale araldico col Dispaccio di Maria Teresa del 27 gennaio
1767, poi al Consiglio di Governo con l’editto di Giuseppe II del
18 aprile 1786 e infine ad una speciale Commissione Araldica col decreto
14 dicembre 1814; il ducato di Parma con la sua Commissione Araldica istituita
da Maria Luigia con decreto 29 novembre 1823 per dar pareri ed esaminare
e riconoscere i titoli e i possessi di nobiltà, la Toscana con
la sua Deputazione toscana istituita da Francesco II con la legge 31 luglio
1750; lo Stato Pontificio con l’Assunteria di Bologna istituita
da Pio VII con breve 26 settembre 1820 e in Roma con la Congregazione
Araldica Capitolina con la bolla del 1746 di Benedetto XIV, e poscia con
la Congregazione del Buon Governo e con la Congregazione della Sacra Consulta.
Il secondo gruppo comprendeva il Ducato di Modena con l’editto di
Francesco IV del 2 gennaio 1816 istituente il Tribunale Araldico chiamato
a decidere intorno alle questioni di nobiltà, meno per le controversie
civili di successione e proprietà; il Regno di Napoli e Sicilia
con la Reale Commissione dei titoli di nobiltà, istituita col decreto
23 marzo 1833 di Ferdinando II, e avente nelle sue attribuzioni tutto
quello che in fatto di nobiltà e dei titoli apparteneva alle antiche
autorità, con specialità in tutti i casi di passaggio o
trasmissione dai titoli di nobiltà, ma con esclusione delle questioni
di stato o di prossimità di grado da decidersi preventivamente
dal magistrato ordinario. Queste speciali giurisdizioni furono poi soppresse
in seguito all’unità italiana, e nel R. D. 10 ottobre 1869
n. 5318, col quale venne istituita, fu affidata alla Consulta Araldica
il compito di dar parere al Governo in materia di titoli gentilizi, stemmi
ed altre pubbliche onorificenze. Con R. D. 8 maggio 1870 fu approvato
il regolamento per la Consulta araldica. Col R. D. 11 dicembre 1887 n.
5138 fu dato un nuovo ordinamento alla Consulta e con R. D. 8 gennaio
1888 fu approvato il relativo regolamento. Un successivo ordinamento fu
dato alla Consulta con R. D. 2 luglio 1896 n. 313, che all’articolo
1 stabiliva che essa era istituita per dare pareri ed avvisi al Governo
sui diritti garantiti dall’art. 79 dello Statuto del Regno e sulle
domande e questioni concernenti materie nobiliari ed araldiche. La dizione
adoperata da questo articolo, in cui si comprendevano per la prima volta
tra gli atti di competenza della Consulta i pareri e gli avvisi al governo
sui diritti nobiliari, fece sorgere in taluni l’opinione, sostenuta
anche davanti l’autorità giudiziaria, che la Consulta costituisse
una speciale giurisdizione per i diritti nobiliari. D’altro canto,
data la tendenza antica e tradizionale della giurisdizione speciale, e
avuto riguardo alla specialità della materia, si venne formando
nei cultori del diritto l’opinione che fosse opportuno circondare
di speciali garanzie l’esplicazione della R. Prerogativa e di limitare
la competenza giudiziaria ordinaria. Di tal che nel 1906 venne formulato
dalla Consulta, sotto la presidenza del Ministro Fortis, un progetto di
legge diretto a attribuire alla medesima funzioni giurisdizionali per
le controversie da parte di chi sentisse il bisogno di opporsi, o di chi
si credesse leso da un atto Sovrano o governativo, in relazione anche
alla conferma, rinnovazione o riconoscimento di un titolo, stemma o predicato,
e per tutti gli esami attinenti alla esistenza del titolo o del possesso,
che secondo legge potesse farne le veci, nonché per qualsiasi controversia
o disamina relativa all’uso, al passaggio, o alla trasmissione di
titoli nobiliari, riservando ai tribunali ordinari le sole controversie
concernenti lo stato delle persone e la prossimità del grado e
le altre congeneri questioni di mero diritto privato tra i vari interessati.
Ma la proposta, quantunque caldeggiata nella sua relazione dal compilatore
del progetto Senatore Pagano Guarnaschelli, non ebbe seguito per non accrescere
il numero delle giurisdizioni speciali sorte in seguito alla abolizione
dei tribunali del contenzioso amministrativo, e per le difficoltà
che avrebbe incontrato nel Parlamento, specie alla Camera dei Deputati.
D’altro canto la giurisprudenza si era venuta sempre affermando
nel senso che la Consulta Araldica non è un organo giurisdizionale,
al quale le parti potessero rivolgersi per far valere i propri diritti
e le cui deliberazioni potessero attribuire i titoli controversi, ma che
essa fosse un organo consultivo e che la Prerogativa Sovrana lasciasse
all’autorità giudiziaria la funzione dichiarativa del diritto
ai titoli, sia quanto alla loro esistenza, sia quanto alla loro trasmissione
garantita dalle norme di diritto successorio24
.
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24 - Vedi per ultimo Cassazione 28-2-1921, Villadicani
c. Villadicani, in Foro Ital., 1921, 437.
Sua composizione
La Consulta Araldica dalla sua istituzione avvenuta, come è stato
già detto nel 1869, ha subìto continue modificazioni sia
nel numero dei suoi componenti, sia nella loro qualità. Essa in
base all’art. 70 dell’ordinamento nobiliare, sostituito dal
R. D. 9 ottobre 1930, n. 1405, è composta di 14 Consultori, è
presieduta dal Capo del Governo, ed è assistita da un Cancelliere,
capo dell’Ufficio Araldico. I Consultori sono nominati con Decreto
Reale su proposta del Capo del Governo, udito il Commissario del Re presso
la Consulta.
Fanno parte di diritto della Consulta Araldica: Il Presidente della Corte
di Cassazione e il Presidente del Consiglio di Stato; gli altri 12 membri
sono scelti come segue:
a) due membri del Gran Consiglio del Fascismo, in rappresentanza di detto
organo;
b) due Senatori, in rappresentanza del Senato del Regno;
c) due Deputati in rappresentanza della Camera dei Deputati;
d) tre in rappresentanza delle famiglie iscritte nel Libro d’oro
della nobiltà italiana;
e) tre in rappresentanza degli Istituti Storici, delle R. Deputazioni
e di Società di Storia patria.
Si hanno così membri di diritto e membri elettivi.
Eccettuati i membri di diritto, tutti gli altri Consultori durano in carica
4 anni e possono essere confermati.
La innovazione dei due Consultori di diritto ha dato luogo a critiche
infondate circa la posizione di disagio in cui essi si verrebbero a trovare
nella eventualità che sarebbero state impugnate avanti l’autorità
giudiziaria o il Consiglio di Stato, da parte di coloro che si credono
lesi, le deliberazioni della Consulta Araldica alle quali essi avessero
concorso col loro voto. Invece la presenza di questi due alti magistrati
in seno alla Consulta costituisce una garanzia, perché le sue deliberazioni,
siano improntate a sensi di imparzialità e a criteri esclusivamente
giuridici25
.
Per quanto riguarda la rappresentanza delle famiglie nobili iscritte nel
Libro d’Oro è da tener presente che la nobiltà italiana
non è raggruppata in organismo né per tutto il Regno, né
regionale, per cui la rappresentanza va intesa nel senso che i membri
consultori sono scelti tra i membri delle famiglie iscritte nel Libro
d’Oro.
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25 - SABINI, L’ordinamento
cit., pag. 160 e seg.
La Giunta Araldica
Giusta l’art. 71 dell’ordinamento, sostituito dal citato R.
D. 9 ottobre 1930, n. 1405, poiché la Consulta non si riunisce
a data fissa e continua, ma a sessioni, fra i suoi membri viene Costituita
una Giunta permanente composta di un presidente nominato con Decreto Reale
e di 5 membri nominati con decreto del Capo del governo. Il Presidente
della Giunta e i suoi membri durano in carica quattro anni, seguendo i
turni quadriennali della Consulta Araldica e possono essere confermati.
Questo collegio, come si vedrà, con competenza propria costituisce
una specie di comitato della Consulta. Esso fu istituito per la prima
volta col R. D. 11 dicembre 1887, cd è stato mantenuto, con varianti,
nella sua composizione.
Ripartizione di competenza fra
la Consulta e la Giunta Araldica
La ripartizione di competenza fra Consulta Araldica e Giunta Araldica
permanente si desume dal disposto degli articoli 72, 73, 74 dell’ordinamento.
È da ricordare che in base all’articolo 7 dell’ordinamento,
per tutti i provvedimenti sia di grazia che di giustizia, ad eccezione
di quelli emanati di motu proprio del Re è necessario il preventivo
parere della Consulta o della Giunta Araldica (v. n. 46). Come regola,
le istanze e le proposte di provvedimenti da esaminare sono dal Cancelliere
presentate alla deliberazione della Giunta Araldica insieme al parere
scritto del Commissario del Re (v. art. 130) ed a quello delle Commissioni
Araldiche Regionali (articolo 72) (v. n. 103). Fanno eccezione però
le istanze e le proposte di provvedimenti sulle seguenti materie che devono
essere invece presentate alla deliberazione della Consulta Araldica (art.
74). I casi sono:
a) quando la deliberazione possa importare una decisione di massima;
b) quando si tratti di parere su concessioni di nuovi titoli o su rinnovazioni;
c) quando il voto della Giunta sia difforme dal parere del Commissario
del Re;
d) quando il richiedente reclami una Consulta contro le deliberazioni
della Giunta;
e) quando alla domanda dell’istante siano state fatte formali opposizioni
da terzi interessati;
f) in ogni altro caso in cui lo richieda il Commissario del Re o lo disponga
il Capo del Governo.
Come si evince la competenza della Giunta è data per esclusione,
e la Consulta Araldica ha nei casi di cui alle lett. c), d), una competenza
di seconda istanza, in rapporto alla Giunta, e negli altri casi una competenza
di prima ed unica istanza.
L’art. 74 dell’ordinamento vigente, in raffronto all’art.
8 del regolamento del 1896, allarga la competenza della Consulta anche
al caso di parere su concessioni di nuovi titoli o su rinnovazioni.
Funzionamento della Consulta
e della Giunta Araldica
Gli articoli dal 78 all’86 dell’ordinamento nonché
il 70 modificato dal R. D. 9-10-1930 n. 1405 contengono le norme per il
funzionamento della Consulta e della Giunta, delle quali norme è
superfluo ogni raffronto con il regolamento del 1896. La Consulta è
convocata dal Capo del Governo almeno tre volte all’anno, con inviti
a firma del Cancelliere, corredati dall’ordine del giorno e spediti
almeno dieci giorni prima dall’inizio della sessione. Le sedute
sono presiedute dal Capo del Governo, e in caso di sua assenza o impedimento
dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
o dal Consultore più anziano di età, e, se di pari anzianità
di età, dal Consultore più anziano di nomina. La Giunta
è convocata dal suo Presidente, sentito il Commissario del Re.
È qui da ricordare che per il citato R. D. 9 ottobre 1930 n. 1405
che ha modificato l’art. 70 dell’ordinamento, è stato
soppresso il Commissario del Re aggiunto, per cui non occorre più
la specificazione di Commissario del Re effettivo, come fa l’art.
79, né di Commissario intervenuto alla adunanza di cui è
cenno negli articoli 85 e 86, dato che vi è un solo Commissario.
La di lui presenza per la modifica dell’art. 76 è però
necessaria per la validità delle adunanze della Consulta e della
Giunta permanente araldica, in cui negli intervalli per illustrare il
parere da lui formulato nelle pratiche iscritte all’ordine del giorno.
Gli inviti alla riunione a firma del Cancelliere, corredati dall’ordine
del giorno devono essere inviati con anticipazione almeno di 10 giorni,
salvo i casi d’urgenza, nei quali la convocazione può essere
fatta anche con avviso spedito 3 giorni prima.
Per la validità delle deliberazioni occorre che intervengano alle
adunanze della Consulta almeno otto Consultori, e a quelle della Giunta
almeno quattro.
I Consultori che senza giustificato motivo manchino a tre sessioni consecutive
della Consulta si reputano dimissionari (art. 80). Per gli art. 70, 71
e 81 dell’ordinamento vi erano anche in seno alla Consulta sette
Consultori supplenti, chiamati prima onorari, e in seno alla Giunta due
Commissari supplenti, membri tutti che per il R. D. 1930, n. 405, sono
stati aboliti. I Consultori e i Commissari supplenti potevano intervenire
rispettivamente alle adunanze, e, quando vi supplivano i membri effettivi,
potevano prendere parte alla discussione ed alla votazione per integrare
il numero legale dei votanti effettivi.
Le deliberazioni sono prese a maggioranza di voti, in caso di parità
il voto del Presidente prevale. A domanda di due Consultori le votazioni
possono essere segrete (art. 82).
I membri della Consulta, nel termine stabilito per la convocazione delle
adunanze, possono
prendere visione delle domande poste all’ordine del giorno e dei
relativi documenti (art. 83). Quando alla Consulta o alla Giunta o ai
rispettivi Presidenti sembri opportuno, gli affari di maggiore importanza
possono essere affidati all’esame di uno o più Consultori
per farne oggetto di una speciale relazione (art. 84).
Circa la determinazione degli affari di maggiore importanza è da
rilevare che l’importanza non è data dalla sola natura del
singolo affare, ma dalle conseguenze che esso può importare per
la trattazione della materia in generale, dalla ripercussione che una
decisione può avere su altri affari o su decisioni di massima ecc.
È stato, e giustamente, rilevato dal Sabini che il sistema di trattazione
degli affari in seno alla Consulta ed alla Giunta si discosta da quello
di tutti gli altri organismi consultivi dello Stato, nei quali per ogni
affare ordinariamente sono nominati un relatore o più relatori,
mentre alla Consulta ed alla Giunta la nomina di uno o più relatori
è riservata agli affari di maggiore importanza, e di regola gli
affari vengono portati alle decisioni del Collegio accompagnati dal solo
parere del Commissario del Re.
Una innovazione dell’ordinamento è quella che eleva la posizione
del Cancelliere in seno alla Consulta ed alla Giunta, trasformandolo da
semplice segretario redattore dei verbali a collaboratore effettivo. Infatti
l’art. 87 lett. CL, dispone che egli assista alle adunanze della
Consulta e della Giunta e richiami all’occorrenza le precedenti
deliberazioni in casi analoghi, per cui egli con la sua opera di ausilio
e di consiglio cerchi di assicurare, per quanto possibile, la uniformità
di indirizzo delle deliberazioni.
I verbali delle adunanze sono compilati dal Cancelliere, vistati dal Commissario
del Re e sottoscritti dal Presidente. In ciascuna tornata della Consulta
o della Giunta viene data lettura del verbale della tornata precedente.
Nei verbali delle adunanze si fa constare del parere del Commissario del
Re, dell’avviso delle Commissioni Araldiche Regionali, delle conclusioni
del relatore o dei relatori, dello svolgimento della discussione e delle
deliberazioni prese (art. 85). Un estratto dei verbali a cura del Commissario
del Re è sottoposto alla approvazione del Capo del Governo; dopo
di che viene trascritto in due registri Speciali dell’Ufficio Araldico
(art. 86).
Il Cancelliere, giusta l’art. 96 dell’ordinamento, custodisce
i registri dei Decreti Reali, delle
R. Lettere Patenti, dei decreti ministeriali, dei verbali della Consulta
e della Giunta. In base all’articolo 87 egli custodisce i libri,
i registri araldici e l’archivio della Consulta, amministra i fondi
assegnati alla Consulta, e per l’art. 103 fa compilare per tutti
i registri araldici e per i Verbali delle adunanze della Consulta e della
Giunta gli indici alfabetici dell’oggetto delle deliberazioni prese,
dei nomi degli enti morali e delle massime adottate.
I certificati e gli estratti di detti libri e registri, collazionati ed
autenticati, sono, in base all’articolo 104, rilasciati dal Cancelliere
col visto del Commissario.
Portata delle deliberazioni della
Consulta e della Giunta Araldica
Circa la portata delle deliberazioni della Consulta e della Giunta soccorrono
gli articoli 73, 74, 131, 132.
Quando il voto della Giunta non è conforme al parere del Commissario
del Re, l’affare deve essere sottoposto alla deliberazione della
Consulta (art. 74); quando invece il voto è conforme, il Commissario
presenta al Capo del Governo una relazione sul provvedimento da emettersi
(articolo 73). Eguale relazione il Commissario è tenuto a presentare
al Capo del Governo quando sia intervenuta una deliberazione della Consulta
(articolo 131).
Quando il Capo del Governo abbia approvato (impropriamente sanzionato
dice l’articolo) la deliberazione, il Cancelliere a mezzo dell’Ufficio
Araldico cura la spedizione del provvedimento, e l’Ufficio stesso
dà prontamente avviso agli interessati del tenore dal provvedimento
messo (articolo 132).
Il Commissario del Re
Il Commissario del Re presso la Consulta Araldica fu istituito col R.
D. 10 ottobre 1869, n. 5318, al pari della Consulta stessa, ed è
stato successivamente conservato. Circa la sua nomina fin dalla istituzione
venne stabilito dovesse effettuarsi mediante Decreto Reale, e così
ancora era detto all’art. 70 dell’ordinamento, sennonché
l’art. 1 del R. D. 9 ottobre 1930, n. 1405, che l’ha sostituito,
non porta alcuna indicazione in proposito.
Non può però dubitarsi che, la sua nomina debba effettuarsi
per Decreto Reale su proposta del Capo del Governo, data l’elevatezza
della carica di rappresentante della Prerogativa Sovrana, che per la delicatezza
delle sue funzioni deve riscuotere anche la fiducia del Capo del Governo26
. Parimenti l’ordinamento attuale continua nella tradizione iniziata
col 1869 di non stabilire quali siano i requisiti per la nomina a Commissario
del Re, per cui la scelta rimane del tutto libera al Sovrano. Circa le
sue attribuzioni, tenuto conto delle modifiche contenute nel R. D. 1405
agli art. 75 e 76, il Commissario esamina le istanze e le proposte di
provvedimenti nobiliari che gli vengono comunicate dall’Ufficio
Araldico, chiede per il tramite del Cancelliere agli istanti chiarimenti
ed anche più ampia e precisa documentazione, stabilendo all’uopo
un termine non maggiore di tre mesi. Esaurita la istruttoria della pratica
o trascorso inutilmente il termine prefisso, restituisce gli atti col
proprio parere all’Ufficio Araldico. Inoltre il Commissario invigila
sul funzionamento degli Uffici della Consulta Araldica e di quelli delle
Commissioni Araldiche Regionali. Spetta anche al Commissario, udito il
Capo del Governo, di sottoporre all’assenso Sovrano tutte le proposte
di provvedimenti di grazia. Ma oltre questi compiti e quelli indicati
sulla partecipazione alle sedute della Consulta e della Giunta (v. n.
100), il Commissario ne ha altri. Così, giusta l’art. 7 dell’ordinamento
(v. n. 46) egli deve essere sentito previamente per i provvedimenti che
riguardano predicati o stemmi, e deve ricevere pronta partecipazione dei
provvedimenti di motu proprio Sovrano. Per l’art. 49 egli deve richiedere
l’annotazione a margine sopra i libri e registri della Consulta
Araldica del decreto che pronuncia la perdita dei titoli, predicati e
qualifiche ed è tenuto a dare notizia di tale annotazione alla
Consulta nella prima riunione successiva alla annotazione stessa (v. n.
83); per l’art. 77 egli è tenuto ad effettuare le verifiche
degli alberi genealogici e ad autenticarne l’esattezza col visto
del Capo del Governo, autenticazioni e verifiche da limitarsi all’inizio
della nobilitazione; per l’art. 90 può chiedere, pareri ed
avvisi (v. n. 103) alle Commissioni Araldiche Regionali. Occorre il di
lui consenso perché sia data visione agli interessati che li produssero,
dei documenti conservati nell’archivio della Consulta (art. 105),
e perché in certi casi, specificati dall’art. 107, siano
restituiti agl’interessati i documenti esibiti (v. n. 111). In materia
di trattazione delle domande relative a provvedimenti nobiliari il Commissario,
giusta l’art. 112, ha la facoltà, ove lo creda opportuno,
di richiedere al Prefetto del luogo di domicilio dell’istante informazioni
in via riservata sulla condotta morale e sulle condizioni economiche dell’istante
e dei suoi prossimi congiunti (v. n. 116), e, giusta l’art. 123,
può richiedere, allorquando le domande involgano palesemente interessi
di terzi, che gli istanti ne facciano pubblicare un sunto nella Gazzetta ufficiale del Regno e nei fogli degli Annunci Legali delle province di
origine e di residenza dagli istanti.
Dal lato storico, la competenza del Commissario del Re richiama alla mente
la Commissione Reale dei titoli di nobiltà istituita da Ferdinando
II di Borbone col decreto 23 marzo 1833, uno dei membri della quale aveva
funzioni di pubblico ministero. Detto ufficio era ricoperto dal procuratore
generale presso la Corte Suprema di Giustizia in Napoli o in Palermo,
ed aveva anche il compito di praticare l’istruttoria delle domande
sulle quali doveva deliberare la Commissione. Egli doveva essere necessariamente
sentito in tutti gli affari, in modo che diventava il centro motore e
controllore dell’attività della detta Commissione.
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26 - Ciò è confermato dal R.D. 27 luglio
1934, n. 1334, il quale dispone che il D. R. non è sottoposto alla
registrazione della Corte dei Conti.
Le Commissioni Araldiche Regionali
Le Commissioni Araldiche Regionali sorsero col R. D. 15 giugno 1889 che
approvava il regolamento per le iscrizioni di ufficio nei registri della
Consulta Araldica, con il compito temporaneo della formazione degli elenchi
regionali delle famiglie in possesso legittimo ed attuale di titoli nobiliari.
Esse però si ricollegano ai corrispondenti onorari della Consulta,
istituiti col R. D. 11 dicembre 1887, n. 5138, con l’incarico di
fornire pareri e notizie alla Consulta ed al Commissario del Re. Con R.
D. 5 marzo 1891 le Commissioni Regionali furono dichiarate permanenti
e fu loro affidato inoltre l’incarico già disimpegnato dai
corrispondenti onorari per le materie delle rispettive regioni. Come per
i corrispondenti onorari, fu vietato alle Commissioni di avere relazioni
ufficiali col pubblico. Le Commissioni Regionali furono conservate nel
nuovo ordinamento della Consulta approvato col R. D. 2 luglio 1896.
L ‘art. 90 dell’ordinamento, integrato dal R. D. 9 ottobre
1930 n. 1405, stabilisce che le Commissioni Araldiche Regionali sono istituite
per dare avvisi e notizie sulla materia nobiliare riguardante le rispettive
regioni, a richiesta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della
Consulta Araldica o del Commissario del Re. Esse sono in numero di 14
in ciascuna delle seguenti regioni: Piemonte, Liguria, Lombardia, Venezia,
ex Ducato di Parma, ex Ducato di Modena, Toscana, Roma con Umbria e Marche,
Romagna, ex Regno di Napoli, Sicilia, Sardegna, Venezia Giulia e Tridentina.
La nuova dizione adoperata di dare avvisi e notizie corrisponde alla precedente,
poiché qui avviso è adoperato nel senso di parere illustrato.
La composizione delle Commissioni è stabilita dall’art. 91
dell’ordinamento modificato dal citato R. D. 9 ottobre 1930, e consta
di 8 membri di cui 2 di diritto e 6 elettivi. Sono membri di diritto il
Presidente, che è il Presidente della Corte d’Appello o del
Tribunale secondo che nelle rispettive regioni esista una Corte d’Appello
o un Tribunale, e il Vice Presidente, che è il Sopraintendente
o Direttore dell’archivio di Stato della Regione. Sono membri elettivi:
due scelti in rappresentanza degli istituti e archivi locali, quattro
scelti in rappresentanza delle famiglie iscritte nel Libro d’oro
della nobiltà italiana per il patriziato locale.
Il Presidente e i membri delle Commissioni Araldiche Regionali sono nominati
con decreto del Capo del Governo su proposta del Commissario del Re, il
quale come è stato detto (v. numero 102) vigila sugli uffici delle
Commissioni Regionali. I membri elettivi durano in carica quattro anni
seguendo i turni quadriennali della Consulta Araldica, e possono essere
confermati27
.
Il Segretario è nominato dalla rispettiva Commissione e assieme
col Sovraintendente o col Direttore dell’Archivio di Stato locale
conserva l’archivio della Commissione e ne risponde verso l’Ufficio
Araldico della Consulta (art. 92). Le Commissioni sono convocate dai rispettivi
Presidenti, o in caso di impedimento, dal Commissario che ne fa le veci
in ordine di anzianità di nomina, almeno una volta ogni bimestre,
con invito a firma del Segretario inviato almeno 8 giorni prima dell’adunanza
e corredato dall’ordine del giorno (art. 93). Quando la Commissione
lo deliberi o quando il Presidente lo creda opportuno, gli affari di maggiore
importanza possono essere affidati all’esame di uno o più
Commissari per farne speciale relazione (art. 94). Le deliberazioni sono
valide con l’intervento della metà dei componenti la Commissione;
in caso di parità di voti, il voto del Presidente prevale. I Commissari
che, senza giustificato motivo, manchino a tre sessioni consecutive sono
considerati dimissionari. Il Segretario ne darà pronta partecipazione
al Cancelliere della Consulta (art. 95).
Come si evince dalla composizione e dal funzionamento, le Commissioni
Araldiche Regionali sono state modellate sulla Consulta Araldica, ciò
che ha determinato critiche circa l’obbligo imposto al Presidente
per la convocazione bimestrale della Commissione anche quando ad essa
manchi lavoro da compiere, come può avvenire per quelle Commissioni
che hanno una assai limitata competenza territoriale. È stata inoltre
rilevata la scarsa utilità di esse, specie ora che è stata
ultimata la compilazione DEGLI elenchi regionali delle famiglie nobili
e che si è stabilita uniformità di legislazione per tutto
il Regno. Ciò non pertanto non può escludersi la loro utilità,
dato che possono sempre sorgere questioni che hanno bisogno di essere
illustrate con documenti contenuti negli archivi di Stato locali, illustrazioni
che possono esser meglio fatte da persone specializzate nella materia,
e che è opportuno mantenere in permanente esercizio, dato che il
diritto nobiliare ha finora trovato pochi cultori.
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27 - L’art. 5 del R. D. 9 ottobre 1930, per una sicura
svista stabilisce che anche i membri di diritto durano in carica 4 anni,
ciò che è un controsenso.
L’Ufficio Araldico
Parlando della Consulta Araldica (v. n. 97) è stato detto che il
Cancelliere di essa è anche Capo dell’Ufficio Araldico. Di
detto ufficio viene fatta menzione per la prima volta nel regolamento
8 gennaio 1888 per la Consulta, pur disimpegnando il Cancelliere le mansioni
attribuite a detto ufficio fin dalla istituzione della Consulta. Nel nuovo
ordinamento, come nel regolamento del 1896, sono stabiliti i compiti dell’Ufficio
Araldico il cui Capo è ad un tempo alle dipendenze del Capo del
Governo e coadiuva il Commissario del Re. Il personale di concetto e di
ordine addetto all’Ufficio Araldico è alle dirette dipendenze
del Capo di detto ufficio ed è nominato dalla Presidenza del Consiglio
dei Ministri (art. 88).
Le attribuzioni del Capo di Ufficio Araldico insieme con quelle di Cancelliere
della Consulta sono indicate per esemplificazione nell’art. 87 dell’ordinamento.
Esse sono:
a) riceve le istanze e le proposte di provvedimenti nobiliari e provvede
per la loro spedizione (v. n. 114, 116);
b) cura la riscossione dei diritti di cancelleria (v. n. 69);
c) amministra i fondi assegnati alla Consulta;
d) custodisce i libri, i registri araldici e l’archivio della Consulta
(v. n. 100, 105);
e) cura la redazione dei provvedimenti Sovrani e di quelli del Capo del
Governo e la loro trascrizione nell’apposito registro conservato
nell’Archivio di Stato di Roma, a termini dell’art. 8 dell’ordinamento
(v. n. 70);
f) rilascia, con l’autorizzazione del Commissario del Re, estratti
delle deliberazioni della Consulta o della Giunta, già approvate
(sanzionate) dal Capo del Governo, e certificati di quanto può
risultare dai registri e dai libri araldici (v. n. 105);
g) provvede alla iscrizione nell’Elenco Ufficiale Nobiliare (v.
n. 110), su domande degli interessati debitamente documentate, dei loro
nomi, sempre che tali iscrizioni riguardino discendenti di persone già
legalmente iscritte; provvede alla cancellazione dei nomi dei defunti.
Questa attribuzione non è semplicemente esecutiva, ma implica un
giudizio di merito sulla regolarità e sulla sufficienza della documentazione
presentata. Limitazione a questa facoltà di iscrizione è
che si tratti di discendenti di persone già legalmente iscritte.
Così nel caso di cui all’art. 57, per i titoli concessi o
riconosciuti per tutti i maschi di una agnazione quando sia provata la
discendenza dal primo titolare. Così sembra anche per gli ultrogeniti
di famiglia insignite di titoli primogeniali per far uso legale di titolo
di nobile, quando sia provata tale qualità di ultrogeniti, quantunque
non si tratti di discendenti, dato che il diritto al titolo nasce dallo
stesso art. 57 della legge;
h) assiste, come è stato detto (v. n. 100), alle adunanze della
Consulta e della Giunta, richiamando all’occorrenza le precedenti
deliberazioni in casi analoghi e redige i verbali;
i) autentica i decreti del Capo del Governo;
l) compila sotto la direzione del Commissario del Re il Bollettino ufficiale della Consulta Araldica e d’ordine del Capo del Governo ne cura
la pubblicazione.
Il Bollettino ufficiale predetto è una pubblicazione periodica
la quale deve contenere, giusta l’art. 89 dell’ordinamento,
il testo delle nuove norme giuridiche di legislazione nobiliare emanate
dal Re, le decisioni di massima deliberate dalla Consulta ed approvate
dal Capo del Governo e l’elenco di tutti i provvedimenti in materia
nobiliare emanati rispettivamente dal Re e dal Capo del Governo. Possono
pubblicarsi altresì nel Bollettino le sentenze più notevoli
in questioni relative al diritto nobiliare e monografie storico-giuridiche-araldiche.
Il Bollettino venne istituito coll’art. 75 del regolamento del 1870.
m) comunica al Commissario del Re i provvedimenti e le deliberazioni del
Governo.
L’Ufficio Araldico per l’art. 127 è tenuto entro 60
giorni dalla presentazione della domanda dell’interessato alla iscrizione
nei registri della Consulta dei titoli o attributi nobiliari riconosciuti
in seguito a sentenza passata in giudicato (vedi n. 123).
I libri araldici
I libri araldici che sono tenuti dall’Ufficio Araldica, sotto la
direzione del Commissario del Re sono, giusta l’art. 97 dell’ordinamento,
i seguenti:
a) il Libro d’oro della Nobiltà Italiana;
b) il Libro Araldica dei titolati stranieri;
c) il Libro Araldica degli stemmi di cittadinanza;
d) il Libro Araldico degli Enti morali; e) l’Elenco Ufficiale Nobiliare.
Nell’ordinamento della Consulta 11 dicembre 1887 non erano previsti
i libri predetti, ma erano tenuti appositi registri nei quali erano iscritti
coloro i cui diritti nobiliari fossero stati riconosciuti e potevano esservi
pure iscritte tutte le persone componenti ciascuna delle famiglie nobili
o titolate, tenendovi nota delle nascite, dei matrimoni o morti, se fossero
stati presentati i documenti giustificativi. I libri predetti, escluso
l ‘elenco ufficiale, furono istituiti col regolamento del 1896.
Essi servono ad uso della pubblica amministrazione e i privati possono
(v. n. 104) avere rilasciati dal Cancelliere certificati o estratti col
visto del Commissario del Re (art. 104).
Il libro d’oro
Il Libro d’oro è una compilazione inedita28
fatta dalla pubblica amministrazione nella quale si inscrivono le famiglie
italiane che ottennero la concessione, la rinnovazione, l’autorizzazione
o il riconoscimento di titoli e attributi nobiliari. Dalla inscrizione
deve risultare il paese di origine, la dimora abituale della famiglia,
i titoli e attributi nobiliari con le indicazioni di provenienza e di
trasmissibilità, i provvedimenti Regi o Governativi, la descrizione
dello stemma e la parte di genealogia che fu documentata. Per aggiungere
altri nomi alla pagina di una famiglia già inscritta nel Libro
d’oro e nell’Elenco ufficiale nobiliare è sufficiente,
per i discendenti in linea diretta di persona inscritta la produzione
dei relativi atti di nascita. Nel caso che la aggiunta di altri nomi alla
genealogia del Libro d’oro sia richiesta da collaterali degli inscritti,
detti collaterali devono produrre, oltre alla domanda ed alla documentazione
necessaria, il consenso scritto di colui o dei suoi aventi causa, se defunto,
che procurò per primo la regolare ricognizione e inscrizione della
famiglia. Il collegamento dei collaterali al capostipite deve però
essere avvenuto posteriormente alla nobilitazione della famiglia, poiché
se fosse anteriore il ramo collaterale non rientrerebbe nella linea diretta
dei successibili del primo concessionario. Il consenso di colui che è
inscritto o dei suoi aventi causa è necessario, dato che il collaterale
verrebbe ad avvalersi dei documenti esibiti dal primo Concessionario.
Nel caso che manchi detto consenso, il collaterale, ricollegantesi al
capostipite comune posteriore alla nobilitazione della famiglia, dovrà
esibire la documentazione per proprio conto e procurarsi il decreto di
riconoscimento del Capo del Governo a termini dell’art. 7. In questo
caso si fa luogo alla iscrizione di una nuova famiglia in un’altra
diversa pagina del Libro nonostante che la famiglia porti lo stesso cognome.
Le tabelle per la iscrizione nel Libro d’oro sono compilate dell’Ufficio
Araldico, firmate dal Cancelliere e approvate dal Commissario del Re (art.
98). Gli interessati hanno diritto di far apportare le rettifiche occorrenti
in caso di errori o di omissioni, presentando la necessaria documentazione.
Parimenti essi hanno diritto a chiedere le iscrizioni nel caso di riconoscimento
del diritto a titoli o attributi nobiliari in seguito a sentenza dell’autorità
giudiziaria passata in giudicato, a sensi dell’art. 126 (v. n. 123).
Allo scopo di completare e aggiornare la compilazione del Libro d’oro
col R. D. 7 settembre 1933, n. 1990 venne stabilito che i cittadini italiani
indicati nell’Elenco ufficiale nobiliare, approvato con detto Decreto,
non ancora iscritti nel Libro d’oro (quelli cioè non contrassegnati
da asterisco) dovranno chiedere la iscrizione dei propri titoli, predicati
e stemmi nel termine inderogabile di tre anni dal 13 febbraio 1934. Le
domande di iscrizione possono essere trasmesse da ogni capo famiglia29
con le modalità prescritte dagli art. 109 e 122 dell’ordinamento,
cioè mediante la esibizione dell’ordinaria documentazione
(v. n. 114, 115). E ciò per il fatto che le iscrizioni nell’Elenco
predetto di quelle famiglie non contrassegnate da asterisco furono fatte
non in base a Decreto Reale o Ministeriale, ma d’ufficio dalle Commissioni
Araldiche Regionali (v. n. 105) senza che, in generale, vi fosse stata
presentazione di domanda e di documenti dimostranti il proprio diritto.
Quindi se presso la Commissione Araldica Regionale non esiste prova sufficiente
della concessione del titolo, questa prova bisogna darla; così
pure se non fossero stati prodotti alla Commissione stessa gli atti di
stato civile, di nascita e matrimonio, a corredo dell’albero genealogico
da cui risultasse la posizione successoria dell’iscritto e l’attacco
col primo concessionario o con l’ultimo investito o riconosciuto
del titolo, bisognerà produrli. L’Ufficio Araldico si riserva
di domandare direttamente agli interessati i diplomi di concessione dei
titoli e dei predicati nobiliari.
Inoltre per il R. D. 22 settembre 1932 n. 1464 (v. n. 69) bisogna pagare
le tasse in ragione di 1/20 delle tasse di concessione o autorizzazione
del titolo, e in caso di più titoli di quello più elevato,
e quello dello stemma (v. n. 128).
I cittadini italiani che nel termine suddetto non avranno presentato tali
domande, e coloro le cui domande fossero state respinte non saranno più
compresi nei successivi elenchi nobiliari se non dopo che avranno ottenuto
la iscrizione nel Libro d’oro.
Inoltre coloro che sono già inscritti nel Libro d’oro dovranno
inviare alla Cancelleria della Consulta Araldica copia autentica degli
atti di nascita, di matrimonio, e morte dei membri delle rispettive famiglie,
nel termine di tre mesi dall’avvenimento e dovranno versare al cassiere
della Consulta la somma di L. 5 per ogni annotazione di nascita o matrimonio
o morte.
Per il disposto dell’art. 30 dell’ordinamento (v. n. 78) per
il quale sono considerati titoli italiani e ad essi equiparati quelli
concessi ai propri sudditi da Sovrani italiani o stranieri che regnarono
nelle varie parti d’Italia, prima della unificazione nazionale,
coloro che appartenevano alle province ex Austro-ungariche annesse all’Italia,
e sono divenuti cittadini italiani, sono da considerare, se insigniti
di titoli nobiliari dal cessato Governo, come italiani, e come tali da
inscriversi nel Libro d’Oro della nobiltà italiana.
In merito alla iscrizione nel Libro d’oro il Consiglio di Stato
con decisione 11 dicembre 192530
ha stabilito che il provvedimento di iscrizione non ha in sé valore
di una dichiarazione giuridica sulla esistenza e pertinenza del diritto
alle distinzioni nobiliari di cui viene domandata la iscrizione, ma è
bensì un atto amministrativo, che deve far seguito alle dichiarazioni
delle autorità competenti (autorità giudiziaria) ad affermare
il diritto stesso, e che è prescritto come condizione per poter
valere i titoli nobiliari e per potere esigere che essi vengano ufficialmente
attribuiti.
Contro i provvedimenti relativi alla iscrizione nel Libro d’Oro
è ammesso ricorso al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale
per motivi di legittimità. Tra iscrizione al Libro d’oro
può essere legittimamente negata anche quando esista una sentenza
che abbia riconosciuto il diritto alla distinzione per cui si domanda
la iscrizione e che sia passata in giudicato fra le parti contendenti,
qualora vi siano altre persone che possano contestare tale diritto e per
le quali la sentenza non costituisca cosa giudicata.
La iscrizione nel Libro d’oro non costituisce un adempimento puramente
meccanico in base a determinate documentazioni, ma una delicata funzione
che implica un apprezzamento da parte della Consulta Araldica circa l’esaurienza
della documentazione prodotta. Dal punto di vista storico è stato
già detto dei Libri d’oro nei vari ex Stati (v. n. 19, 20,
21, 40) specie di quelli più antichi di Venezia e di Genova, rimontanti
al 1506 e al 1528.
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28 - I cosidetti Libri d’Oro che sono in vendita
sono compilazioni di privati, che non hanno valore legale. Pregevole è
però per la copia e la esattezza delle notizie il Libro d’Oro
della Nobiltà Italiana, pubblicato periodicamente fin dal 1910
per cura del Collegio Araldico Romano.
29 - Rappresentante, o come dicesi colonnello della casa, capo della famiglia,
è colui al quale spettano i titoli di cui la famiglia è
investita.
30 - Giur. It., 1926, III, 50.
Il libro dei titolati stranieri
Nel Libro dei titolati stranieri sono segnate tanto le famiglie italiane
che sono nel legittimo possesso di titoli stranieri, debitamente riconosciuti
o confermati nel Regno, quanto le famiglie straniere che sono nel legittimo
e riconosciuto possesso di titoli italiani o stranieri (articolo 99).
Le iscrizioni in detto Libro sono effettuate con le stesse norme di quelle
nel Libro d’oro. In confronto al regolamento del 1896, il Libro
dei titolati stranieri importa l’innovazione di comprendere anche
le famiglie straniere, residenti nel Regno e in possesso di titoli stranieri.
In applicazione dell’art. 5 del R. D. 10 luglio 1930, n. 974, sono
da comprendere in detto Libro gli stranieri residenti nel Regno che hanno
avuto concessi titoli nobiliari dalla Santa Sede, e siano stati autorizzati
all’uso nel Regno e nelle Colonie.
Circa i titoli nobiliari e stemmi pontifici concessi a cittadini italiani
o a cittadini dello Stato della Città del Vaticano dopo il 1870,
e dei quali è stato autorizzato l’uso nel Regno e nelle Colonie,
lo stesso R. Decreto, mentre stabilisce che essi sono annotati nei registri
araldici e nell’Elenco Ufficiale della nobiltà italiana con
la specifica annotazione di concessione pontificia, nulla dice circa la
iscrizione delle relative famiglie nel Libro d’oro o nel Libro araldico
dei titoli stranieri.
In base però all’articolo 6 del Regolamento interno per l’autorizzazione
all’uso dei titoli nobiliari pontifici, deliberato dalla Consulta
il 2 febbraio 1925, la loro iscrizione viene effettuata nel Libro d’oro
della Nobiltà Italiana.
Il libro degli stemmi di cittadinanza
Il Libro araldico degli stemmi di cittadinanza serve alla inscrizione
di famiglie cittadine che sono nel legittimo e riconosciuto possesso di
stemmi (v. n. 56). Il libro contiene la descrizione dello stemma e dei
suoi ornamenti, le indicazioni della concessione o riconoscimento e delle
relative deliberazioni (art. 100). Nel regolamento del 1896 era chiamato
libro della cittadinanza.
Il libro degli enti morali
Nel libro araldico degli enti morali (v. n. 105) sono segnati gli stemmi,
le bandiere, i sigilli, i titoli e le altre distinzioni riguardanti province,
comuni, società e di altri enti morali, con le indicazioni dei
riconoscimenti e delle relative deliberazioni (art. 101).
L’elenco ufficiale nobiliare
Nell’Elenco Ufficiale nobiliare sono segnati i nomi e cognomi per
ordine alfabetico di tutte le persone che si trovano nel legittimo e riconosciuto
possesso di titoli e attributi nobiliari (art. 102). Per l’art.
4 del R. D. 7 settembre 1933, n. 1990, gli stranieri residenti o domiciliati
nel Regno, che hanno ottenuto l’autorizzazione di cui all’art.
32 dell’ordinamento, sono iscritti in appendice nell’Elenco
Ufficiale. Dei titoli pontifici concessi dopo il 1870 a cittadini italiani
o dello Stato della Città del Vaticano è stato già
detto (v. n. 107). La Consulta nel 1926 aveva adottato la massima che
nell’Elenco dovevano essere iscritti tutti i membri delle famiglie
nobili, anche se appartenenti al clero, salvo a mettere nel Decreto Reale
che approva l’Elenco un articolo in cui si dichiari che i religiosi
non possono usare i titoli nobiliari loro derivanti dalla appartenenza
a famiglie nobili. Questa massima non è stata però seguita
nell’approvazione dell’Elenco del 1933 (v. anche n. 84).
L’elenco è approvato con D. R. su proposta del Capo del Governo.
Per tenere l’elenco aggiornato, ogni anno dovrebbe pubblicarsi un
elenco suppletivo coi nomi e cognomi delle persone alle quali sia stato
durante l’anno riconosciuto, confermato, concesso o revocato un
titolo o altra distinzione nobiliare (art. 102). Sennonché l’Elenco
ufficiale supplementare previsto dal R. D. L. 20 marzo 1924, n. 442, non
fu mai pubblicato, e solo col R. D. 7 settembre 1933, n. 1990, pubblicato
il 12 febbraio 1934, fu approvato il nuovo Elenco Ufficiale, contenente
anche le nuove iscrizioni in seguito alla riforma del 1929. Allo scopo
di assicurare la conoscenza di coloro che hanno diritto a portare titoli
o altre distinzioni nobiliari e di reprimere quindi gli abusi da parte
di coloro che li usurpano o ne fanno illegittimo uso (v. n. 125) l’art.
5 del R. D. 7 settembre 1933 stabilisce i modi onde render notori l’Elenco
ufficiale e i suoi supplementi. Un esemplare stampato va trasmesso alle
Prefetture e alle Intendenze di Finanza per esservi depositato a disposizione
di chiunque voglia prenderne visione. I Prefetti danno notizia al pubblico
di tale deposito, mediante un manifesto da affiggersi nei modi consueti
e da inserirsi nel foglio periodico degli annunzi legali delle rispettive
province. Un esemplare a stampa dello stesso elenco e dei successivi supplementi
va rimesso ai Ministeri, al Primo Presidente della Corte di Cassazione,
al Presidente del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, alle Procure
Generali del Re, alle Procure del Re, alle Preture, alle Questure, agli
Archivi Notarili, all’Archivio di Stato di Roma, alle Commissioni
Araldiche Regionali, alle R. Ambasciate, ai R. Consolati e alle R. Agenzie
Consolari all’estero. In caso di errori od omissioni gli interessati
hanno diritto di chiedere le rettifiche presentando la necessaria documentazione.
L’elenco ufficiale è derivato dall’art. 15 del R. D.
15-6-1889 sulle inscrizioni d’ufficio nei registri della Consulta,
che prevedeva la riunione in Unico elenco generale di tutte le famiglie
che erano nell’attuale legittimo possesso di titoli nobiliari. L’elenco
fu approvato con R. D. 3-7-1921 e pubblicato nel 1922 dall’editore
Bocca di Torino.
L’elenco del 1922 ha in confronto di quello del 1933 il vantaggio
di contenere le condizioni di trasmissibilità del titolo, la data
di concessione o riconoscimento o rinnovazione, ciò che consente
di conoscere con facilità a quale epoca rimonti la nobiltà
della famiglia. L’elenco del 1933 presenta però il vantaggio
di essere corredato di un elenco alfabetico dei predicati, ciò
che permette di identificare il cognome della famiglia cui spetta la distinzione
nobiliare.
Ad ambedue gli elenchi non sono mancate le critiche per la loro incompletezza
e per gli errori tipografici, critiche ed errori in parte scusabili per
ragioni diverse. Basti solo accennare che l’elenco del 1933 è
redatto in ordine alfabetico per cognome e contiene la registrazione di
7750 famiglie e di 41.853 individui nominativamente annotati, con la rispettiva
enunciazione del nome del padre e dell’avo, dell’elenco regionale
nobiliare.
I documenti d’archivio
Le carte relative agli affari araldici sono conservate nell’archivio
della Consulta Araldica (art. 106). Dei documenti conservati in detto
archivio non si dà comunicazione o visione se non ai membri della
Consulta ed al Commissario del Re ed agli interessati che li produssero,
previo in quest’ultimo caso il parere del Commissario (articolo
105).
La Consulta ha adottato la massima che dei documenti conservati nel suo
archivio non si concedono copie autentiche che per gli atti originali,
o da considerarsi come tali.
Si possono col consenso del Commissario restituire agli interessati i
documenti esibiti (articolo 107):
a) quando il richiedente abbia rinunciato alla domanda prima dell’avviso
della Commissione Regionale (v. n. 116);
b) quando i documenti di cui si chiede la restituzione non riguardano
la deliberazione presa;
c) quando, in sostituzione degli originali, si presentino dall’interessato
copie da collazionarsi e autenticarsi previamente dal Cancelliere;
d) quando la decisione fu negativa, salvo che il Commissario creda opportuno
chiederne copia, da formarsi a spese dell’interessato e da collazionarsi
e autenticarsi come alla lettera c.
Gli alberi genealogici e gli stemmi e gli atti autentici di stato civile
non si restituiscono se non in copia da formarsi a spese dell’interessato
(art. 107).
I certificati di quanto può risultare dai registri e dai libri
araldici e gli estratti delle deliberazioni della Consulta o della Giunta,
già approvate dal Capo del Governo, sono rilasciati collazionati
e autenticati dal Cancelliere previa autorizzazione e col visto del Commissario
(art. 87 f e 104).
Tutte le disposizioni anzidette sono derivate dal regolamento del 1896.
Natura del diritto ai titoli
nobiliari – Varie teorie degli autori e della giurisprudenza
I titoli ed attributi nobiliari in coloro che ne sono legittimamente investiti
fanno sorgere dei diritti. E che siano diritti muniti della relativa tutela,
risulta dalle seguenti fonti: l’art. 79 dello Statuto, l’art.
81 cod. proc. civ., art. 3 R. D. L. 20 marzo 1924, n. 442, il R. D. 21
gennaio 1929, n. 61, approvante il nuovo ordinamento nobiliare.
L’art. 79 dello Statuto stabilisce che: «I titoli di nobiltà
sono mantenuti a coloro che ne hanno diritto. Il Re può conferirne
di nuovi» (v. n. 3).
L’art. 81 cod. proc. civ. dice: le controversie di stato, di tutela,
di diritti onorifici ed altre di valore indeterminabile si considerano
di valore eccedente le L. 1500 (ora elevato di L. 5000 per effetto della
legge 15-9-1922, n. 1287).
L ‘art. 3 del R. D. 20 marzo 1924, n. 442, modificato dal R. D.
L. 28-12-1924, n. 2337, stabilisce: «Coloro ai quali in seguito
alle contestazioni svolte in conformità delle norme dell’articolo
precedente con sentenza passata in giudicato sia riconosciuto il diritto
di portare titoli o attributi nobiliari sono obbligati a promuoverne l’iscrizione
nei registri della Consulta Araldica».
È superfluo riportare tutti gli articoli del nuovo ordinamento
in cui si parli di diritto ai titoli, ai quali si rimanda. Solo va rilevato
che non esattamente nell’art. 123 si parla di interessi di terzi,
anziché di diritti dei terzi, allorquando è detto: qualora
le domande (di provvedimenti) involgano palesemente interessi di terzi.
Nella dottrina si è discusso sulla natura del diritto ai titoli
e attributi nobiliari. Si ricorda che quanto sarà detto riguardo
ai titoli vale per lo stemma, l’arme e gli altri distintivi araldici.
Secondo una teoria, i titoli sono un elemento dello stato individuale,
perché sono una qualità della persona che serve a designarla
nella sua individualità, sono dei semplici accessori del nome,
e il diritto ai titoli è un diritto personale analogo al nome civile
rientrante nella categoria dei diritti su cose immateriali e incorporali.
Questa teoria è condivisa dal Fadda e Bensa, dal Venzi, dal Coviello31
.
Racioppi e Brunelli32
considerano i titoli come una proprietà sui generis, garantita
dalla protezione giuridica dello Stato in base all’art. 29 dello
Statuto per il quale tutte le proprietà sono inviolabili. Sennonché
questo concetto contrasta con il principio della incommerciabilità
e imprescrittibilità dei titoli (art. 14 e 15 dell’ordinamento)
e con quello della disponibilità nella maniera più assoluta
di cui all’art. 436 c. c., disponibilità che difetta negli
investiti dei titoli. Altra limitazione al diritto ai titoli è
stabilita dagli art. 41 e 42 dell’ordinamento (v. n. 83), nei quali
è prevista la perdita definitiva della nobiltà per gravissimi
delitti ope legis, e la perdita temporanea per reati minori su proposta
della Consulta Araldica, per cui la teoria della proprietà viene
ad essere battuta, ed il diritto del privato è fatto vivere soltanto
in funzione dei compiti che lo Stato assegna alla esistenza della nobiltà.
Secondo il Ferrara e lo Stolfi si tratta invece di un diritto di natura
personale, diritto ad uno stato onorifico e che si distingue dal diritto
al nome, poiché mentre il nome serve ad individuare una persona,
il titolo serve ad onorarla, il nome spetta a tutti i membri della famiglia,
mentre il titolo spetta solo al capo di essa, e si trasmette ordinariamente
secondo la linea primogeniale maschile.
Secondo il Mortara si tratterebbe di una categoria speciale di diritti
onorifici contemplati dall’art. 81 c. p. c., definizione più
strettamente aderente alle fonti ed alla giurisprudenza, che ha assimilato
i diritti nobiliari agli onorifici.
Il Sabini, con una teoria risultante dalla fusione delle precedenti, ha
ritenuto trattarsi di «un diritto immateriale sui generis»
che può ritenersi come un accessorio del cognome, in quanto serve
a meglio identificare una famiglia o un individuo. Esso non ha contenuto
patrimoniale stricto sensu, però in certo modo il titolare di esso
può subire un danno di vera e propria natura patrimoniale, sol
che alcuno se ne arroghi abusivamente la pertinenza, o ne impedisca il
godimento al legittimo proprietario. E se al diritto sul nome non si può
negare un interesse morale, questo deve riconoscersi in altissimo grado
ai diritti nobiliari in quanto traggono origine da una concessione Sovrana
altamente onorifica, e perciò rientrano nella speciale categoria
dei diritti onorifici previsti dall’art. 81 c. p. c.
Il Gorino ritiene che converrebbe fare una ulteriore specificazione. Si
dovrebbe distinguere fra i titoli nobiliari in senso stretto (Principe,
Duca, Marchese, ecc.) e le distinzioni o attributi nobiliari. Per i primi
si tratta certamente, di diritti onorifici, mentre per gli altri, fra
cui il predicato feudale o no, e lo stemma, trattasi verosimilmente di
un diritto perfettamente analogo a quello che si ha sul proprio cognome.
Il titolo, difatti, in senso stretto è comune a tutti gli altri
nobili decorati del medesimo grado, proprio come agli insigniti di pari
grado del medesimo ordine equestre; per contro il predicato feudale e
tanto più lo stemma formano una cosa unica col cognome ed hanno
natura personalissima. Così in una medesima agnazione sarà
il predicato a distinguere i vari rami e la stessa funzione eserciterà
la brisura nello stemma (v. numero 57).
La distinzione del Gorino, derivata da un ulteriore sviluppo della teoria
del Ferrara, sembra meritevole di accoglimento.
1) FERRARA, Trattato di diritto civile italiano, Roma
1921, pag. 584, 585.
2) STOLFI, Diritto Civile, vol. I, p. 11, pag. 115, Torino.
1) MORTASA, I Titoli di nobiltà e la competenza giudiziaria, in
«Temi Veneta», 1882, 473.
1) SABINI, Saggi cit., pag. 103-104, riportato in L’ordinamento
cit., pag. 18.
1) GORINO, op. cit., pag. 6 e seg.
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31 -FADDA e BENSA, Note alle Pandette di Winscheid, Torino
1926, vol. IV, pag. 172; VENZI, Foro It., 1902, I, 73 e in PACIFICI MAZZONI,
Istituzioni di diritto civile, Firenze 1904, volume ZII, pag. 16 e 19;
COVIELLO N., Manuale di diritto civile, Milano 1910, pag. 161.
32 - RACIOPPI e BRUNELLI, Commento cit., 111, pag. 704.
Attività da svolgersi
per ottenere provvedimenti nobiliari
Occorre qui richiamare la distinzione fra provvedimenti di grazia emanati
dal Sovrano nell’esercizio della sua prerogativa concessione, rinnovazione,
riconoscimento, autorizzazione, assenso) e che possono essere di motu proprio o su proposta del Capo del Governo, e provvedimenti di giustizia
(v. n. 46 e 54).
Per i provvedimenti di motu proprio che avvengono sulla iniziativa del
Sovrano, nessuna azione può essere svolta dai privati al fine di
ottenerli. Poiché come è stato detto (v. n. 46) i provvedimenti
di motu proprio importano una riduzione delle tasse di concessione, talvolta
il Sovrano per le speciali benemerenze dell’investito ed al fine
di ridurre le tasse, effettua concessioni con la forma del motu proprio,
quantunque esse siano state provocate da domande degli interessati. Può
invece darsi il caso che terze persone si ritengano lese dai provvedimenti
adottati in favore di altra persona col Sovrano motu proprio o in via
di grazia su proposta del Capo del Governo, ed allora esse hanno diritto
a far ricorso all’autorità giudiziaria.
Per ottenere provvedimenti di grazia o di giustizia occorre che gli interessati
facciano domanda.
In conclusione la R. Prerogativa, eccetto il caso di provvedimenti di
Sovrano motu proprio, per potersi esplicare, occorre sia provocata dalla
azione degli interessati.
La domanda
Questa azione si inizia mediante domanda, che, deve essere scritta in
carta da bollo ed indirizzata al Capo del Governo presso l’Ufficio
Araldico, per i provvedimenti nobiliari o araldici di giustizia, e se
trattisi di provvedimenti di grazia deve essere indirizzata a S. M. il
Re, presentando anche altra copia al Capo del Governo.
La domanda deve contenere alcuni dati indispensabili stabiliti ed essere
corredata da appositi documenti. Così deve contenere l’indicazione
del cognome e nome, della paternità, del luogo di nascita e domicilio,
della cittadinanza e della condizione sociale ed economica del richiedente,
la enunciazione, in fatto e in diritto della richiesta, la dichiarazione
del petente di esser pronto a soddisfare le tasse e i diritti stabiliti,
l’elenco in duplice copia su carta semplice dei documenti esibiti,
la sottoscrizione autografa del petente (articolo 109). Alla domanda deve
essere anche allegata la bolletta del deposito prescritto, che può
spedirsi anche a mezzo di vaglia postale, variabile secondo la natura
dei provvedimenti richiesti (L. 100 pei privati, L. 10 per gli enti),
e indicato dal R. D. 6-11-1930, n. 1494 (art. 110).
Detto deposito non viene restituito in caso di ritiro o di esito negativo
della domanda presentata.
La documentazione serve a comprovare il fondamento, oltre che di fatto
anche giuridico, della richiesta, in modo che gli organi chiamati a dar
parere o decidere si trovino in possesso di tutti gli elementi per una
giusta valutazione della questione. Pertanto alla domanda debbono essere
unite: la documentazione della esistenza di titoli, predicati o stemmi
pei quali si chiede il provvedimento, la dimostrazione documentale dell’attacco
genealogico fra il richiedente e il concessionario o l’ultimo investito
o riconosciuto, la dimostrazione per linea e grado del diritto di succedere
nel titolo, nonché il diploma di concessione o di conferma e lo
stemma a colori con la descrizione in termini araldici (art. 111). Dei
modi di effettuare la documentazione sarà detto appresso (v. n.
115).
Gli atti possono essere spediti, oppure consegnati personalmente al Capo
dell’Ufficio Araldico (art. 87 a), il quale è tenuto ad effettuare
l’esame se essi sono regolari dal punto formale (art. 130), compreso
l’accertamento del pagamento avvenuto della tassa di deposito.
Prove documentarie da porre a
corredo della domanda. (In nota: Ordini Cavallereschi italiani estinti
che richiedevano la prova della nobiltà: di S. Stefano di Toscana,
di S. Gennaro di Napoli. L’Ordine Sacro Angelico Imperiale Costantiniano
di S. Giorgio di Napoli e di Parma)
Circa le prove da porre a corredo della documentazione di istanze, opposizioni,
ricorsi, negli articoli da 113 a 122 dell’ordinamento sono contenute
apposite disposizioni, le quali sono derivate dal regolamento del 1896,
con qualche modificazione. Le prove dirette sono quelle che si fanno per
mezzo di diplomi, di lettere di nobilitazione, ottenuti da Sovrani o da
Principi.
Qualora manchi il diploma originario di concessione, la prova dell’esistenza
dei titoli e predicati può essere supplita con la produzione del
più recente atto autentico di investitura, di intestazione, di
conferma o di riconoscimento (art. 113). Questa disposizione deriva in
parte dall’art. 51 del regolamento del 1896, il quale poneva come
condizione che la originaria concessione non fosse prescritta o perduta
a norma delle legislazioni preesistenti, e che aveva indotto in taluni
la condizione erronea che sotto l’impero del cod. civ. italiano
i titoli fossero prescrittibili.
Le prove genealogiche si devono dare con la produzione di copie autentiche
degli atti legali di nascita, di matrimonio e morte, grado per grado,
di tutti gli individui compresi nella dimostrazione genealogica (art.
114). È questa la ricerca più difficile per il rintraccio
e la lettura degli atti antichi.
Le prove degli stemmi si fanno o mediante l’atto di concessione
o mediante la dimostrazione di un possesso legale legittimo (art. 115).
Per quanto riguarda la prova del possesso bisogna distinguere lo stemma
di nobiltà da quello di cittadinanza. Per lo stemma di nobiltà,
per le famiglie la cui nobiltà è stata riconosciuta, è
sufficiente la prova di un possesso pubblico e pacifico dello stemma per
30 anni (art. 116). Non si può però ottenere il riconoscimento
di stemmi nobiliari se in pari tempo non si prova la nobiltà della
famiglia. Per il riconoscimento degli stemmi di cittadinanza è
necessaria a tenore dell’art. 38 dell’ordinamento (v. n. 57)
la dimostrazione di un possesso pubblico e pacifico non inferiore a 150
anni. Di detto possesso, tanto per lo stemma nobiliare che per quello
di cittadinanza, bisogna dimostrare sempre il filo genealogico.
La semplice prova del possesso, per quanto continuato nel tempo, non giustifica
l’uso di corone; di manti, di ornamentazioni araldiche, di capi,
di figure di cimi eri e di altri segni particolari (articolo 117). In
mancanza di prove dirette sono ammesse quelle per equipollenti (art. 118).
L’art. 59 del regolamento del 1896 chiariva che le prove equipollenti
devono essere legali e non procedenti dalla volontà ed influenza
degli interessati. Il fatto che detto articolo non sia stato riprodotto
dimostra che il legislatore ha voluto lasciare maggiore larghezza nella
valutazione delle prove per equipollenti. Così possono essere mezzi
di prova per equipollenti le lettere di abilitazione, ove qualche rampollo
della fantiglia abbia derogato, i documenti comprovanti la ammissione
ai corpi nobili, l’aggregazione al patriziato di una città,
le cariche e dignità illustri sostenute da membri della famiglia,
i registri pubblici delle città in cui sono notate le dignità
municipali conferite alla nobiltà, le tombe, i sigilli in cui stanno
impressi gli stemmi gentilizi, i libri antichi, i monumenti antichi, le
carte di fondazioni, dotazioni, donazioni fatte alle chiese, ai monasteri,
le sottoscrizioni dei testimoni, perché in antico solo i signori
molto qualificati e grandi ufficiali segnavano gli atti dei Principi e
vi apponevano il loro sigillo.
Mezzo di prova sussidiario è l’atto notorio, cioè
l’attestazione giurata di quattro testimoni avanti il Pretore o
il Notaio, il Console. Esso ai fini della documentazione è accettato
con alcune limitazioni, e cioè nel solo caso che sia impossibile,
per eventi di forza maggiore, la dimostrazione diretta ad accertare fatti,
e che i fatti stessi non eccedano la memoria dell’uomo. Sono anche
ammessi gli attestati rilasciati dalle Commissioni Araldiche Regionali
riguardanti le famiglie titolate della regione (art. 119). Al riguardo
la Consulta aveva adottato la massima 4, per la quale tali atti di notorietà
potevano emanarsi dalle Commissioni Araldiche Regionali.
Sono ammesse come prove, senza bisogno di ulteriore documentazione, la
nobiltà, gli stemmi e le genealogie già approvate dai Tribunali,
Uffici o Commissioni araldiche degli antichi Stati Italiani (v. n. 96)
o dai Grandi Magisteri del S. O. di Malta (v. n. 45, nota) o di altri
antichi Ordini militari Cavallereschi italiani, che esigevano prove di
nobiltà33
. E ciò per il fatto che trattasi di accertamenti già fatti
da organi statali o da antichi ordini cavallereschi, o da quello di Malta,
che hanno tradizioni di rigidità nel giudizio delle prove di nobiltà
dei suoi membri. Occorre soltanto la esibizione delle relative sentenze
dei predetti organi statali o dei processi di giustizia degli ordini cavallereschi.
Non hanno però valore probatorio le prove risultanti da processi
per grazia, nonché quelle riferentisi alle enunciazioni di titoli
specifici e feudali contenute sia nei processi degli ordini predetti,
sia nelle sentenze degli organi statali sunnominati (art. 120). La Consulta
Araldica ha stabilito la massima, circa le genealogie predette, che esse
fanno prova non quanto ai titoli nobiliari in esse enunciati, ma per la
filiazione, e nei soli casi di prove ammesse per giustizia e non per quelle
di grazia o di cuore e devozione.
I diplomi e documenti che si producono devono essere in originale (art.
121), e ciò può avvenire per i diplomi e privilegi antichi
allorquando essi venivano consegnati in originale all’investito
e non per le concessioni moderne nelle quali vengono al titolare consegnate
le R. Lettere Patenti (n. 70). Per il valore di autenticità che
hanno gli atti conservati nei pubblici uffici, è ammessa la produzione
di copie autentiche degli atti esistenti nei R. Archivi di Stato, o negli
archivi delle Curie Vescovili o di altri enti di diritto pubblico, o in
quelli del S. O. M. di Malta e di altri antichi Ordini militari cavallereschi,
o nei protocolli notarili anteriori al 1860, essendo fino a quell’epoca
consentita la conservazione di documenti importanti, col farli inserire
nei protocolli dei notai aventi funzioni di certificatori.
È riservato però sempre alla Consulta il diritto di chiedere
prove integrative di autenticità del documento esibito.
Dei documenti e diplomi originali in possesso di privati non è
ammessa la esibizione di copie notarili, le quali se possono attestare
la conformità letterale del documento prodotto al notaio, non garantiscono
la autenticità del documento stesso, la quale va accertata con
la scienza diplomatica (art. 121.). Con la massima 21 febbraio 1909 la
Consulta approvò che fosse propagato l’uso delle copie di
documenti e monumenti eseguiti in fotografia ed eliografia.
I documenti in lingua straniera devono essere prodotti insieme con la
traduzione italiana, dichiarata autentica dal competente Ufficio Traduzioni
esistente presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Dei documenti antichi
in lingua latina o italiana può essere dalla Consulta, perché
scritti con abbreviazioni e caratteri non più in uso e di facile
lettura, richiesta la trascrizione paleografica, autenticata dal R. Archivio
di Stato della regione da cui proviene il documento (articolo 122). Tutti
i documenti che si esibiscono devono essere in forma legale e quelli che
sono trasmessi dall’estero devono essere vidimati dalle autorità
consolari italiane.
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33 - Degli ordini cavallereschi estinti degli ex Stati
italiani preunitari richiedevano la prova della nobiltà nei Cavalieri
di giustizia quelli di S. Stefano di Toscana (8/4) fondato da Cosimo dei
Medici e ricostituito da Ferdinando III nel 1817; di S. Gennaro di Napoli
(4/4) fondato da Carlo III nel 1738. - Anche l’ordine della Religiosa
Milizia dei SS. Maurizio e Lazzaro in Piemonte richiedeva pei Cavalieri
di giustizia le prove di nobiltà (per 4 gradi, cioè 8/4,
v. n. 18 e 45). L’ordine Sacro Angelico Imperiale Costantiniano
di S. Giorgio di Napoli, già di collazione Borbonica, è
attualmente indipendente ed è posto sotto la protezione della S.
Sede che vi delega un Cardinale protettore. Esso richiedeva durante la
Monarchia Borbonica pei Cavalieri di giustizia 4/4 di nobiltà.
Lo stesso ordine, ramo di Parma, secondo la massima 36 adottata dalla
Consulta Araldica è ritenuto equestre c non nobiliare. Secondo
la massima 75 della Consulta stessa possono pretendere la iscrizione nell’elenco
nobiliare col titolo di Nobile i componenti delle famiglie ascritte per
giustizia all’ordine Costantiniano di Napoli (vedi CUOMO, Ordini
cavallereschi cit., pag. 73, 908, 909, 913). Circa l’ordine di S.
Giuseppe di Toscana (vedi n. 18) la Consulta Araldica ha formulato la
massima 50, per la quale i decorati non sudditi Toscani e quelli sudditi
Toscani che non si fecero ascrivere ad una delle nobiltà civiche
del Granducato non possono ora pretendere il riconoscimento della nobiltà.
Istruttoria della domanda
Ricevuta la istanza e riconosciutala formalmente regolare (v. n. 114)
il Capo dell’Ufficio Araldico, quale Cancelliere della Consulta,
la trasmette nel termine massimo di 15 giorni alla competente Commissione
Araldica Regionale, la quale deve restituirla col suo avviso all’Ufficio
Araldico, di regola, entro due mesi dal ricevimento. Pervenuta la pratica,
egli la comunica al Commissario del Re (art. 130). Questi la esamina,
e a mezzo del Cancelliere, qualora ritenga insufficiente la documentazione,
può far chiedere all’istante chiarimenti, e anche una più
ampia e precisa documentazione, stabilendo all’uopo un termine non
maggiore di tre mesi (R. D. 9 ottobre 1930, n. 1405, art. 4). Inoltre
lo stesso Commissario può, ove lo creda opportuno, chiedere, pel
tramite del Cancelliere, al Prefetto del luogo di domicilio dell’istante
informazioni in via riservata sulla condotta morale e sulle condizioni
economiche dell’istante e dei suoi prossimi congiunti (art. 112).
Quando la domanda involge palesemente diritti di terzi, a richiesta del
Commissario del Re, l’Ufficio Araldico invita il richiedente a farne
pubblicare a sue spese, per due volte e con l’intervallo di un mese
fra la prima e seconda pubblicazione, un sunto nella Gazzetta ufficiale
del Regno e nei fogli degli annunzi legali delle province di origine e
di residenza dell’istante. Il richiedente dovrà poi giustificare
all’Ufficio Araldico di avere adempiuto questa formalità.
Lo stesso Ufficio Araldico provvede inoltre, in quanto sia possibile,
a far comunicare a mezzo del Prefetto della provincia un esemplare della
seguita pubblicazione ai terzi interessati (articolo 123).
Opposizione di terzi in sede
amministrativa
Coloro che credono di aver ragione di opporsi alla domanda dell’istante
devono, nel termine di due mesi dall’ultima pubblicazione o dalla
comunicazione ad essi fatta, esporre i motivi della loro opposizione con
contro istanza (detto ricorso, o opposizione in via preventiva e in sede
amministrativa), indirizzata al Capo del Governo. Ugualmente può
fare opposizione chiunque abbia notizia della presentazione della domanda
che ritenga lesiva dei suoi diritti già acquistati (articolo 124).
Sennonché per costui, nel caso che non siano state effettuate le
pubblicazioni, non sembra possa pretendersi l’applicazione del termine
di due mesi per la opposizione. Inoltre l’opposizione preventiva
da parte sua può farsi nella fase ancora di istruttoria e prima
che siano stati emanati i provvedimenti Reali o Governativi.
In tal modo viene assicurata la tutela dei diritti dei terzi, i quali
potrebbero essere pregiudicati dalla domanda dell’istante, la quale
richieda ad es. concessione, rinnovazione, riconoscimento di titoli, predicati
o stemmi di loro pertinenza, o intenda avvalersi di atti o documenti e
genealogie appartenenti ad altre famiglie.
Le opposizioni dei terzi in sede amministrativa sono prese in esame dalla
Consulta e su di esse esprime il suo parere (art. 124).
Se la opposizione dei terzi viene proposta dopo che la Giunta o la Consulta
abbiano deliberato, ma prima che sia stato emanato il provvedimento, sia
esso di grazia o di giustizia, la Consulta, ove ritenga la opposizione
manifestamente infondata, dichiara di non far luogo a riesame. Nel caso
che ritenga l’opposizione fondata riesamina la pratica per emettere
una nuova deliberazione (art. 128).
Qualora l’opposizione riguardi lo stato delle persone, o venga impugnato
di falso qualche documento, la Giunta o la Consulta, a mezzo dell’Ufficio
Araldico, invita gli interessati a far decidere la questione in via giudiziaria,
prefiggendo agli opponenti un termine per adire i tribunali. Trascorso
inutilmente questo termine, la parte interessata ha la facoltà
di ripresentare la domanda alla Consulta, la quale in tal caso delibera
definitivamente (art. 129).
Gi articoli 124, 128 e 129 del vigente ordinamento trovano riscontro rispettivamente
negli articoli 96 del regolamento del 1896 e 8 e 9 del R. D. 2 luglio
1896, n. 313 sul nuovo ordinamento della Consulta, per la quale era detto
che essa, trascorso inutilmente il termine fissato alle parti per adire
i tribunali, avrebbe deliberato sempre salvando i diritti dei terzi interessati.
Il fatto che nel nuovo ordinamento non è ripetuta questa formula
finale non implica che nelle deliberazioni adottate non siano sempre salvaguardati
i diritti dei terzi interessati, poiché i terzi stessi continuano
ad aver la tutela dei loro diritti ricorrendo all’autorità
giudiziaria ordinaria (v. numero 120).
Esame della domanda da parte
della Giunta o della Consulta Araldica
Esaurita la istruttoria della pratica, o trascorso inutilmente il termine
prefisso all’istante per i chiarimenti o la più ampia documentazione,
o il termine per le opposizioni in caso di pubblicazione della domanda,la
pratica viene rimessa dal Commissario, col proprio parere, all’Ufficio
Araldico per inoltro alla Giunta o alla Consulta (R. Decreto 1930). È
stato già detto (v. n. 99) dei casi in cui occorra la deliberazione
o della Consulta o della Giunta.
Qualora l’istante insista affinché si provveda in base agli
atti esibiti ed alle notizie date, senza corrispondere alla richiesta
fatta dal Commissario, la pratica è sottoposta alla deliberazione
della Giunta col parere del Commissario (art. 130).
Nel caso che il parere del Commissario concordi con l’avviso della
Commissione Regionale per l’accoglimento della domanda e non vi
sia opposizione di terzi, la relazione del Commissario alla Giunta o alla
Consulta può limitarsi ad una breve dichiarazione; ed alla indicazione
del provvedimento da adattarsi. Ove il Commissario proponga il rigetto
della domanda, o vi sia difformità tra il parere del Commissario
e l’avviso della Commissione Regionale, o vi sia opposizione di
terzi, la relazione del Commissario dovrà essere motivata (art.
130).
Comunicazione delle deliberazioni
della Giunta e della Consulta Araldica al Capo del Governo - Provvedimenti
conseguenziali
Intervenuta la deliberazione della Giunta o della Consulta, il Capo del
Governo attraverso l’estratto dei verbali, che deve essere sottoposto
alla sua approvazione, viene a conoscenza delle decisioni prese, anche
nel caso che egli non sia intervenuto alle sedute della Consulta (art.
86 e R. D. 1930). Se il parere è di rigetto della istanza, il Capo
del Governo ne fa dare comunicazione in suo nome allo istante. Qualora
il parere sia favorevole all’accoglimento della istanza, il Commissario
del Re presenta al Capo del Governo una relazione sul provvedimento da
emettersi (art. 131). Approvata la deliberazione della Giunta o della
Consulta da parte del Capo del Governo e la relazione del Commissario,
il Cancelliere a mezzo dell’Ufficio Araldico cura la spedizione
del provvedimento (art. 87 lett. e) e dà pronto avviso agli interessati
del tenore del provvedimento emesso, invitandoli a pagare le occorrenti
tasse (art. 132) (v. n. 69).
1) Consiglio di Stato 11 agosto 1927 – Foro It.
1927, III, 129.
Impugnativa contro il rigetto
della domanda - Ricorso in via giudiziaria
I privati in conseguenza dell’esercizio della R. Prerogativa possono
ritenere di essere stati lesi nei loro diritti. Ed in base ai principi
generali sulla tutela dei diritti, stabilita dalla legge abolitiva del
Contenzioso amministrativo 20 marzo 1865, n. 2248, alleg. E, il nuovo
ordinamento nobiliare contiene disposizioni al riguardo.
Si possono avere vari casi:
L’interessato ritiene che ingiustamente non sia stata accolta una
sua richiesta di provvedimenti di giustizia. Se si tratta di diritti a
titoli o distinzioni nobiliari o stemmi già costituiti legittimamente
in favore di colui che ha invocato il provvedimento, egli ha diritto di
impugnare il provvedimento del Capo del Governo soltanto avanti l’autorità
giudiziaria, unica competente a reintegrare i diritti lesi.
Se si tratta invece di diritti non costituiti nel richiedente, di diritti
non perfetti, ma di semplici
aspettative, in questo caso il provvedimento del Capo del Governo non
è suscettibile di impugnativa giudiziaria. Nessuna azione giudiziaria
o amministrativa poi può esperirsi allorché il Sovrano non
ritenga di adottare provvedimenti di grazia richiesti, essendo la manifestazione
della R. Prerogativa in provvedimenti singolari, come ebbe a dichiarare
il Consiglio di Stato, attribuzione avente carattere di potere politico
che si ispira ad alte e complesse considerazioni di indole sociale34
. In questi ultimi due casi l’interessato può soltanto ripresentare
una nuova domanda con maggiore documentazione e nuovi argomenti giuridici,
ma l’accoglimento di essa non è obbligatorio.
Ma può darsi anche il caso di un individuo che si ritenga leso
nel suo diritto, già costituitosi legittimamente, da un provvedimento
di grazia o di giustizia adottato nei riguardi di un terzo. In questo
caso egli può impugnare il provvedimento adottato avanti l’autorità
giudiziaria. Stabilisce infatti l’art. 125 che la parte che si crede
lesa dal provvedimento adottato sia esso di grazia o di giustizia, ha
diritto di impugnarlo innanzi ai Tribunali ordinari. É da tener
presente che il compito dell’autorità giudiziaria deve limitarsi
a decidere sull’esistenza e sulla appartenenza dei diritti nobiliari.
La posizione di detto articolo, collocato dopo le opposizioni dei terzi,
potrebbe indurre a ritenere che l’esperimento dell’azione
giudiziaria sia subordinato allo svolgimento preventivo dell’azione
amministrativa, come poteva dedursi dall’art. 9 capov. del R. D.
2 luglio 1896, n. 313, ma ciò non è, poichè il principio
del ricorso ali ‘autorità giudiziaria nasce dall’art.
2 della legge del 1865 contenzioso amministrativo, riaffermato successivamente
nell’art. 2 del R. D. 20 marzo 1924.
Già il Venzi in occasione di altra sentenza del 1902 in materia
nobiliare aveva ritenuto che la procedura amministrativa stabilita dal
suindicato R. Decreto 2 luglio 1896 non poteva costituire che un esperimento,
un tentativo di ottenere, per via più facile e spedita, il riconoscimento
del proprio diritto, ma non poteva mai importare rinuncia al diritto di
poter far valere le proprie pretese nel modo consentito dalla legge. La
competenza dell’autorità giudiziaria era riconosciuta dalla
stessa Consulta Araldica, dato che nella relazione Pagano Guarneschelli
alla Consulta stessa era detto che l’opera di essa era semplicemente
consultiva, salvo la decisione di chi ha in modo esclusivo giurisdizione
per riconoscere il giusto valore dei diritti privati.
La competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria è
stata sempre sostenuta dal Sabini e dallo
Stolfi.
È da escludere poi per i provvedimenti Sovrani o del Capo del Governo,
che importino lesione di diritti nobiliari, il ricorso al Consiglio di
Stato in sede giurisdizionale, dato che questo organo può essere,
in base all’art. 26 T. U. 26-6-1924, numero 1054, chiamato a giudicare
quando i ricorsi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria,
come è invece nel caso attuale.
Il ricorso al Consiglio di Stato può aver luogo nel caso che l
‘Ufficio Araldico non si uniformi alle decisioni dell’autorità
giudizi aria in seguito all’effettuato riconoscimento di diritti
nobiliari (v. n. 123), o per motivi di legittimità nel caso di
diniego di inscrizione al Libro d’oro (n. 106).
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34 - È inammissibile l’azione promossa da
un cittadino per dimostrare il suo diritto ad un titolo nobiliare, se
già prima con decreto ministeriale era stata disattesa l’istanza
da lui proposta per ottenere le lettere patenti di Regio assenso. Corte
di Appello Palermo, 2 luglio 1931, Federico c. Perez, Foro Siciliano,
1932, 42.
Limiti fra l’esercizio
della R. Prerogativa e l’autorità giudiziaria
Circa i limiti tra l’esercizio della Regia Prerogativa e l’autorità
giudiziaria, merita di essere ricordata la sentenza 28 febbraio 1921 della
Cassazione a Sezioni Unite: «Quanto alla R. Prerogativa è
ormai accettato che essa è limitata alla funzione attributiva nella
forma sia di concessione di titoli nuovi, o di rinnovazione dei titoli
già estinti o di riconoscimento (improprio) di titoli con possesso
difettoso o insufficiente e alla funzione autorizzatrice pei passaggi
di titolo da una famiglia all’altra e per l’uso di titoli
conceduti a cittadini di Potenze estere. La Prerogativa Sovrana lascia
dunque intatta all’autorità giudiziaria la funzione dichiarativa
del diritto ai titoli sia quanto alla loro esistenza, garantita dall’art.
79 dello statuto, sia quanto alla loro trasmissione, garantita dalle forme
rigorose del diritto successorio, nel quale è inammissibile l’esercizio
di qualsiasi potere discrezionale sia pure del Principe. E quanto all’attività,
che pure in questa materia è riservata all’autorità
amministrativa pel riconoscimento ai sensi dell’art. 26 del Regolamento
corrispondente all’art. 11, lett. a dell’attuale ordinamento
e per le inscrizioni nei registri araldici, essa si esplica in provvedimenti,
che al pari di ogni altro atto amministrativo, sono salvi i noti limiti
soggetti al sindacato giudiziario».
I limiti di cui si tratta sono stabiliti dall’art. 4 della citata
legge del 1865, per i quali i Tribunali si devono limitare a conoscere
degli effetti dell’atto dell’autorità amministrativa
in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo
non può essere revocato o modificato se non sovraricorso alle competenti
autorità amministrative, le quali si devono conformare al giudicato
dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso.
E stato deciso che rientrano altresì nella competenza dell’autorità
giudiziaria le controversie relative alla autenticità ed al valore
giuridico di atti e concessioni Sovrane in materia di titoli e qualità
nobiliari, la dichiarazione di legittimità dell’acquisto
di un titolo, la dichiarazione di non spettare il titolo a nessuna delle
parti litiganti. La omessa iscrizione nei registri della Consulta Araldica
non impedisce di dimostrare in giudizio o rivendicare il titolo nobiliare.
L’autorità giudiziaria è però incompetente
a conoscere degli effetti di una concessione o riconoscimento di nobiltà
a favore di uno straniero per atto di Sovranità straniera, ad annullare
il Decreto del Capo del Governo o Ministeriale con cui sia stata riconosciuta
‘appartenenza di un titolo nobiliare, l’inibire l’uso
di un titolo a colui che risulta indebitamente iscritto nel Libro d’oro
fino a quando la Consulta Araldica non si sarà uniformata al giudicato.
L’autorità giudiziaria da adire in base all’articolo
81 del cod. proc. civ. è il Tribunale, e ad esso dovrà richiedersi,
in base a documenti il riconoscimento della esistenza e della appartenenza
nel petente del diritto nobiliare o araldico affermato, con ogni esclusione
di richiesta di revoca o di annullamento dell’eventuale denegato
provvedimento di giustizia, Sovrano o del Capo del Governo, e di grazia
o giustizia se intervenuto in favore di terzi35
.
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35 - La dichiarazione di appartenenza del titolo o della
distinzione nobiliare è di competenza dell’Autorità
Giudiziaria, la quale però non ha facoltà di ordinare inscrizioni
e cancellazioni nei Registri nobiliari, spettando tale facoltà
soltanto alla Consulta Araldica. Il provvedimento di inscrizione nel Libro
d’oro o il rifiuto di provvedervi da parte della Consulta Araldica
non ha in sé valore di dichiarazione giuridica sull’esistenza
o pertinenza del diritto alle distinzioni nobiliari, ma è soltanto
un atto amministrativo prescritto per poter far valere i titoli nobiliari
e per esigere che essi siano ufficialmente attribuiti. C. App. Palermo,
18 ottobre 1930, Bonanno-Bonanno, Riv. Dir. Privato, 1931, II, 104, con
nota del Prof A. VISCONTI. L’Autorità Giudiziaria è
incompetente ad annullare il decreto ministeriale con cui sia stata riconosciuta
l’appartenenza di un titolo nobiliare, Trib. Catania, 26-1-1930,
Paternò c. Impellizzeri, Giur. It., 1930, 361. Riconosciuto con
D. M. il diritto ad un titolo nobiliare, tale diritto permane sino a quando
non sia dimostrato che siffatto riconoscimento fu illegale e il Decreto
stesso sia dichiarato nullo. Cass. 17-7-1931, Bonanno Federico, Settimo
della Cass., 1931, 1369.
Obbligo della notifica all’Ufficio
Araldico dell’inizio delle contestazioni giudiziarie su titoli nobiliari
Può anche darsi che la vertenza giudiziaria in materia di diritti
nobiliari sorga fra privati. In questo caso è sempre interesse
della R. Prerogativa di intervenire nel giudizio. In proposito una disposizione
era stata dettata nell’art. 2 del R. D. L. 20 marzo 1924, n. 442,
la quale è stata trasfusa nell’art. 126 dell’ordinamento.
Essa dice: «Nessuna domanda o contestazione sull’appartenenza
di titoli o attributi nobiliari può avere corso avanti l’autorità
giudiziaria, sia per impugnare uno dei provvedimenti di cui all’articolo
precedente (cioè sia di grazia o di giustizia), sia per iniziare
in giudizio di rivendicazione di diritti nobiliari in confronto di terze
persone o del Regio Governo, se l’interessato non dà la prova
di aver notificato l’atto di citazione in primo o secondo grado,
o il ricorso in Cassazione, all’Ufficio Araldico presso la Presidenza
del Consiglio dei Ministri, che in ogni caso ha diritto di prendere parte
ai giudizi in rappresentanza della R. Prerogativa, con l’assistenza
della R. Avvocatura dello Stato36
».
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36 - C. App. Palermo 2 luglio 1931, Federico-Perez, For.
Sic., 1932, 42: l’Ufficio Araldico nella rappresentanza della Prerogativa
Sovrana e nelle ragioni dei legittimi aventi diritto ha fac0ltà
di instare in giudizio per la inammissibilità delle domande di
chi pretenda a titoli nobiliari. – C. App. Catania, 2-9-1931, Consulta
Araldica, Paternò c. Consulta Araldica, in Rass. Giudiz., 1931,
483: La Consulta Araldica, in rappresentanza della R. Prerogativa è
parte in causa nei giudizi nobiliari, ed indipendentemente dalla esistenza
di altri contraddittori, può opporsi all’attribuzione dei
titoli a colui che, a suo avviso, non vi abbia diritto. – Cass.
22-12-1932, Federico-Perez, Giur. It., 1933, 1-1, 201: Nelle controversie
sull’appartenenza di titoli nobiliari l’Ufficio Araldico è
parte in giudizio quale rappresentante della R. Prerogativa. - C. App.
Catania, 5 dicembre 1932, Paternò-Impellizzeri, Rass. Giudiz.,
1933, 1, 38: La Consulta Araldica in rappresentanza della R. Prerogativa,
è parte in causa nelle contestazioni nobiliari ed in tale qualità
ha facoltà di proporre tutte le ragioni che essa ritenga si oppongano
alla attribuzione dei titoli a chi li rivendica . La Consulta Araldica,
intervenendo nei giudizi nobiliari in rappresentanza della R. Prerogativa,
non può subire condanna alle spese, ancorché rimanga soccombente.
Obbligo di promuovere la iscrizione
nei registri della Consulta Araldica delle decisioni dell’autorità
giudiziaria
Intervenuta la decisione dell’autorità giudiziaria, coloro
ai quali in seguito alla contestazione sollevata, sia stato riconosciuto
con sentenza passata in giudicato il diritto a determinati titoli o attributi
nobiliari, devono promuovere la iscrizione di essi nei registri della
Consulta Araldica. L’iscrizione da parte dell’Ufficio Araldico
non è facoltativa, ma obbligatoria, poiché è stabilito
per la iscrizione stessa il termine di 60 giorni dalla presentazione della
domanda, accompagnata da copia autenticata, della sentenza (art. 127).
Questa disposizione è stata trasfusa nell’attuale ordinamento
dall’art. 3 del R. Decreto Legge 20-3-1924, n. 442, modificato dal
R. Decreto Legge 28-12-1924, n. 2337. Per coloro il cui diritto viene
riconosciuto dalla autorità giudiziaria, detta inscrizione per
poter far uso del diritto stesso è obbligatoria e non facoltativa
(v. n. 124). Ove per ipotesi l’Ufficio Araldico si rifiutasse di
fare la inscrizione, allora l’interessato potrebbe ricorrere, a
termini dell’art. 27, n. 4, del T. U. al Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale per obbligare l’Amministrazione a conformarsi, in
quanto riguarda il caso deciso al giudicato della autorità giudiziaria
che ha riconosciuto la lesione del suo diritto.
Uso dei titoli nobiliari - Obbligo
della iscrizione nei registri della Consulta Araldica dei titoli e attributi
nobiliari
Allo scopo di garantire in coloro che ne hanno titolo il legittimo uso
di titoli e attributi nobiliari col R. D. 20 marzo 1924, n. 442, furono
emanate disposizioni al riguardo.
L’art. 1 di detto Decreto stabilisce che nessuno può far
uso di titoli o attributi nobiliari se non sia iscritto come legittimamente
investito di tali titoli o attributi nei registri della Consulta Araldica.
Delle iscrizioni fa fede l’annotazione nell’Elenco ufficiale
nobiliare, la cui ultima edizione è quella pubblicata nel 1934
(v. n. 110).
La mancata o ritardata iscrizione non importa però decadenza dal
diritto, perché esso continua ad esistere, solo il titolare non
può farne uso, il diritto resta per cosi dire allo stato potenziale.
Inoltre l’art. 127 dell’ordinamento (v. n. 123) stabilisce
l’obbligo della iscrizione, in seguito a riconoscimento di diritti
nobiliari fatto dall’autorità giudiziaria.
Contravvenzione per uso illegittimo
di titoli
Ora colui che tale inscrizione non abbia curato, e che, sia in documenti
ufficiali, sia in qualsiasi atto giuridico o anche nei rapporti sociali
ordinari faccia uso di titoli o attributi nobiliari che non risultino
appartenenti da conforme iscrizione nei registri della Consulta, in base
all’art. 5 del R. D. 442, è punito con l’ammenda da
L. 1000 a L. 5000, e in caso di recidiva con una ammenda non inferiore
al doppio di quella precedentemente inflitta, oltre all’applicazione
delle pene pecuniarie stabilite dalla legge nei casi in cui l’uso
dei titoli sia subordinato al pagamento di una tassa di concessione governativa.
È questa la figura della contravvenzione amministrativa, detta
uso legittimo dei titoli, contravvenzione che può essere estinta,
prima dell’apertura del dibattimento o del decreto di condanna,
mediante il pagamento dell’oblazione in misura non inferiore alla
metà dell’ammontare dell’ammenda. In caso di recidiva
non è ammessa l’oblazione.
Per impedire questo uso illegittimo di titoli nobiliari è accordato
agli agenti autori delle denuncia di contravvenzione una quota delle ammende
applicate nelle singole contravvenzioni, per le quali si procede in seguito
a rapporti dell’intendente di Finanza e di qualunque pubblico ufficiale
od anche d’ufficio (art. 6 R. D. 442).
Inoltre i notai, gli ufficiali dello stato civile, tutti gli altri pubblici
ufficiali non possono attribuire ad alcuno in atti pubblici o in qualsiasi
altro documento di carattere ufficiale titoli od attributi nobiliari,
se non risultino appartenenti all’interessato dagli elenchi ufficiali
nobiliari, o se l’interessato non dimostri esserne investito esibendo
un certificato di iscrizione nei registri della Consulta. Eguale obbligo
spetta ai presidenti dei consigli di amministrazione o direzione di corpi
morali, di società, di associazioni, di circoli, nella compilazione
degli elenchi dei componenti e nei rispettivi atti contravventori a questa
disposizione (art. 4 R. D. 442) sono puniti con l’ammenda da L.
500 a 1000.
Delitto di usurpazione di titoli
Nel caso invece di colui che, come dice l’art. 498 c. p., si arroga
titoli, e cioè se li attribuisce indebitamente facendone mostra,
e con coscienza di non aver alcun diritto, siano questi titoli di nessuno
o appartengano legittimamente ad altri, si ha la figura del delitto di
usurpazione di titoli, punibile con la multa da L. 1000 a lire 10.000.
Tanto nella contravvenzione di uso illegittimo di titoli che nel delitto
di usurpazione di titoli, la condanna importa la pubblicazione a cura
dell’Intendente di Finanza, di un estratto della sentenza in uno
o più giornali. La spesa occorrente, a carico del condannato, è
liquidata dal Tribunale con ordinanza avente forza di titolo esecutivo
non soggetto ad impugnazione.
Azione di tutela dei titoli:
di reclamo e di contestazione
Colui che è legittimamente investito di titoli e attributi nobiliari
ha a tutela dei suoi diritti verso i terzi, due azioni da far valere avanti
l’autorità giudiziaria, quella di reclamo e quella di contestazione.
Quella di reclamo è detta anche di rivendicazione del titolo, ma
meno esattamente, perché la rivendicazione include il concetto
del diritto di proprietà, che in fatto di titoli non può
ammettersi (v. n. 112).
Con l’azione di reclamo il titolare mira a eliminare le molestie
e le contestazioni mosse da terzi, che gli impediscono o gli ostacolano
il libero esercizio del suo diritto al titolo. Chi esperimenta l’azione
deve provare il suo diritto al titolo e dimostrare le contestazioni o
le molestie mosse da colui contro il quale egli agisce.
L’azione di contestazione, detta anche di usurpazione, mira ad impedire
che altri, ledendo il suo diritto, faccia uso illegittimo del titolo di
cui non è titolare. Colui che esperimenta l’azione deve dimostrare
il suo diritto al titolo e l’uso illegittimo di esso da parte del
convenuto37
. Questa azione è indipendente da quella penale per il reato di
usurpazione di titoli (v. n. 125).
Le due azioni di reclamo e di contestazione di titoli mirano, di regola,
ad ottenere dal magistrato la dichiarazione della pertinenza del diritto
al titolo, ma possono anche tendere ad ottenere il risarcimento dei danni
prodotti dalla molestia e dalla usurpazione 2).
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37 - C. App. Palermo, 18-10-1930, Bonanno-Bonanno, Riv.
Dir. Priv. 1931, II, 104: La dichiarazione di appartenenza del titolo
o della distinzione nobiliare è di competenza dell’autorità
giudiziaria riguardando un vero e proprio diritto subbiettivo da cui promana
azione giudiziaria in confronto di coloro che il titolo medesimo usurpano:
Cass. Regno, 17-7-1931, Bonanno c. Federico, in Settimana della Cass.,
1931, 1369: Il titolo nobiliare come parte integrante del nome va considerato
come diritto della personalità umana, e pertanto chi del titolo
o di una distinzione nobiliare è in possesso, con facoltà
di avvalersene, acquista il diritto e l’interesse a vietarne le
indebite assunzioni indipendentemente dal presupposto di una ingiuria
o di un danno economico.
Testo del R. D. 22 settembre
1932 n. 1464 relativo all’imposizione di tassa per i provvedimenti
nobiliari «di giustizia»
Il R. D. 22 settembre 1932, n. 1464, concernente la imposizione di tassa
pei provvedimenti nobiliari di «giustizia» (v. n. 69, 106)
cosi suona:
ARTICOLO 1. Sono soggetti al pagamento di una tassa nella misura di un
ventesimo di quella stabilita dal titolo III, tabella A, n. 13, allegata
al R. Decreto 30 dicembre 1923, n. 3279, per la concessione od autorizzazioni
dei corrispondenti titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari, i
seguenti provvedimenti araldici, da emanarsi a termini dell’art.
11 del R. Decreto 21 gennaio 1929, n. 61:
a) primo riconoscimento della legale spettanza ad una famiglia di titoli,
predicati, qualifiche e stemmi nobiliari;
b) riconoscimento della devoluzione per successione agli aventi diritto
di titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari ereditari già
riconosciuti ai termini della precedente lettera a), di quelli pontifici
per cui fu già autorizzato l’uso, nonché di quelli
concessi da potenze estere, per i quali fu autorizzata l’accettazione;
c) autorizzazione ad usare nel Regno titoli, predicati, qualifiche e stemmi
nobiliari concessi o riconosciuti da una potenza estera ai propri sudditi,
siano questi od i loro successori tuttora stranieri residenti nel Regno,
o divenuti in seguito cittadini italiani; ,
d) autorizzazione ad uno straniero di usare titoli, predicati, qualifiche
e stemmi nobiliari italiani legittimamente pervenutigli.
ARTICOLO 2. Sono soggetti al pagamento di tassa nella misura stabilita
dall’articolo precedente i provvedimenti previsti dagli articoli
59, 60, 65, 66 e 68 dell’ordinamento dello stato nobiliare italiano,
approvato con R. Decreto 21 gennaio 1929, n. 61.
ARTICOLO 3. Quando i provvedimenti di cui sopra riguardano più
titoli, la tassa di cui all’articolo precedente è dovuta
soltanto per il maggiore di essi.
ARTICOLO 4. Il presente decreto entra in vigore il giorno della sua pubblicazione
nella Gazzetta ufficiale del Regno (23 novembre 1932).
1) STOLFI, Dir. civ., cit., pag. 102.
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